CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 594

“In una limpida e attonita sfera” al Collegio San Giuseppe

Il tema della “luce” nelle opere di ventidue artisti. In mostra  fino al 18 ottobre

Il titolo della rassegna graffia la suggestione dei versi ungarettiani di “Preghiera” (da “L’Allegria”, ultima edizione 1942) e ci introduce da subito al filo conduttore che lega le oltre sessanta opere assemblate, fino al prossimo 18 ottobre, negli spazi del Collegio San Giuseppe di Torino: il tema della “luce”, simbolo frequente nell’arte e nella letteratura d’ogni tempo. Qui, nelle sale espositive del prestigioso Istituto di via San Francesco da Paola, lo ritroviamo come cifra stilistica e messaggio portante nei lavori di ventidue artisti assemblati nella quarta mostra della terza serie di esposizioni d’arte organizzate e curate da Alfredo Centra (direttore del Collegio), Francesco De Caria e Donatella Taverna. Opere tutte accompagnate da attinenti citazioni liriche – soprattutto di grandi poeti del ‘900– selezionate e ripescate nella memoria, con paziente e saggia indagine ricognitiva, dalla stessa Taverna.

Arte figurativa e grande poesia. Insieme. Luce come sacralità di vita, soprattutto, ed immagine simbolica del Divino, di un esistere e ritrovarsi fra le cose finite del mondo, in virtù di un “Oltre” – infinito ed eterno – cui tendere ed ispirarsi in ogni secondo di esistenza terrena. In un viaggio di ampio, totalizzante e accogliente respiro culturale e fideistico che s’apre con la gestualità astratta di Helen von Allmen (svizzera di Basilea) fortemente ispirata ad antiche tradizioni religiose collegate al “Mandala”, così come alle vivide informali esplosioni di luce create dagli impasti di carta con foglio d’oro di Isidoro Cottino o dall’olio (“Astrazione”) di Susanna Fisanotti e dai delicati ma corposi pastelli di Elsa Lagorio (Torino, 1930– 1992).

Ai simboli islamici della luce si rifanno invece le ceramiche di Elvio Arancio (origini tunisine e profonda praticata fede musulmana), accanto agli stupendi vetri della chierese Monica Dessì: entrambi, a modo loro, autori di una “Fenice” che è fuoco di colore per il primo, tenuto a freno in una sottile poetica iridescenza del vetro fuso per la seconda. L’iter espositivo prosegue, attraverso riferimenti più o meno espliciti alle Scritture, con un dipinto grandioso come la candida “Figura femminile” di Luigi Rigorini Jr. (moderna Samaritana, accanto alla fonte – pozzo di Giacobbe?), sconvolta dal messaggio di luce accecante che l’investe e che tanto s’avvicina alla drammatica “Ultima luce” di Ottavio Mazzonis (Torino, 1921 – 2010), essenza spirituale del Cristo morto, “aurora radiante – recitano accanto i versi di Neruda – coi suoi bei colori” che “annuncerà alle anime che l’Amore è venuto”. Grande famiglia d’arte, quella dei Rigorini è rappresentata in rassegna anche da un armonico disegno déco del nonno Luigi Rigorini Sr. (Novara, 1879 – Torino 1956) e dai paesaggi di forte impronta turneriana del padre Antonio Rigorini (Torino, 1909 – 1997).

Superbo nella sua struggente malinconica bellezza l’“Autoritratto rosso e oro” di Pino Mantovani, critico d’arte e pittore, fra i più interessanti esponenti dell’innovazione figurativa novecentesca. Il viso segnato dal tempo emerge dallo spazio rosso di un taglio astratto, protetto da tre angeli (o spettri?), realizzati nell’imponenza delle ampie informi tuniche su tela grezza che lascia filtrare misurate impronte di luce. A seguire la cupa grafia, interrotta da minimi barbagli luminosi, di Mario Gomboli (Firenze, 1946 – Torino, 2014), l’ansiogeno surrealismo dell’alessandrino Vito Oliva e la prorompente   informalità della canavesana Rita Scotellaro. Composta e solare è di contro la “Venezia” di Anna Maria Palumbo, come splendida e “scientifica” la “Montagna di luce” di Eugenio Gabanino; tutt’altro dai tormentati “miraggi” di Valeria Carbone e dell’esile cometa che fatica a spezzare il buio infinito in cui viaggiano i “Magi” dell’oristanese Ilio Burruni (Ghilarza, 1917 – Torino, 2016). Simboli di luce perfetta, sono infine i geometrici “acciai” di Massimo Ghiotti, accanto alla tenera malinconia de “L’addio” di Carla Parsani Motti e alle sospese essenziali atmosfere dell’alsaziano Jean Louis Mattana (Reims, 1921 – Torino, 1990). A chiudere il percorso, la stupenda “Crocifissione” di Laura Maestri (Alessandria, 1919 – Torino, 1986): blu e nero, corpi grevi e senza volto, abbandonati alla morte e al dolore, ma sorvegliati dall’alto da una grande sfera di luce. La certezza dell’“Oltre”. A commento, dall’“Apocalisse” (22, 3-5): “Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello; i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli”.

Gianni Milani

“In una limpida e attonita sfera”

Collegio San Giuseppe. Via San Francesco da Paola 23, Torino; tel. 011/8123250 o www.collegiosangiuseppe.it

Fino al 18 ottobre

Orari: dal lun. al ven. 10,30/12,30 e 16/18; sab. 10,30/12. Ingresso libero

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Nelle foto

– Monica Dessì: “La Fenice”

– Luigi Rigorini Jr.: “Figura femminile”
– Ottavio Mazzonis: “Ultima luce (XIV Stazione Via Crucis)”
– Pino Mantovani: “Autoritratto rosso e oro”
– Jean-Louis Mattana: “Tramonto”
– Laura Maestri: “Crocifissione”

Demarchi espone a Firenze

Al Convitto della Calza rivive lo spirito rinascimentale nell’opera dell’artista astratto torinese

Approda a Firenze l’arte astratta del pittore torinese Roberto Demarchi con una raffinata mostra curata da Niccolò Fiesoli, che si terrà sabato 28 settembre prossimo nella storica sede del Convitto della Calza, in piazza della Calza 6, nel cuore del capoluogo toscano.

Il convitto vanta un chiostro del Cinquecento e sale affrescate, quali il Cenacolo dipinto da Francesco di Cristofano detto il Franciabigio, che ha operato sotto l’influsso di Raffaello ed Andrea del Sarto, con il quale collaborò a partire dal 1510.

Lo storico dell’arte Antonio Paolucci scriveva, nel 2007, che “esiste una linea riconoscibile che attraversa tutta la storia della pittura italiana, a volte si inabissa come un fiume carsico per poi riemergere in gloria e splendore (…). Di questa tendenza stilistica riflessiva e speculativa, fondata sulla felicità del ritmo e delle proporzioni, sull’appagata filosofica contemplazione della natura delle cose, partecipa il torinese Roberto Demarchi”.

È ben riconoscibile, così, un sottile fil rouge tra l’opera di Demarchi e la grande arte rinascimentale, come dimostrano le parole con cui Paolucci introduceva la mostra di questo artista, dal titolo “Genesi”, ospitata all’Archivio di Stato di Torino nel 2007. La sintesi di pensiero, forma e tecnica, rimanda allo stesso intento presente nell’arte rinascimentale, quello di instaurare una comunicazione tra opera d’arte ed osservatore, capace di coinvolgere quest’ultimo in una esperienza globale fatta di armonia e bellezza.

 

Mara Martellotta

Io Vergine, tu Pesci?

In scena giovedì 3 ottobre ore 21.00, biglietto unico € 13,00

Teatro Q77. Di e con Giuseppe Sorgi

 

Per ulteriori info e prenotazioni:

info@tlon.it – 338.45.323.99 – https://tlon.it/events/ioverginetupesciottobretorino/

Dopo i tre appuntamenti della scorsa stagione all’insegna del costante tutto esaurito, torna a Torino lo spettacolo di Giuseppe Sorgi, che fonde una conferenza astrologica con la stand-up e il teatro comico di qualità.

Parlare d’amore senza buonismi, coniugando l’astrologia col teatro e col sorriso. Troppe lacrime, troppi sentimentalismi, troppi deliqui e pochi sentimenti. E questa povera, spremuta, sfottuta astrologia, invocata nel tentativo di trovare l’anima gemella nel mese fortunato! Chi vuol sentirsi raccontare, invece, attraverso i segni zodiacali il peggio del proprio carattere e delle proprie tanto accorate quanto nefaste scelte sentimentali? Il gioco allora si fa piccante e poco romantico. Decisamente sconsigliato a permalosi e casi di sindrome da crocerossina. In scena dodici segni come dodici tipi umani o dodici comiche, spietate maschere. L’applicazione dell’astrologia in ambito psicologico non è una novità, inizia con Jung e prosegue fino ai giorni nostri per una strada tempestata di scetticismi, puzze al naso e fastidi vari. Traslare il tutto dentro una confezione teatrale comica invece è decisamente nuovo.  Alla domanda su quali siano i riferimenti di questo “astrocomico” monologo, la risposta fornita da Giuseppe Sorgi è stata: Miss Marple. Sì, avete letto bene: Miss Marple. La zietta, frutto del genio di Agatha Christie, valuta infatti la nostra specie secondo ‘tipi umani’, osservando gli sconosciuti e trovando in loro quei punti di somiglianza con quanti conosce personalmente. Con questo sistema, mentre sferruzza, zia Jane asciuga la vicenda giungendo all’essenza dei fatti. Seguendo la stessa logica, segno dopo segno, Giuseppe Sorgi mette in scena una guida pratica per affrontare e conoscere colui o colei che ci fa tanto palpitare il cuore o che il cuore lo essicca. Senza tralasciare noi stessi, però. E i nostri moventi. Perché abbiamo posato gli occhi su quella persona? Stiamo sperimentando finalmente un nuovo modo di affrontare una storia? Oppure riproponiamo per l’ennesima volta gli stessi, disastrosi, schemi amorosi di sempre?  Un esperimento folle quello di “Io Vergine, tu Pesci?”, eppure gradito vista la quantità di repliche. Lo spettacolo infatti si avvia infatti al terzo anno di repliche a Roma e Milano con un totale, ad oggi, di oltre 4.000 spettatori.

Apre la nuova aula Confucio

PRESSO L’ISTITUTO MARIA AUSILIATRICE

Piazza Maria Ausiliatrice, 27 Torino

Grazie al supporto di Hanban (istituzione statale affiliata al Ministero dell’Istruzione cinese) e dell’Istituto Confucio dell’Università di Torino, l’Istituto Maria Ausiliatrice diventa Aula Confucio, coronando un percorso di sette anni di insegnamento del cinese con nuove opportunità di scambio e di crescita da offrire ai propri studenti. Inaugurazione venerdì 27 settembre alle ore 18.00.

Le Aule Confucio sono punti di riferimento per lo studio della lingua e della cultura cinese presso le scuole medie inferiori e superiori del territorio che collaborano con gli Istituti Confucio. Realizzano, sotto la supervisione dell’Istituto Confucio di appartenenza, attività didattiche e culturali volte a favorire lo sviluppo dell’insegnamento e dello studio della lingua cinese, nonché occasioni di scambio interculturale fra Italia e Cina.

Oltre a corsi di lingua cultura cinese, le Aule Confucio organizzano incontri di aggiornamento e formazione del personale docente, sessioni d’esame volte a conseguire le certificazioni internazionali di lingua cinese, e mettono a disposizione per la consultazione materiali utili all’apprendimento della lingua o della cultura cinese in generale.

La cerimonia si concluderà con il recital “Il vecchio che vedeva con gli occhi dell’armonia”, con l’esecuzione di brani di cetra cinese interpretati dall’artista Cheng Yu, reduce dal recital presso il MAO di Torino.

L’artista: CHENG Yu

Nata a Pechino nel 1964, ha iniziato ad accostarsi alla musica sin da bambina ereditando la passione del padre e seguendo le orme del maestro Li Xiangting. Cheng Yu è stata solista di “liuto” pipa e guqin per la rinomata China National Orchestra di Pechino e oggi è una acclamata musicista, nonché etnomusicologa e specialista in musica cinese. Ha conseguito un dottorato di ricerca con un lavoro di carattere etno-musicologico incentrato sul pipa e il guqin presso la School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra; in seguito, ha fondato il Chinese Music Ensemble del Regno Unito, la London Youlan Qin Society e il pluripremiato Silk String Quartet. Ha tenuto concerti in oltre 40 paesi proponendo brani di musica tradizionale cinese e contemporanea ed è autrice di numerose pubblicazioni musicali e accademiche. Le sue collaborazioni l’hanno vista esibirsi al fianco di artisti del calibro di Lang Lang, Matthew Barley e Damon Albarn. Cheng Yu ha ricevuto numerosi riconoscimenti per i suoi progetti e le sue esibizioni, conferiti da istituzioni quali Arts Council of England, Women in Music, Arts and Humanities Research Council Nel 2019, ha intrapreso una collaborazione con London Symphony Orchestra e Third Orchestra in un ensemble interculturale contemporaneo al Barbican Art Centre di Londra. Cheng Yu risiede attualmente a Londra dove insegna e fa ricerca presso la SOAS.

Tarantino ancora una volta si diverte a riscrivere la Storia

Nelle sale “C’era una volta… a Hollywood” con Di Caprio e Brad Pitt

 

Pianeta Cinema a cura di Elio Rabbione

A chi non ha mai avuto un debole per l’idolatria e s’è sempre rivelato un pallido tarantiniano, veder   usati all’indomani della proiezione a Cannes o oggi in occasione dell’uscita in casa nostra termini come “capolavoro” o espressioni come “colpo di fulmine” o ancora qua e là cascate di stelline e pallini neri, beh, tutto questo ben di dio a proposito di C’era una volta… a Hollywood risulta un po’ inspiegabile. Senza far sì che ti vengano a travolgere troppo facili entusiasmi, l’ultimo Tarantino è un divertente, irriverente quanto accattivante prodotto da seguire normalmente in sala con un buon carico di disponibilità da parte dello spettatore, ormai abituato alle gradassate del rampollo doré del cinema d’oltreoceano, ai suoi punti di riferimento irrinunciabili e ai suoi divertimenti fuori misura, alla sua convinzione in un cinema inteso come pillola miracolosa capace di stravolgere anche la storia, alla sua cinefilia che lo ha nutrito fin qui e che affonda le proprie radici più intime in un B-movie di stampo italiano da altri a lungo snobbato. Essendo qui palpabile in primo luogo che la scrittura dell’autore non ha l’invenzione, la finezza e l’irruenza che ad esempio ti faceva pochi anni fa maggiormente sospirare per Bastardi senza gloria.

Siamo nella Mecca del cinema, la grande macchina dell’industria cinematografica va a meraviglia, l’anno è il 1969, l’anno in cui Neil Armstrong posa il piede sulla luna ma anche della strage di Cielo Drive 10050 a Bel Air (era il 9 agosto), Sharon Stone e i suoi quattro ospiti trucidati dalla mano di Charlie Manson e dalle sue giovanissime adepte. Anche gli anni dove già s’intravede il tramonto degli studios e l’alba di un cinema americano che sarà diverso. È la storia di Sharon (Margot Robbie), stellina venuta da Dallas, giovane moglie di Roman Polanski, della sua allegria, della sua voglia di farsi conoscere e riconoscere, di andarsi a rivedere su di uno schermo (danno un film della serie “Matt Helm” con Dean Martin) e inorgoglirsi divertita alle risate del suo pubblico; è la storia di Rick Dalton (un Leonardo DiCaprio in gran vena, tra la presunzione e la frustrazione, alla ricerca della battuta dimenticata e della grande prova del riscatto), attore televisivo di seguitissime serie western, stella di successo ma ormai irrimediabilmente relegato in un secondo firmamento, che nel cinema vero e proprio non ha mai saputo sfondare, già consapevole (e frustrato: mai avrebbe attraversato il red carpet, mai “winner is…” lo avrebbe sentito in attesa del suo nome) di essersi incamminato sulla strada di un non lontano viale del tramonto (se uno straordinario manager Al Pacino non gli facesse sentire il profumo dei quattrini e della fama (oh quanto passeggera!, quattro film e a casa) nel cinema italiano di Sergio Corbucci e Anthony Dawson al secolo Antonio Margheriti. È la storia di Cliff Booth (Brad Pitt, che a tratti sembra prendere spazio al collega per diventare il vero eroe di tutta la storia), suo sincero amico, controfigura di sempre e a tempo libero autista e confidente e pronto anche alla riparazione dell’antenna di casa, allegro e disinvolto, qualche macchia alle spalle (un processo con il sospetto d’aver fatto fuori la moglie), pronto a dire pure pane al pane mentre si scazzotta con Bruce Lee. Mai vuote macchiette ma personaggi autentici come i tanti che hanno costruito una certa storia a Hollywood.

In una ricostruzione esatta e parcellizzata e simpaticamente vivificata che è il punto di forza e più convincente dell’intera operazione nostalgica di Tarantino – ci sono i vecchi villaggi western e le sparatorie, le roulotte scalcagnate, il bianco e nero quasi d’obbligo, le feste a bordo piscina tra le conigliette di Hugh Hefner con Steve McQueen a fare da guest star, ci sono i drive in e le grandi insegne luminose dei cinema a reclamizzare quei titoli che abbiamo visto e che oggi compiono cinquant’anni, ci sono i figli dei fiori e le audaci e spericolate ragazzine con le avances a portata di mano -, la storia di Rick e Cliff s’incrocia con quella di Sharon, con una ventata di buonvicinato che non può che aiutare, là dove (Hitler ha finito di sghignazzare mentre si guardava le immagini di Orgoglio della nazione nel cinema parigino in Bastardi senza gloria) ancora una volta Tarantino si diverte ancora una volta a dare un nuovo corso alla storia. È l’atto di ribellione di Rick Dalton che va inaspettatamente a segno, forse la sua consacrazione, il frustrato perdente che si appresta a diventare un astro. Forse. La potenza del cinema, la passione di Tarantino per il cinema, inarrivabile.

Valerio Liboni, esce “Questa è la mia vita”

Il leader torinese de I Nuovi Angeli dal 27 settembre in tutti i negozi di dischi con il nuovo album di inediti.

 

Esce il 27 settembre in tutti i negozi di dischi e negli stores digitali con un nuovo, intenso album di inediti Valerio Liboni, dal titolo “Questa è la mia vita” (Egea Music).

Il raffinato cantautore e music-maker torinese, già leader di storici gruppi della musica italiana quali I Nuovi Angeli, I Ragazzi del Sole e La Strana Società (con cui ha venduto oltre 10 milioni di copie con la hit internazionale ‘Pop Corn’), nonché autore degli inni ufficiali del ‘Torino Calcio’ (il suo ‘Ancora Toro’ ha superato abbondantemente il milione di views su YouTube) ha dato alle stampe una raccolta di ben 16 brani scritti e prodotti a sei mani con due prestigiosi musicisti: il polistrumentista Silvano Borgatta ( già al fianco, fra i tanti, di Renato Zero, Phil Collins, Lucio Dalla, Enzo Jannacci e gli Stadio) e Guido Guglielminetti (autore di grandi successi per Anna Oxa e Loredana Bertè, nonché produttore di Ivano Fossati e Francesco De Gregori).

Tra le canzoni più suggestive, oltre alla title-track, “Una lettera”, “Io sto bene con te”, e la struggente “Se questo non è amore”.

A quasi 70 anni avverto ancora forte l’entusiasmo degli esordi”, confida Valerio Liboni, già collaboratore, autore e produttore anche per illustri colleghi quali Dino, Mal, Little Tony, Gian Maria Testa, Fiorella Mannoia, New Trolls, Umberto Tozzi, Donatella Rettore, Wilma Goich e molti altri. “Ho scelto di fare un disco di musica viva, realmente suonata, lasciando spazio alla magia degli strumenti, degli arrangiamenti. Abbiamo bisogno di tornare a sentire il cuore pulsante delle note, anche per risvegliare ideali e valori, come la bellezza e la poesia sincera, che faticano a farsi strada in questi controversi tempi moderni”, conclude Liboni, fra l’altro già autore di storiche sigle radiofoniche e televisive per programmi di punta delle reti Rai quali il ‘Festival di Sanremo’, ‘La Domenica Sportiva’ e ‘Alto Gradimento’ per nomi quali Pippo Franco, Renzo Arbore e l’indimenticato Gianni Boncompagni.

L’artista presenterà il nuovo album dal vivo, in versione unplugged, il prossimo 1° Ottobre alle ore 21.00 a Torino nell’elegante cornice del ‘Circolo dei Lettori’, insieme ai giornalisti Maurizio Scandurra, Sabrina Gonzatto e al regista Rai e producer tv Giulio Graglia.

Gli scatti del fotoreporter Krzysztof Miller in mostra al Polo del ‘900

A trent’anni da quel 1989, le immagini come testimonianze

 

Aperta al pubblico dal 18 settembre al 1 ottobre

Via del Carmine, 14

Accesso gratuito

 

Ha aperto i battenti ieri al Polo del ‘900 (ore 18), la mostra “Krzysztof Miller. Anno 1989”, inserita tra le attività del progetto Berlino 89. Muri di ieri, muri di oggi coordinato dall’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini. La mostra è aperta al pubblico, con accesso gratuito fino al primo ottobre.

 

Fotografie di vita quotidiana, ma anche protestescioperimanifestazioni e avvenimenti artistici presentano in modo completo ed esclusivo gli eventi del 1989: anno della caduta del muro di Berlino, dello smantellamento della cortina di ferro, del crollo dei regimi autoritari. Miller cattura tutto questo con la macchina fotografica, testimone dei primi incontri della Tavola Rotonda polacca, delle libere elezioni in Polonia, fino ai cambiamenti in altri paesi del blocco orientale. È a Praga durante la Rivoluzione di Velluto. Ha documentato la riconquista dell’indipendenza in Ungheria. Ha scattato immagini nelle strade di Bucarest, quando tra sangue e violenze precipitava il regime dei Ceauşescu. Accanto ad esse alcune immagini di Anna Biała, una collega reporter, che ha ripreso la caduta del Muro di Berlino.

 

Nel libro “Fotografie che non hanno cambiato il mondo”, pubblicato postumo nel 2017, Miller scrisse: “La storia della mia vita è la storia di una continua paura. Un fotoreporter è solo e può contare solamente su se stesso. Solo con la storia, solo con l’immagine vista dal suo occhio e solo con i suoi pensieri e con l’immagine che andrà a vedere. Deve tappare le orecchie altrimenti il rumore della guerra danneggia i timpani, deve ripararsi dalle schegge di metallo e dai pezzi di terra e dalle pietre che gli vengono addosso. Ma a dire la verità nella fotografia di reportage conta solamente ciò che succede davanti all’obiettivo. Noi fotografi combattiamo per la testimonianza”.

 

Miller combatte per anni contro il disturbo post traumatico, togliendosi la vita il 9 settembre 2016.

 

La mostra è curata da Tiziana Bonomo, con il sostegno del Consolato Generale della Repubblica di Polonia in Milano, in collaborazione con Fondazione Vera Nocentini, ArtPhotò, Casa di Storia di Varsavia, Agenzia Gazeta.

Visitabile in via del Carmine 14, da lunedì a sabato dalle 9.00 alle 21.00; domenica dalle 9.00 alle 20.00.

 

 

Krzysztof Miller

Fotoreporter polacco, è nato Varsavia a nel 1962 dove ha vissuto e studiato presso l’Università di Educazione fisica a Varsavia. Ha fotografato i negoziati della Tavola Rotonda nel 1989 e da quell’anno diventa fotoreporter di “Gazeta Wyborcza”. È stato autore di diversi fotoreportage dalla Rivoluzione di velluto cecoslovacca, alla rivoluzione in Romania, alle guerre nel mondo (inclusa la Bosnia e la Georgia ) e a una serie dal titolo Zaire. Per diversi anni ha lottato con il disturbo da stress post-traumatico. Si è suicidato il 9 settembre 2016. Suo il libro intitolato 13 Guerre più una. La vera storia di un corrispondente di guerra. Principali servizi fotografici dal 1989 al 2008: Cecoslovacchia, Romania, Balcani, Georgia, sul Nagorno Karabakh, Bosnia, Croazia, Tajikistan, Afghanistan, Cambogia, Turchia, Kurdistan, Albania, Cecenia, Ruanda, Burundi, Zaire, Kosovo, Cecenia, Kongo, Iraq, Uganda, Sudan del sud.

 

Oltre 600 volumi del “Premio Lattes Grinzane” donati al “Polo del ‘900”

A disposizione di tutti i lettori in Palazzo San Daniele a Torino. Da mercoledì 25 settembre


Si chiamerà “Scaffale Premio Lattes Grinzane” e verrà accolto nella Sala Lettura (sezione di Narrativa) del “Polo del ‘900 – Palazzo San Daniele”, in via del Carmine 14, a Torino. Accoglierà la bellezza di 670 opere donate dalla Fondazione Bottari Lattes (organizzatrice del Premio), che andranno ad arricchire le raccolte del patrimonio bibliotecario degli Istituti partner del Polo, con una significativa offerta di libri vincitori e finalisti del “Lattes Grinzane”, dal 2011 – anno della sua prima edizione – ad oggi, ma anche di Narrativa contemporanea più in generale. La cerimonia di donazione e di inaugurazione dello “Scaffale”, si terrà mercoledì 25 settembre in Palazzo San Daniele, alle ore 18,30. Vi parteciperanno: Caterina Bottari Lattes (presidente dell’omonima Fondazione ), Sergio Soave (Presidente della Fondazione Polo del ’900), Mario Guglielminetti (direttore marketing della Fondazione Bottari Lattes), Alessandro Bollo (direttore della Fondazione Polo del ’900), Giovanni Barberi Squarotti (coordinatore del Comitato scientifico della Fondazione Bottari Lattes) e la scrittrice Laura Pariani (attualmente in giuria al Premio Lattes Grinzane, e finalista nel 2011 con il romanzo “La valle delle donne lupo”, Editrice Einaudi). La donazione, che ha lo scopo di rendere disponibile gratuitamente a tutto il pubblico torinese e non solo la produzione editoriale legata al Premio dedicato alla memoria di Mario Lattes ( editore, pittore e scrittore scomparso nel 2001), rientra nelle azioni del Protocollo di Intesa sottoscritto dai due Enti per collaborare su iniziative di promozione culturale e verrà integrata ogni anno con i volumi delle nuove edizioni dell’evento. Tra i romanzi disponibili, si potranno ad esempio sfogliare e prendere in prestito quelli dei vincitori per la sezione “La Quercia”: António Lobo Antunes (2018; Feltrinelli), Ian McEwan (2017; Einaudi), Amos Oz (2016; Feltrinelli), Javier Marías (2015; Einaudi), Martin Amis (2014; Einaudi), Alberto Arbasino (2013; Adelphi), Patrick Modiano (2012; Einaudi e Guanda), Premio Nobel 2014, Enrique Vila-Matas (2011; Feltrinelli). E quelli dei vincitori della sezione “Il Germoglio”: Yu Hua (Feltrinelli) nel 2018; Laurent Mauvignier (Feltrinelli) nel 2017; Joachim Meyerhoff (Marsilio) nel 2016; Morten Brask (Iperborea) nel 2015; Andrew Sean Greer (Rizzoli) nel 2014; Melania Mazzucco (Einaudi) nel 2013; Romana Petri (Longanesi) nel 2012; Colum McCann (Rizzoli) nel 2011. Nello “Scaffale” saranno anche presenti romanzi non selezionati ma che hanno comunque partecipato al Premio e alcuni volumi del precedente “Premio Grinzane Cavour”.
Per info: Fondazione Bottari Lattes, via Marconi 16, Monforte d’Alba (Cuneo); tel. 0173/7892412 o www.fondazionebottarilattes.it / Polo del ‘900 – Palazzo San Daniele, via del Carmine 14, Torino; tel. 011/0883200 o www.polodel900.it

g. m.

 

Nelle foto
– Un particolare dello “Scaffale”
– Caterina Bottari Lattes in occasione di una premiazione del “Lattes Grinzane”

Le “fragili catene” di Valter Morando

A cura di A.L.E.R.A.M.O. Onlus, presidente Maria Rita Mottola, presentata da Giuliana Romano Bussola, si inaugura, su invito, venerdì 4 ottobre nel museo civico di Moncalvo la mostra ”Fragili catene” di Valter Morando, considerato il maggior artista italiano vivente che tratta il tema del porto.

Testimone e partecipe della grande stagione albisolese degli anni 50-60 accanto a Fontana, Capogrossi, Jorn, Milena Milani, Morando, scultore, pittore, incisore, ha maturato uno stile personalissimo unendo la figurazione ad avanguardie astratte, informali e concettuali.

Abilissimo nel carpire i segreti dell’opus alchemico ceramico trova ispirazione nei rottami abbandonati nel porto di Savona cui dà dignità facendo sì che catene, ganci, bitte, lamiere diventino occasione d’arte.

Raffigurati in sculture identiche agli originali, non in meccanica riproduzione bensì come ripresa creatrice, gli umili oggetti assumono valenze simboliche, aspetti sacrali che li riscattano dal folclore locale nell’incanto di un clima atemporale metafisico.

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Orari mostra “Fragili catene” di Walter Morando aperta al pubblico dal 5 ottobre al 15 dicembre  2019.

Sabato – domenica 10,00 – 18,30

Altri giorni settimana su prenotazione cell 3277841338

Museo Civico Moncalvo Via Caccia 5

 

 

 

Generosissimo Ottobre quando è tempo di cambiare

LA FONTANA DEI MESI

Eccoci arrivati alla quarta uscita della rubrica sulla Fontana dei Mesi di Torino, anche questa volta cerchiamo di tenere un occhio allo splendido complesso statuario, anima della fontana, e allo stesso tempo di introdurre una corrente artistica -o meglio, in questo caso- due correnti artistiche, cercando di capire se effettivamente una scivola nell’altra oppure se siamo di fronte a due movimenti a sé stanti dal principio. Accettata la sfida sia detto che non saranno date risposte per l’una o l’altra opinione, solo alcuni dignitosissimi spunti di riflessione, insomma ognuno resti pure della sua idea sempre che voglia averne una.

Dunque le due correnti in questione sono “il bizantino” e “lo stile italiano del secolo XIV”. Mentre invece sarà una delle dodici statue femminile quella con ai piedi la scritta Ottobre ad incuriosire maggiormente la nostra attenzione. La Fontana dei mesi al parco del Valentino di Torino è un complesso artistico-architettonico che si sviluppa su di una pendenza probabilmente presente prima della costruzione artistica. Penso che il modo migliore per descriverla sia considerare una forma ovale appoggiata su un piano inclinato. A questo punto vediamo una bella ringhiera bianca che scende a parapetto dal punto più alto senza interruzioni fino a basso.

La fontana è particolarmente affascinante per quella che potremmo chiamare la sua intrinseca reversibilità. I complessi statuari maggiori al vertice sono rivolti all’interno del nostro ovale dove si trovano sia il lago artificiale che gli spruzzi d’acqua, mentre le dodici statue disposte lungo le braccia dell’ovale sono rivolte all’esterno e accompagnano il cammino del visitatore. Caso a parte due dei quattro complessi statuari al vertice: mostrano scene di forza con tensioni contrastanti, quindi questi due gruppi non si possono ragionevolmente considerare rivolti da un lato o dall’altro, piuttosto sono ascrivibili a spirali neoclassiche. Per il fatto che le dodici statue sono rivolte all’esterno, non sembra inopportuno   considerare che il camminamento in cemento intorno alla struttura sia parte in realtà integrante della fontana. Così come non riusciamo a trovare una correlazione logica che comprenda tutta le statue che compongono la Fontana nel parco, riusciamo a vedere una correlazione tra lo stile bizantino e quello primo rinascimentale solo nell’uso del dorato e poco altro. Nel XIV secolo vediamo l’inizio della pittura rinascimentale in Italia in due scuole: una degli studenti di Giotto detta anche “fiorentina” e l’altra “senese” di Ambrogio e Pietro Lorenzetti e specialmente di Simone Martini. Distinguiamo le opere in due scuole separate anche se geograficamente una non sia molto lontana dall’altra. I senesi realizzano preferibilmente su tavola e le loro immagini ricercano la spigolosità, inoltre richiamano una realtà idealizzata, i fiorentini invece tendono alla rappresentazione di uno spazio reale e realizzano preferibilmente con l’affresco. I fiorentini sono storicamente predominanti perché se i senesi sono per lo più legati al territorio della città dalla terra rossa, i fiorentini raggiungono tutto il centro Italia, Giotto stesso dipinge a Padova e a Assisi oltreché naturalmente nella città de’ Medici. A quell’epoca quando gli allievi di Giotto continuano i progetti architettonici del maestro a Firenze, lasciati sfortunatamente incompiuti, lo stile bizantino è al suo apice e insieme al tramonto. Nei secoli ha trovato terreno fertile specialmente nella Serenissima e in tutti i luoghi dove il popolo bizantino è atterrato il che in realtà è un bel pezzo di mondo. Da una parte potrebbe sembrare assolutamente incomprensibile che le due scuole, la fiorentina e la senese, non attingano dal bizantino, dall’altra sembrerebbe evidente che la loro origine sia autonoma rispetto a quello stile. Come consiglio di ricerca, un buon modo per farsi una idea più precisa sarebbe quello di andare a cercare ancora più indietro nel tempo, nelle opere di Cimabue, il maestro di Giotto, oppure chissà dove nelle immagini che hanno ispirato il Martini e i fratelli Lorenzetti, lì infatti potremmo trovare la correlazione che cerchiamo o una disconferma altrettanto attesa.

Nella prossima uscita accenneremo alle   allegorie delle quattro statue interne, ma per ora, con l’avvicinarsi del mese di ottobre, il mese in cui prendiamo in mano le redini per l’ultimo trimestre dell’anno in corso, inoltrandoci nell’autunno, io personalmente cerco di ricordare quanto sia interessante affiancare alla fontana le correnti artistiche pittoriche, tuttavia alla fine di questo articolo prende la voglia di fare una passeggiata fino alla nostra fontana al parco del Valentino di Torino e godersi lì da quelle parti almeno per un po’.

         Ellie