CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 597

Nuovo presidente alla Fondazione “Accorsi-Ometto” di Torino

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Costanzo Ferrero succede al Cavaliere Giulio Ometto

Castagnolese, 69 anni, sposato, due figlie e due nipoti, da vent’anni fedelissimo e fidatissimo “braccio destro” e consigliere economico-finanziario del Cavaliere Giulio Ometto, mancato il 18 giugno scorso, è Costanzo Ferrero il nuovo Presidente della Fondazione “Accorsi-Ometto”   di via Po, a Torino. La nomina – informa una nota della stessa Fondazione – è arrivata dal Consiglio d’Amministrazione dell’ “Accorsi-Ometto”, di cui Ferrero era già membro effettivo, riunitasi martedì 9 luglio scorso per notificare le ultime volontà del Presidente Ometto. Volontà che vedono, per l’appunto, la designazione immediata a suo successore del ragioniere Costanzo Ferrero e del dottor Luca Mana, attuale responsabile delle collezioni museali, a direttore artistico, la cui effettiva elezione (insieme a quella del nuovo consiglio artistico) verrà però ratificata nella prossima seduta del 26 settembre. Il Cavaliere Ometto ha inoltre designato la stessa Fondazione come erede universale di tutti i suoi beni mobili ed immobili. In sede di consiglio, è stato riconfermato come Vice-Presidente il dottor Guido Appendino e sono stati nominati due nuovi consiglieri: il dottor Luigi Rigorini da sempre restauratore della Fondazione “Accorsi-Ometto” e il dottor Giancarlo Garau.

Costanzo Ferrero comincia la sua attività lavorativa nel 1971 presso l’allora Banco di Roma avviando una brillante carriera che lo porta a diventare capo filiale e successivamente capo della Private Banking di Torino. Dal 2004 al 2009, matura anche un’importante esperienza politico-amministrativa come sindaco di Castagnole Piemonte. Senza però lasciare i suoi impegni professionali in ambito bancario. Dal settembre 2006 passa, infatti, a Banca Fideuram, in qualità di Private Banker TOP– Gestione Grandi Patrimoni, dove lavora fino al 31 dicembre 2017, anno in cui va in pensione per dedicarsi prevalentemente alle attività della Fondazione “Accorsi-Ometto”. Nel 2008 partecipa al corso di International Wealth Management organizzato dell’Imperial College London – Tanaka Business School e nel 2010 al corso di Elementi di Wealth Advisory organizzato dalla Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi di Milano. Dal 2006 è consigliere della Fondazione “Accorsi-Ometto” e dal 2014, in stretto contatto con il Presidente Ometto, si occupa della sezione finanziaria, del bilancio e della gestione del personale, partecipando in modo sempre più attivo alla vita della Fondazione e mettendo a disposizione le proprie competenze ed esperienze lavorative.

 

g. m.

L’ eredità artistica di Patrizia Motetta in mostra al Forum di Omegna

Sabato 13 luglio, alle 18, verrà inaugurata a Omegna, sul lago d’Orta, la mostra di pittura “L’ eredità artistica di Patrizia Motetta

L’artista, tragicamente scomparsa un anno fa a 52 anni, era figlia dell’ex deputato del PCI Gianni Motetta. L’evento è promosso dall’Associazione “I Lamberti” in collaborazione con il Forum e l’assessorato alla cultura della Città di Omegna. Quella di Patrizia Motetta , come ricorda il critico Giulio Martinoli, “è una pittura dalle forme ricche e movimentate, nella quale confluiscono varie culture in una sapiente miscellanea”. Una pittura di narrazione, una sorta di diario per immagini gran parte dipinto su carta con le tecniche più diverse:tempere, acquerelli,acrilici, pastelli, matite. “Vedere le sue opere – ha scritto l’artista omegnese Giorgio Rava – è stato come immergersi in un mondo fantastico, pieno di sogni e di incubi, dove emergono interiorità che sprofondano dentro un inconscio oscuro e al tempo stesso solare. Sono paesaggi dell’anima, tra radici di pianure russe e anche monti, laghi e mostri nostri che l’hanno accolta”. La mostra sarà visitabile presso il Forum “Fondazione Museo Arti e Industria” al Parco Maulini di Omegna fino al 28 luglio, dal martedì alla domenica, dalle 15 alle 18.

Marco Travaglini

Oltre sessantamila presenze e 2 milioni di ricaduta economica segnano il successo della 36ma edizione del TFF

Presentato a palazzo Birago lo studio voluto dalla Camera di Commercio di Torino

 

“Questo nuovo studio conferma il nostro impegno nel fornire dati oggettivi e misurabili sugli impatti degli eventi culturali, artistici e sportivi che si svolgono nella nostra città – commenta Vincenzo Ilotte, Presidente della Camera di Commercio, presentando nelle sale di palazzo Birago i risultati relativi all’indagine promossa dalla Camera stessa e realizzata dalla Fondazione Fitzcarraldo sui ritorni della edizione 2018 – la 36ma – del Torino Film Festival. “Il Torino Film Festival, con ritorni complessivi quantificabili in oltre 2 milioni di euro, si conferma un evento di grande richiamo per un pubblico di appassionati e professionisti, capace sia di mettere in moto l’economia cittadina nell’ambito dell’ospitalità (hotel, ristoranti, etc.), sia di far convergere sul territorio importi significativi nel campo delle sponsorizzazioni private”. Un appuntamento divenuto sempre più importante, se si pensa che per l’edizione in questione le presenze sono state complessivamente 62.500, 2161 gli accrediti professionali e stampa, 26.641 i biglietti venduti e 871 i pass giornalieri mentre 644 sono stati gli abbonamenti.

Prendendo a campione un gruppo di circa 800 persone, non residenti a Torino (distinguendo altresì tra chi era presente in città appositamente per il festival e chi casualmente, persone che quindi avrebbero generato ricadute anche in assenza sello stesso) e interrogandole sulla cifra spesa per il soggiorno durante il festival, si raggiunge quota 777.229 euro, mentre il Museo Nazionale del Cinema ha speso per l’organizzazione 1.371.042 euro, cui vanno aggiunte le numerose sponsorizzazioni tecniche ottenute, che hanno garantito servizi gratuiti in tutte le principali aree, comunicazione, promozione, ospitalità e logistica: il loro valore è quantificabile attorno ai 400mila euro. Si tenga presente che per quanto riguarda l’apporto del pubblico, si deve ancora distinguere le diverse tipologie di visitatori, coloro che sono presenti senza pernottamento, coloro che hanno soggiornato presso strutture ricettive (Airbnb 24,1% e in albergo 21,9%) e infine quanti sono stati ospiti di amici e conoscenti (38%).

Cifre queste ci parlano di ricaduta economica ma che ci permettono di dare un volto assai preciso ai visitatori e ai cinéphiles. Con un’età che va dai 18 ai 64 anni, donne e uomini si equivalgono (49,3% e 50,7%), il 65% degli intervistati ha una formazione universitaria e una laurea, la fascia di maggior fruizione è quella giovanile tra i 25 e i 34 anni. Il 57,2% si dichiara “appassionato”, “è uno dei miei interessi, non il principale” afferma il 21,7% e “lavoro nel settore” il 19,3%, soltanto l’1,8% informa che “ogni tanto mi piace guardare un film”. Di costoro l’81% ha partecipato almeno ad una precedente edizione e il 76% va al cinema più di 12 volte l’anno (in Italia secondo i dati ISTAT 2017 solo il 4,9%). Importanti anche i dati strettamente legati al Museo del Cinema: il 53% degli intervistati dichiara “l’ho visitato” o “ho intenzione di farlo durante lo svolgimento del festival”, mentre il 41% esprime l’idea di “visitarlo nuovamente”.

Se l’appuntamento annuale del TFF lo si apprende principalmente attraverso il passaparola (27,4%), il sito web (19,9%) e i manifesti e i volantini (19,1%: di cui fa parte con un 30,2% un encomiabile “lo conosco da sempre”), il giudizio complessivo del Festival è un considerevole bell’8, suddividendo il programma in “ricco” (59,2%), “adeguato ma si potrebbe ancora ampliare l’offerta” (33%), con grande felicità della direttrice Emanuela Martini, che non dimentica nemmeno però quel 6,2% secondo cui il programma “è troppo denso, si dovrebbe snellire”. “Il pubblico apprezza la qualità delle proposte e soprattutto si è stabilito un rapporto di fiducia, non è scontato vedere una sala piena in un tardo pomeriggio per un film del sud-est asiatico di un autore di cui non si sa assolutamente nulla o quasi. Inoltre ampliare significa un numero maggiore di sale a disposizione, una maggior spesa, un più folto gruppo di volontari e addetti, un’idea che a molti piace e che forse si potrebbe considerare”.

 

Elio Rabbione

 

Nelle immagini, il manifesto della 36ma edizione del Torino Film Festival dedicato a Rita Hayworth, e una scena di “Wildlife” di Paul Dano, vincitore come miglior film.

Le giovani promesse dello Stabile tra “Bisbetica” e “Otello”

Al Carignano, repliche sino al 21 luglio

 

Per il secondo finale di stagione, lodevolissimo quanto piacevole appuntamento al Carignano. Ovvero quel Prato inglese che vede, al riparo delle calure estive, la sala riporre in magazzino buona parte delle poltrone di platea e venir occupata da un soffice manto verde che quest’anno ospita La bisbetica domata e Otello (fino al 21 luglio, a sere alterne), emblemi dei versanti divertente e tragico del mondo shakespeariano, e altresì si prende il merito di formare pressoché un corpo unico tra scena e spettatore. Non solo per gli ammiccamenti e per i piccoli dialoghi che qualche attore instaura con qualcuno tra il pubblico, gli a parte come se fossero dirette confessioni, ma pure per quel coinvolgimento assai più concreto che si viene a creare, di partecipazione e di sentimenti condivisi.

In una sorta di soffocante bric-à-brac che invade le sponde, e non soltanto, del nuovo esteso palcoscenico, poltrone scalcagnate, letti, coperte polverose, bambole, altarini, slot machine, seggiole, fiori di carta, cassette per l’acqua a fare da sedili, lampade e lampadari (le scene sono di Gregorio Zurla, i costumi di Alessio Rosati), il primo titolo vede la guida di Elena Gigliotti, che agguanta con una buona dose di dinamismo il caratteraccio di Caterina e la sua sfrontatezza – laddove Alice Spisa si fa in quattro per l’energia che butta nel personaggio, senza risparmio -, la voglia di libertà e la resa ai modi rudi di Petruccio, non tanto innamorato pazzo quanto più sbruffone assai simile ai montanari di 7 spose per 7 fratelli – con il difetto in Damien Escudier di non lasciar avvertire le tappe dei suoi mutamenti, di burbero matricolato prima e di caramelloso poi –, per sfilacciare il tutto con brani musicali e balletti che devono aver dato un gran da fare alla coreografa Claudia Monti. È chiaro che “l’essenza e lo spirito del Bardo” non vengono traditi, ma la sensazione è quella di vedere del tutto appannata la centralità della vicenda. Ben altrimenti corposo Otello, affidato alla regia di Marco Lorenzi, una Venezia che si confonde con le postazioni per il trucco degli attori, una scritta sul fondo ad indicare il cuore della tragedia, “io non sono quello che sembro”, un biglietto da visita che denuncia l’essere e l’apparire e che offre le subdole credenziali di Iago come quelle disperate del Moro.

E poi Cipro, che è una grande scritta luminosa (le scene ancora di Gregorio Zurla, i costumi, azzeccatissimi tra l’attualità e le preziose stoffe rinascimentali, ancora di Alessio Rosati), dietro cui si consumano false amicizie e sospetti, tradimenti e brutali assassinii. L’innamoramento di una ragazza per il suo eroe e di questi per lei e per la sua purezza, l’infamia di quell’anima del male che è Iago, ebbro di ragionamenti e di crudeltà sussurrate all’orecchio, la povera Emilia trascinata in un gioco più grande di lei, Cassio e Roderigo…: sotto ogni azione, ogni meccanismo che porta al male, all’ombra di ogni personaggio rimane ben saldo il rispetto del testo, il cammino della tragicità avanza in un crescendo sempre condotto con grande padronanza, lo sfruttamento degli spazi è eccellente e la carneficina finale chiude un progetto che avrebbe potuto trovare a ragione un suo spazio nel cartellone principale dello Stabile torinese.

Con differenti mezzi e meriti, undici attori intorno ai trenta si dividono i ruoli nella doppia serata, mettendo in campo tutta la loro agile e spericolata giovinezza e dando la certezza di saper affrontare qualsiasi registro con un buon carico di padronanza. Escudier risolve positivamente il suo Otello, Camilla Nigro è Bianca e soprattutto una Desdemona perfetta nei sentimenti d’amore e nell’incredulità che l’accompagna al letto di morte, Barbara Mazzi è la Vedova e in primo luogo Emilia, Angelo Tronca uno Iago da tener d’occhio, freddo distruttore delle esistenze altrui, Marcello Spinetta, all’interno della Bisbetica, si gioca con straordinaria bravura tre ruoli, Alice Spisa si ritaglia ancora – e con grande estro – il breve ruolo di Bianca nella vicenda del Moro. Con i loro compagni a ricevere i tanti applausi che il pubblico del Carignano, divertito e attento, ha voluto loro tributare.

 

Elio Rabbione

 

Le foto degli spettacoli sono di Laila Pozzo; nell’ordine, due momenti della “Bisbetica domata” (Alice Spisa e Damien Escudier come Caterina e Petruccio) e due tratti dall’”Otello” (ancora Damien Escudier che è Otello, Angelo Tronca Iago e Camilla Nigro Desdemona; Camilla Nigro e Michele Schiano di Cola che è Cassio)

Beni sacri e culturali

Nel generale contesto dei Beni di interesse culturale, quelli di carattere sacro occupano un segmento di particolare rilievo, poiché costituiscono in ambito nazionale, una percentuale assai elevata che copre una rilevante percentuale dell’intero patrimonio artistico italiano

Tuttavia ancor oggi e nonostante l’aumentata tutela esercitata da coloro ai quali è preposta la conservazione, sono frequenti le sottrazioni imputabili alla casualità della scelta, oppure alla commissione proposta da committenti che desiderano appropriarsi illecitamente di un bene particolare e ben definito.. In tal senso si è inserito il corso di formazione che la Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, unico in Italia nel suo genere, ha ancora una volta, offerto alle Forze dell’Ordine in generale, ed a tutti i cittadini interessati, ivi compresi professionisti del settore ed operatori di Associazioni finalizzate alla promozione dei Beni Culturali, per migliorare il bagaglio delle loro conoscenze. L’attività svolta è stata convenuta anche d’intesa con la Parrocchia di Pecetto di Valenza. L’articolazione delle lezioni che si sono svolte presso ambienti ricchi di opere sacre o presso il Comando Provinciale di Alessandria dell’Arma dei Carabinieri, ha previsto un totale di molte ore di didattica e di pratica, suddivise in un primo intervento propedeutico, sulla natura del Bene culturale di uso sacro, finalizzato a discernere fra suppellettile, paramento, arredo, iconografia, abito ed apparato liturgico, ed un successivo confronto di valutazione pratica dei Beni medesimi. Il corso, totalmente gratuito, diretto dal professor Luciano Orsini Delegato vescovile per i Beni Culturali  della Diocesi di Alessandria, e titolare del progetto didattico di formazione e tutela, si è regolarmente svolto, come negli anni precedenti, a partire dalla fine del mese di ottobre 2018, con lezioni anche bisettimanali dalle ore 14,00 alle ore 16,30, presso la Sala riunioni del Comando Provinciale dei Carabinieri, piazza Vittorio Veneto oppure, secondo le opportunità, presso la Cattedrale di Alessandria o chiese del territorio, ed è stato frequentato da tutti coloro che hanno intenso acquisire un bagaglio di conoscenza specifica, concludendosi poi, all’inizio del mese di giugno 2019. Grazie alla ripetuta sensibilità della Fondazione, nel prossimo anno di formazione saranno disponibili i due tomi curati dal docente che consentiranno anche uno specifico ed insostituibile supporto didattico, fornito ai corsisti. Le iscrizioni per il prossimo ciclo che inizierà a ottobre, possono essere effettuate già fin d’ora rivolgendosi al 340 1280335.

Massimo Iaretti

 

Un Jihad medioevale tutto italiano. Un libro ne racconta la storia

Focus internazionale Storia / di Filippo Re

Ci fu un tempo molto lontano in cui la penisola italiana fu percorsa, sconvolta e terrorizzata da un Jihad islamico. Era l’epoca in cui anche il Papa diventava un guerriero e in sella a un bianco cavallo lanciava il suo esercito contro gli invasori saraceni nelle prime “guerre sante” della Storia. Una vicenda tutta italiana. Accadde oltre mille anni fa con una sorta di jihad medioevale che tenne in scacco l’Italia centro-meridionale e le sue isole, spaventando anche Roma, cuore pulsante della Cristianità nel mondo. Una lotta santa con la spada in mano decollata dalla Sicilia nel IX secolo per volere degli emiri tunisini aghlabiti e proseguita lungo le isole del Mediterraneo e nell’entroterra, dalla Provenza al Tirreno e all’Adriatico, dai covi dei pirati saraceni al Fraxinetum (presso Saint Tropez) alla colonia araba sul fiume Garigliano e alle bande maomettane che nel 840 conquistarono Taranto, nell’846 saccheggiarono Roma con le chiese di San Pietro e San Paolo senza dimenticare l’emirato di Bari e l’insediamento arabo di Taranto nel mezzo delle aspre lotte tra bizantini e longobardi. L’islam in Italia nell’Alto Medioevo è una pagina di storia poco conosciuta e quasi dimenticata ma che ancora oggi fa discutere gli storici. Si trattò di una vera guerra santa islamica contro gli infedeli con obiettivi di conquista nel segno di un violento fanatismo religioso o più semplicemente un arco di tempo più o meno lungo segnato da scorrerie, saccheggi e occupazione temporanea di città e fortezze da parte dei musulmani? Certo è che agli inizi del X secolo la situazione si stava complicando per i cristiani. Dopo aver occupato la Sicilia gli arabi penetrarono nella penisola prendendo Reggio Calabria e avvicinandosi a Cosenza. Le ambizioni egemoniche dell’emiro tunisino Abdallah Ibrahim gettarono nel panico anche i romani che videro avvicinarsi i musulmani. Ma la morte improvvisa, nel 902, dell’emiro e la sconfitta delle forze arabe alla foce del Garigliano, a Traetto (in provincia di Latina), sede di un presidio militare islamico che minacciava anche Roma, fermò gli islamici che attorno al fiume avevano insediato una base da cui partivano per compiere devastanti incursioni nelle regioni vicine. È qui che Papa Giovanni X alla testa di una milizia armata annientò gli arabi del Garigliano con l’appoggio di contingenti militari bizantini, germanici, longobardi, di Napoli, Gaeta, Capua e Benevento.

Dopo un assedio di tre mesi, nell’estate del 915, la coalizione cristiana bloccò il delta del Garigliano, impedendo agli invasori di fuggire. Alle vicende storiche concernenti il tentativo degli arabi di conquistare una parte della penisola italiana tra il IX e il X secolo, di cui si sa ben poco, è dedicato il libro “915. La battaglia del Garigliano, cristiani e musulmani nell’Italia medievale”, Il Mulino. Il volume di Marco Di Branco, studioso di storia romana, bizantina e islamica, docente alla Sapienza e a Beirut, parte proprio dal racconto della battaglia sul Garigliano per poi ripercorrere le tappe principali dell’espansione islamica nell’Italia centro-meridionale. La conseguente distruzione della base islamica segnò la fine delle incursioni saracene in Campania e nelle regioni dell’Italia centrale. Fu una grande affermazione per la lega cristiana e l’evento fu definito da alcuni storici “la più gloriosa impresa nazionale compiuta dagli Italiani nel X secolo”. E fu un successo personale per Giovanni X il cui ritorno a Roma “fu simile al trionfo di un vincitore delle guerre puniche”. Si trattò di un duro colpo all’espansione islamica nel Mezzogiorno ma i saraceni non si fermarono del tutto e colpirono ancora le città di Oria, Siponto e Taranto nel 925-928. L’insediamento sul Garigliano, tra il Lazio e la Campania, che aveva funzioni non solo militari ma era una vera colonia con case, famiglie e una moschea, fu l’ultima roccaforte musulmana sulle coste del Mar Tirreno. Si spensero così i sogni di conquista degli invasori arabi che avevano già fondato l’emirato di Bari (847-871) con il benestare del califfo abbaside di Baghdad. Dai minareti della grande moschea di Bari si alternarono tre emiri in 24 anni. Insediamenti arabi sorsero a macchia di leopardo anche ad Amantea in Calabria, ad Agropoli in Campania, ad Abriola e Pietrapertosa in Basilicata e a Taranto. Fatti che dimostrano l’estensione della presenza musulmana in Puglia e nel meridione a cui bisogna aggiungere, nel Duecento, la Lucera dei Saraceni, dove Federico II, l’imperatore siculo-germanico, trasferì gran parte dei musulmani rimasti in Sicilia. Ma l’emirato più importante fu quello di Bari che resistette per quasi 30 anni per poi cadere nella mani dell’imperatore franco Ludovico II nell’871 dopo tre anni di assedio. Per Di Branco, diversamente dalle tesi di altri storici, le scorrerie arabe sul territorio della nostra penisola alla fine del primo millennio non furono solo semplici incursioni piratesche con razzie, saccheggi e massacri ma molto di più. Si trattò piuttosto di una vera e propria guerra di conquista attuata dagli emiri tunisini che cercarono di approfittare delle divisioni politiche che scuotevano la penisola.

L’isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità nel mondo dei libri

 A cura di Laura Goria

Karmen Korn “E’ tempo di ricominciare” -Fazi-   euro 20,00

E’ il secondo capitolo della trilogia scritta dalla giornalista e scrittrice tedesca Carmen Korn che racconta la sua città, Amburgo, attraversando la Storia, quella con la S maiuscola. Una saga al femminile che in Germania è diventata un vero e proprio caso editoriale. Ruota intorno all’amicizia tra quattro donne molto diverse tra loro, tutte nate nel 900 e travolte da due guerre mondiali, il nazismo e l’antisemitismo. In “Figlie di una nuova era” le avevamo conosciute nel pieno della loro giovinezza, intorno agli anni 20.Henny, ostetrica di buona famiglia; Käthe, di natali modesti, comunista convinta, insegue l’emancipazione; Ida ricca e viziata, ha sposato per convenienza l’intraprendente Friedrich Campmann, ma è innamorata del cinese Tian; Lina che ha avuto vita difficile ed è sopravvissuta grazie al sacrificio dei suoi genitori, letteralmente morti di fame per salvarla.Ora le ritroviamo nel 1949 a guerra finita, nazisti sconfitti, città ridotte in macerie e da ricostruire, vite da reimpostare.

Ed è tempo di ricominciare a vivere. Non vorrei svelare troppo, però posso anticiparvi alcune cose. Henny è riuscita a sposare il suo grande amore Theo; chissà se Käthe sarà davvero scomparsa come sembrava; Ida invece ha mandato all’aria il suo matrimonio ed ora è annoiata dal modesto menage con Tian; Lina riesce ad aprire con successo una libreria con la sua compagna Louise. Questi spunti sono solo l’inizio di più di 560 pagine in cui si affacciano anche personaggi nuovi, a partire dai figli di alcune protagoniste che imbastiscono le loro vite. Tutto sullo sfondo della ripresa economica tedesca, le rivoluzioni sociali degli anni 50-60, il Muro di Berlino, lo sbarco sulla Luna, la paura del nucleare…..insomma tante pagine di Storia vera in cui la Korn sguinzaglia i suoi personaggi….

 

Alessia Gazzola “Lena e la tempesta” -Garzanti-   euro 16,40

Dall’autrice della fortunatissima serie “L’allieva”, di straordinario successo anche in Tv, ora un romanzo in cui non ci sono delitti da risolvere, ma buchi dell’anima da riparare. Un libro ben diverso da quelli in cui a farla da padrona è l’anatomopatologa pasticciona, divertente e dotata di fiuto investigativo, Alice Allevi.Va detto che uno dei tanti   talenti della Gazzola è quello di farci comunque affezionare sempre e fin da subito alle sue eroine. In questo caso, protagonista è la giovane Lena, disegnatrice al momento in carenza di ispirazione, scarso conto in banca e solitudine a palla, che pensa: “Ho quasi trent’anni e una vita fatta di cocci che non riesco a rimettere a posto.

E’ arrivato il momento di fermarmi e guardare in faccia cosa o chi mi impedisce di farlo”.Nasconde un terribile segreto, un fattaccio di cui è stata vittima da ragazzina che crede sia stato perpetrato da un amico di famiglia, una violenza che ancora a distanza di tanti anni le impedisce di stringere relazioni affettive e le divora l’anima. Alle spalle ha una famiglia sgangherata. Il padre è uno scrittore famoso e di culto, ma irraggiungibile: si è separato dalla madre di Lena, risposato, ha fatto un altro figlio ed ora vive in America. La mamma di Lena è una folcloristica Metella, “lunga chioma color glicine, la grande borsa alla Mary Poppins e l’abbigliamento hippie”. Donna di grande ironia e anche un po’ sfasata: dopo il divorzio si è costruita il successo come scrittrice di romanzi d’amore sotto pseudonimo, ed ora vive a Parigi. Lena ha avuto in regalo dal padre la suggestiva villa sull’isola di Levura, un posto incantato, affacciato sul mare e un po’ lasciato andare. Per sopravvivere (in più sensi) dopo 15 anni di assenza, torna e pensa di rimettere a posto ed affittare la casa. Al contempo si organizza nella deliziosa minuscola dependance. Ma l’oasi di pace la ribalta anche all’indietro e in ricordi spiacevoli: perché è proprio lì a Levura che anni prima tutto è accaduto. Poi sulla sua strada ecco comparire un affascinante dottore. Si chiama Tommaso e vive nel faro a poca distanza dalla casa di Lena. E’ dotato di quel tanto di mistero che non guasta mai, anzi aggiunge pepe e intrigo alla storia. Riuscirà a scalfire e penetrare la fredda corazza della giovane? Mentre vi tuffate nel mare cristallino del romanzo, tra profumi di agrumi e scorci d’estate, scoprirete come va a finire…

 

Pino Imperatore “Con tanto affetto ti ammazzerò” -DeA Planeta- euro 15,00

Ritorna la squadra vincente inventata dallo scrittore e umorista napoletano Pino Imperatore, che abbiamo già conosciuto ed amato in “Aglio, olio e assassino”. L’ispettore di polizia Gianni Scapece, il commissario Carlo Improta e i membri della famiglia Vitiello, questa volta sono alle prese con un nuovo caso “blasonato”. Tutto inizia con la sparizione della baronessa Elena De Flavis durante la festa per i suoi 90 anni organizzata nell’avita dimora, Villa Roccaromana (una delle ville più belle di Posillipo) e del suo fedelissimo maggiordomo cingalese Kiribaba. All’evento -oltre alla crème de la crème di nobiltà, borghesia e mondo intellettuale ed artistico partenopeo- sono stati invitati anche il commissario Carlo Improta e l’ispettore Gianni Scapece che, impotenti, assistono a una scena apocalittica che non vi sto a dire. Ed ecco il primo di tanti colpi di scena. Rapimento o altro? La baronessa discende da un illustre casato ed ha un ingente patrimonio di svariati miliardi. E’ conosciuta da tutti per la sua generosità e l’impegno costante nell’aiutare persone meno fortunate di lei, insomma è una grande filantropa con una moralità eccelsa. Peccato discendano dai suoi lombi tre figli per molti aspetti pericolosamente borderline.

Due, Roberto ed Emilia, avuti dal primo marito e il loro fratellastro Simone nato dal secondo matrimonio. Tre sfaccendati meschini, che si detestano l’un l’altro, covano rancori e gelosie divoranti. Ma, soprattutto, sono in attesa come avvoltoi dell’eredità dell’odiata madre. Già perché la Baronessa fin da quando erano piccoli ha assistito alle loro cattiverie e non è riuscita a raddrizzarli; una volta cresciuti non è che i loro animi si siano raffinati, anzi…Lei li ha sistemati in tre splendide dimore, ad Ischia, Capri e Sorrento, tre perle del golfo di Napoli, dove vivono nel lusso senza fare niente di positivo. Nullafacenti e spendaccioni, sono le spine nel cuore della nobildonna che li tiene a stecchetto quanto a contanti. Unica luce è la nipote Naomi, figlia di Emilia, che però grazie a Dio ha ereditato il Dna della nonna e non quello della madre. Questo il frastagliato quadro in cui si inserisce il mistero che è un susseguirsi di tanti colpi di scena, episodi tragici, altri esilaranti, e con una morale finale ben precisa che lascio a voi scoprire.

La scelta di Giulio

All’“Accorsi – Ometto” di Torino, l’opera di Giulio Boetto segna il “viaggio di un paesaggista nel secolo che distrusse il paesaggio”
Fino al 15 settembre


Non una semplice raccolta di opere, ma una sorta di suggestivo e ben pensato “spettacolo diffuso”. Bello e insolito. Evocativo e immersivo. Così Luca Mana, responsabile delle collezioni del Museo di Arti Decorative Accorsi – Ometto di Torino, descrive la mostra dedicata a Giulio Boetto (Torino, 1894 – 1967), fra i grandi della tradizione paesistica piemontese del Novecento, nelle sale (ma già a partire dal portico d’ingresso) dello stesso Museo di via Po. Rassegna che non è la consueta carrellata di opere testimoni, più o meno generose, del far pittura di un artista, ma un funambolico gioco di installazioni video – sonore ispirate a tre “soli” dipinti esposti in parete: oli su tela – celebri e di toccante vis emozionale – realizzati da Boetto nel 1918, il primo, e nel ’23 e ’47, il secondo e il terzo. Eccoli: “La casa del prete” a Polonghera, di geometrica quasi astratta essenzialità con le due figurine nere dei pretini che si perdono nel candore di una facciata che è un autentico monumento alla cultura rurale del tempo; “Luce del mattino a Sauze d’Oulx”, con lo svettante campanile romanico della Parrocchiale di San Giovanni Battista e quelle luci e quei colori e quelle nevi che tanto ci dicono della fortissima liaison umana e artistica intercorsa per tutta la vita fra Giulio Boetto e Matteo (Maté) Olivero;

“Fine del mercato a Saluzzo”, infine, un portento di bravura scenica, per l’attenzione ai minimi particolari del soggetto resi con rapidi vibranti tocchi di colore e una straordinaria capacità di creare trasparenti atmosfere sospese nell’ora e nel tempo. Quadri che la dicono tutta sul grande amore di Boetto – formatosi all’Accademia Albertina, sotto la guida di Giacomo Grosso e Cesare Ferro – per la pittura figurativa in genere e di paesaggio in particolare, da cui non volle mai allontanarsi, indifferente alle assordanti sperimentazioni delle Avanguardie artistiche che nel corso del Novecento arrivarono (in termini a volte anche molto discutibili) alla distruzione del paesaggio. A queste correnti, Boetto voltò le spalle. Anche fisicamente, scegliendo – ecco il senso del titolo dato alla rassegna – l’esilio volontario, lontano dalla città e dalla fama che già in abbondanza, alla fine della Grande Guerra, aveva comunque ottenuto con i suoi dipinti (alcuni perfino acquistati dalla Casa Reale), con le sue caricature (premiate nel ’14 all’Esposizione Internazionale di “Umorismo e Caricature” organizzata dal giornale “Numero”, fondato dal celebre Golia – Eugenio Colmo) e con le sue realizzazioni scenografiche e cartellonistiche richiestegli da alcune fra le più importanti Case di produzioni cinematografiche dell’epoca.

A trent’anni, l’artista decide di ritirarsi felice sotto le sue amate montagne, nel Cuneese, ai piedi del Monviso: a Revello prima e, dopo pochi anni, a Saluzzo nella casa e nello studio che furono dell’amico Olivero. “Scelta coraggiosa ed eroica, la sua. La scelta di un artista che, come tutti i grandi paesaggisti dell’Otto-Novecento, ha saputo trasmetterci quel particolare ‘genius loci’ sconosciuto alle tante Avanguardie del secolo scorso, interessate più che altro a fornire l’interpretazione dei luoghi e non ad esserne straordinaria testimonianza nel tempo”. A parlare è Giosué Boetto Cohen, curatore della mostra e nipote di Giulio, nonché giornalista, conduttore e regista di importanti progetti televisivi targati Rai, fra cui “La storia siamo noi” dell’era Minoli. E proprio a lui ( che già aveva curato due anni fa il debutto della mostra alla “Castiglia” di Saluzzo, per i cinquant’anni dalla morte del nonno) si devono le suggestive installazioni dialoganti, sullo schermo di avveniristici poliedri bianchi, con le tre opere esposte e accompagnate dal miracolo sonoro delle musiche di Marco Robino con l’Ensemble Architorti: repertori filmati che raccontano il “secolo breve”, insieme a novanta foto in gran parte inedite e alle riproduzioni di 83 opere di Boetto.

Promosso dal Comune di Saluzzo, insieme alla Fondazione Artea e alla Regione Piemonte con l’Associazione UrCA, al progetto hanno partecipato anche il Museo del Cinema e InTesta (Gruppo Armando Testa), che ha ideato una sorta di semi-serio divertissement proponendo un’ipotetica interpretazione dei paesaggi di Boetto così come avrebbero potuto essere realizzati da alcuni fra i maggiori interpreti delle Avanguardie artistiche Novecentesche: da de Chirico, a Picasso, a Fontana, solo per citarne alcuni, fino a Munck o a Rothko piuttosto che a Pollock. Gioco semi-serio, appunto. Che vale il tempo di un sorriso. Laddove, invece, c’è assai meno da sorridere confrontando le foto di luoghi e paesaggi così com’erano ai tempi del pittore “torinese di Saluzzo”, con gli stessi che oggi si presentano a noi. Paragoni rattristanti, per i disastri arrecati. E allora, quanto attuale potrebbe essere di nuovo, a quasi un secolo di distanza, quella famosa “scelta di Giulio”! Tanto coraggiosa. E tanto eroica.

Gianni Milani

“La scelta di Giulio”
Museo di Arti Decorative Accorsi – Ometto, via Po 55, Torino; tel. 011/837688 int. 3 o www.fondazioneaccorsiometto.it
Fino al 15 settembre
Orari: dal mart. al ven. 10/13 e 14/18; sab. dom. e festivi 10/13 e 14/19; lunedì chiuso

 

Nelle foto

– “La casa del prete”, olio su tela, 1918
– “Luce del mattino a Sauze d’Oulx”, olio su tela, 1923
– “Fine del mercato a Saluzzo”, olio su tela, 1947
– “Sauze d’Oulx”, stampa fotografica su carta, 1923
– “Mercato del bestiame”, stampa fotografica su carta, 193

 

“Battuta d’arresto”, per uscire dall’oblio

E’ online il corto scritto e interpretato da Franco Lana

E’ realizzato con la collaborazione di operatori e pazienti di un centro di recupero di Torino. Il film, “Battuta d’arresto”, narra le vicende di un ex attore, che dopo aver perso fiducia nelle persone e nella società, decide di ritirarsi. Toccherà ad un giornalista tirarlo fuori dall’oblio. Così facendo, lo salverà.

 

L’Accademia della Cattedrale tra musica e spiritualità

Incontriamo Giacomo Bottino, direttore artistico-culturale dell’Accademia della Cattedrale di San Giovanni, che ha come presidente il parroco del Duomo di Torino, don Carlo Franco

Quando è stata costituita l’Orchestra dei Virtuosi dell’Accademia di San Giovanni?
L’Orchestra è nata nel 2017, successivamente alla costituzione dell’Accademia della Cattedrale di San Giovanni, di cui rappresenta il primo e principale asse di sviluppo, finalizzato all’animazione del Duomo di Torino. D’altronde, l’architettura e la musica sono arti complementari: lo spazio costruito è un vuoto che ha bisogno di essere riempito e l’arte dei suoni si presta a questo riempimento in modo pervasivo. Quando musica e architettura si incontrano, lo spazio fisico e geometrico diventano “luogo” e gli strumenti musicali che vi risuonano conferiscono al luogo un’anima. Ricordo quello che scrive Palladio nel suo Trattato sull’architettura: “Le proporzioni delle voci sono armonia delle orecchie, così quelle delle misure sono armonia degli occhi nostri”.
Con queste premesse il Duomo di Torino ci è sembrato perfetto per mettere a punto un nuovo progetto di cultura e di pratica musicali.

– Quale la ragione del suo nome che è piuttosto originale?
In realtà il cantare e il suonare bene, con grande perizia tecnica ed espressiva, sono ovviamente fenomeni antichi quanto la musica stessa. Tra Sette e Ottocento questa capacità ha dato origine al cosiddetto “virtuosismo”, incentrato soprattutto su cantanti lirici, violinisti e pianisti, che hanno spettacolarizzato le loro esibizioni e dato origine a fenomeni di autentico divismo. Nel nostro caso abbiamo voluto rifarci al concetto di “virtuoso” così come si manifesta nel tardo Rinascimento e in modo particolare nel Barocco, contestualmente all’affermazione della musica d’assieme nella forma del “concerto”. Prevale, in quel tempo, l’idea che il musicista debba usare l’arte strumentale non per ostentare il suo talento, ma per eseguire composizioni in modo chiaro e distinto, secondo il metodo cartesiano, nel rispetto di quel’ “armonia prestabilita” che è la struttura portante dell’universo, secondo Leibniz.  A questi principi si attengono i nostri Virtuosi, in linea con quella grande fabbrica di esecutori che fu, per tutto il corso del XVIII secolo, la Scuola violinistica piemontese.

– Le loro esecuzioni, che hanno come fulcro la sede del Duomo di Torino, rientrano nel programma denominato “Lo spirituale nell’arte”. Che cosa si intende con questa espressione?
Si tratta, come ben noto, del titolo del saggio teorico più celebre di Kandinskij, dove si profetizza l’avvento di una nuova epoca spirituale attraverso tutte le modalità della creatività artistica,  rese funzionali dalle avanguardie del primo Novecento all’esplicita e trasgressiva manifestazione dell’interiorità. Teniamo conto che, in quegli anni, la psicoanalisi aveva scoperchiato l’inconscio individuale e collettivo, modificando radicalmente la visione del mondo borghese. Oggi questo magnifico titolo del fondatore della pittura astratta serve ad esprimere il bisogno di spiritualità, che si avverte come una corrente sotterranea sotto le false apparenze di un mondo, anzi, di un globo, dove gli esseri umani si muovono come formiche operaie di un’economia irreale e di una finanza debordante. In questo senso le arti possono svolgere un ruolo decisivo nel far ritrovare l’orizzonte perduto e nell’indicare nuovi orizzonti, vale a dire nuovi orientamenti e prospettive concrete.

– Come si inseriscono il programma musicale e i presupposti artistici dei Virtuosi nella cornice degli ideali dell’Accademia della Cattedrale di San Giovanni?  Esiste un fil rouge, vero, tra i due?
Direi di più: il fil rouge costituisce la ragion d’essere sia dell’Accademia sia dei suoi Virtuosi. Anche se l’Accademia, presieduta da don Carlo Franco, parroco del Duomo, ha obiettivi che non sono esclusivamente musicali. Stiamo lavorando all’estensione dell’area di intervento del nostro progetto agli ambiti delle arti figurative e del teatro. Già nel giugno 2018 abbiamo ospitato in Duomo un innovativo e suggestivo allestimento di “Assassinio nella cattedrale” di Eliot con un protagonista d’eccezione come Andrea Giordana. Così come per la Quaresima di quest’anno abbiamo esposto ai lati dell’altare due quadri sulla Passione di Cristo, appositamente creati dal pittore Renato Missaglia. Il Duomo in quanto tale e come custode della Sacra Sindone è, per un pubblico di visitatori e di spettatori, un punto di attrazione magnetica e, proprio per questo, può diventare anche un centro di produzione artistico-culturale di vastissimo respiro.

– Qual è il tratto distintivo dell’Orchestra dei Virtuosi rispetto ad altre simili?
L’orchestra di impianto classico rappresenta una delle più straordinarie invenzioni strutturali dell’Occidente.  Sia in versione cameristica che in assetto sinfonico è un’esperienza eccezionale non solo per chi vi suona e la dirige, ma anche per chi la organizza, affrontando ad ogni nuova produzione la complessità gestionale che comporta. Non è facile in così breve tempo mettere insieme prime parti di valore ed esperienza con giovani di notevole bravura e creare un clima di condivisione, dove tutti si sentano protagonisti. Di fatto i nostri concerti sono sostenuti economicamente da interventi di piccolo, ma prezioso mecenatismo. Tuttavia, siamo consapevoli che a una realtà di questo tipo, che ha il Duomo di Torino come sede istituzionale e centrale operativa, non possono essere insensibili i grandi soggetti pubblici e privati di Torino e del Piemonte. Faremo tutti i passi necessari, lavorando sodo.

– Come mai i Virtuosi dell’Accademia di San Giovanni non hanno un direttore d’Orchestra stabile?
Abbiamo un direttore ospite principale nella figura del Maestro Antonmario Semolini, autentico protagonista della scena musicale ed artistica, che ha non solo condotto, ma direi “allevato” i Virtuosi in tutti i concerti finora realizzati. Però, la nostra è un’orchestra libera, il cui podio non è al servizio di certe smanie di protagonismo, ma è offerto a tutti i direttori, giovani e meno giovani, che abbiano le virtù, in senso proprio, per dirigerla, incrementandone la qualità.

– Quali le scelte del repertorio musicale verso cui l’Orchestra dei Virtuosi si orienta nell’esecuzione dei suoi concerti? 
A seconda delle intenzioni artistiche e delle disponibilità finanziarie – perché il nostro è un approccio imprenditoriale – abbiamo costruito organici orchestrali per eseguire brani composti nel lungo periodo che va dalla seconda metà del Settecento e culmina, attraverso il fervore del Romanticismo, nel Novecento storico.
In occasione del concerto di riapertura della Cappella del Guarini, abbiamo commissionato brani originali a compositori contemporanei della qualità di Giuliana Spalletti,  Fabio Mengozzi,  Marco Sinopoli e  Giancarlo Zedde. Quindi, un’impostazione aperta ed eclettica, che risente fortemente della presenza fra noi come Accademico onorario del professor Enzo Restagno, la cui autorevolezza non ha bisogno di commenti.

– La partecipazione al Festival musicale di Macugnaga ad agosto ed i programmi futuri dei Virtuosi.
A Macugnaga siamo stati invitati su indicazione di quel magnifico pianista e intellettuale che è stato Marco Giovanetti, purtroppo recentemente scomparso. In quell’occasione saranno eseguiti il Concerto per pianoforte K. 488 di Mozart, con un giovane interprete cinese, e la Sinfonia n. 5 di Schubert. Il programma sarà dedicato alla memoria dell’amico Marco. Il prossimo appuntamento di rilievo per adesso non possiamo dichiararlo, ma sarà sicuramente motivo di interesse e curiosità, perché vi saranno eseguite pagine inedite di uno straordinario compositore, che ha segnato la storia della musica colta ed extracolta dagli anni Sessanta ad oggi.

 

Mara Martellotta

 

(nella foto Giacomo Bottino, a sinistra, dialoga con la compositrice Giuliana Spalletti. Sullo sfondo il maestro Antonmario Semolini e il musicologo Enzo Restagno)