CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 584

La tragedia balcanica degli anni ’90 del secolo scorso: una storia rimossa?

In questo momento storico l’Unione Europea non gode certo di particolare favore e suona vana, se non fastidiosa la voce di chi ricorda che il suo principale merito è stato quello di aver garantito (finora) settantatré anni di pace nel Vecchio Continente (e per questo è stato insignita nel 2012 del Premio Nobel per la Pace).

Anche quest’affermazione, comunque, – vera se si fa riferimento ai principali Stati nazionali, quali Francia, Germania e Inghilterra che in pace sono davvero rimasti per tutto questo tempo, fatto assolutamente unico nella storia europea di sempre – deve essere corretta: non si è trattato di una pace “assoluta”, se non si vuole scriteriatamente dimenticare la serie di conflitti nella ex Jugoslavia scoppiati negli anni Novanta del secolo scorso.Una tremenda pagina di storia, non ancora adeguatamente meditata, che ha rappresentato il primo, vero ed innegabile, fallimento dell’azione diplomatica e politica lato sensu dell’UE.

Per cercare di fare il più possibile chiarezza e riportare l’attenzione su queste guerre – soprattutto per le generazioni più giovani, per i ventenni/trentenni che di ciò raramente hanno sentito parlare, e non certo a scuola, stante l’incuria in cui versa da decenni l’insegnamento di tale disciplina, né presa in considerazione nei test Invalsi né particolarmente amata dagli ultimi Ministri e alti dirigenti del MIUR, almeno dai tempi di Luigi Berlinguer in poi – è stato organizzato nel pomeriggio di giovedì 15 novembre in Sala Scimé a Mondovì  dalla Sezione dell’ANPI di Mondovì (CN) e dalla Delegazione di Cuneo dell’AICC, in collaborazione con l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo, col Centro Studi Monregalesi, con Gli Spigolatori, l’Unidea, la Sezione Fidapa, il Liceo “Vasco-Beccaria-Govone” e col patrocinio della Città di Mondovì, il Convegno Nel cuore dei Balcani al tramonto del secolo breve.

Tre gli interventi:  ha introdotto il sottoscritto, con una premessa dal titolo Anche gli Stati muoiono: la fine della Jugoslavia; poi il Prof. Gigi Garelli ha trattato il tema, quanto mai attuale, dell’artata identificazione dell’ “altro” come “il nemico” con una articolata relazione dal titolo, appunto, Come ti costruisco il nemico. La regione dei Balcani dal sogno di Tito all’incubo di Srebenica; infine il giornalista Marco Travaglini ha parlato, con commozione e da profondo conoscitore della cultura slava, della situazione di Sarajevo in particolare e di tutta quella martoriata zona, riprendendo molte considerazioni dal suo recente libro Bosnia, l’Europa di mezzo. Viaggio tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente (Ed. Infinito, 2015).Breve la vita dello Stato jugoslavo, durato nemmeno un secolo: dal 1918 quand’era Regno dei Serbi, Croati e Sloveni per passare al 1929 quando assunse il nome di Regno di Jugoslavia e per concludersi ufficialmente il 3 settembre 2003. In quel lasso di tempo, nel 1941 ci fu l’alleanza con Germania ed Italia, ma poi un colpo di Stato ruppe tale accordo e determinò l’invasione del Paese e ben dieci giorni di bombardamento ininterrotto su Belgrado, con conseguente resa dell’esercito e smembramento del Paese.  Sempre nello stesso anno, nel 1941, iniziò però anche la guerra di Resistenza e si creò il 27 giugno il comando supremo delle formazioni partigiane guidate dal capo del Partito Comunista, Josip Broz Tito: ancora molto discussa e tutta da studiare sine ira et studio la complessa vicenda dell’occupazione italiana di quei territori, che è passata dalla definizione di “occupazione allegra” – col carattere falsamente autoassolutorio della solita diagnosi di “Italiani brava gente” – a quella di Italiani “bruciacase”. Il 28 novembre 1945 nacque la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, diventata nel 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia: significativo lo stemma, sei fiaccole (i sei gruppi etnici) a costituire un’unica fiamma (l’unità dello Stato), circondata da spighe di grano (riferimento all’agricoltura e al popolo lavoratore) congiunte in cima da una stella rossa (il Partito Comunista). La Jugoslavia dapprima fu alleata dell’URSS, poi si defilò sempre più sino a mettersi a capo nel 1956 del movimento dei Paesi non allineati (l’allora detto “Terzo Mondo”), assieme all’Egitto di Nasser e all’India di Nehru. Fu dopo la morte del Maresciallo (4 maggio 1980) che quello che Garelli definisce “il sogno di Tito” (certamente non immune da eccessi dittatoriali e da un culto della personalità percepibile persino in una filastrocca che suonava così: Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito),  cioè quello di mantenere unito un miscuglio di popoli rispettandone e valorizzandone le diversità, ebbe vita brevissima: fallì l’idea delle presidenze collegiali, escogitata per garantire l’assoluta parità dei popoli jugoslavi (davvero impressionante il numero dei  deboli successori di Tito, elencati rapidamente in successione e rimasti in carica ciascuno per brevissimo tempo), finché nel 1986 emerse la personalità di Slobodan Milošević,  che divenne capo carismatico e restauratore del tema della “Grande Serbia”, con slogan chiarissimi quali: “Serbia è dove c’è un Serbo”, vivo o morto, non importava. Altre personalità  si distinsero progressivamente:  Franjo Tudjman, uno dei più giovani generali di Tito divenuto primo presidente della Croazia; Radovan Karadžić e Ratko Mladić, entrambi poi accusati di crimini di guerra e di genocidio… tutti personaggi che esaltarono i nazionalismi, arrivando a teorizzare la mostruosità della “pulizia etnica”. Si passò così dalla pacifica convivenza di etnie e religioni diverse (i serbo-bosniaci ortodossi; i croato-bosniaci cattolici; i bosniaco-islamici) alla sistematica e delirante “creazione del nemico”, come  evidenziato da Garelli. Dal 1991 iniziò il processo di proclamazione delle autonomie di Slovenia, Croazia, Bosnia, riconosciute l’anno dopo dall’ONU; dal 1991 al 1995 ci fu la guerra in Croazia, che si intersecò e sovrappose a quella in Bosnia (1992-5) con momenti assolutamente tragici:

  • l’assedio di Sarajevo (5 aprile 1992-29 febbraio 1996, protrattosi quindi oltre la fine stessa del conflitto, il più lungo assedio della storia del sec. XX, ben più lungo di quello di Stalingrado, durato dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio 1943);
  • l’insensata distruzione del ponte di Mostar (9 novembre 1993: ne fu responsabile il generale Slobodan Praljak, che il 29 novembre 2017 fu condannato dal Tribunale dell’Aia a vent’anni di carcere per crimini di guerra: dopo la lettura della sentenza, Praljak ingurgitò una fialetta di cianuro e la sua morte fu ripresa in diretta dalle telecamere presenti in aula);
  • il massacro di Srebrenica (6-25 luglio 1995), quando l’esercito serbo-bosniaco agli ordini di  Ratko Mladić sterminò più di ottomila musulmani, maschi tra i 12 e i 27 anni, separati da donne e bambini e poi sepolti in fosse comuni, nonostante quella zona fosse stata dichiarata demilitarizzata e posta sotto la protezione dell’ONU.

Nel novembre 1995 l’Accordo di Dayton pose termine alla guerra e fu ratificato poi il 14 dicembre 1995 a Parigi, con la creazione di due entità distinte (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica SRPSKA).

Oggi, quello che era un unico Stato è stato sostituito da ben sei Paesi: la Bosnia-Erzegovina con capitale Sarajevo; la Croazia con capitale Zagabria; la Macedonia con capitale Skopje; il Montenegro con capitale Podgorica; la Serbia con capitale Belgrado; la Slovenia con capitale Lubiana.

Marco Travaglini ha visitato tante volte Sarajevo e quei luoghi martoriati: la sua è una testimonianza diretta, da giornalista particolarmente sensibile agli aspetti umani. Tante le suggestioni e i momenti di commozione che ha trasmesso, foriere di riflessioni destinate a maturare in ciascuno di noi del pubblico. Egli ha giustamente parlato di “psiconazionalismo” per spiegare come un solo popolo, quello slavo, dopo un lunghissimo periodo di coesistenza rispettosa e pacifica di diversi culti e tradizioni religiose, abbia potuto massacrarsi in modo così orrendo; ha insistito sul micidiale valore simbolico rappresentato dal bombardamento del ponte di Mostar, avvenuto nello stesso giorno (9 novembre) in cui solo quattro anni prima si era abbattuto il muro di Berlino: due abbattimenti che non potrebbero essere di segno più opposto. Travaglini  ha evidenziato un’incredibile bizzarria della storia, la martellante ricorrenza di un’altra data, il 28 giugno, giorno di San Vito che è festa nazionale serba, quella che nel suo libro definisce l‘ossessione del 28 giugno e a cui dedica un intero capitolo (pp.147-151) da cui desumo:

–       28 giugno 1389: battaglia di Kosovo Polje (“il Campo dei Merli”), in cui i serbo-bosniaci al comando del principe Lazar Hrebeljanović – proclamato poi Santo dalla Chiesa ortodossa – furono vinti e sterminati dagli Ottomani, che inaugurarono così un dominio di cinque secoli su quelle terre. Esattamente sei secoli dopo, il 28 giugno 1989  Slobodan Milošević pronunciò un famoso discorso in cui risuonò un’affermazione sinistramente profetica: Sei secoli dopo, adesso, noi Serbi veniamo nuovamente impegnati in battaglie e dobbiamo affrontare battaglie. Non sono battaglie armate, benché queste non si possano ancora escludere;

–       28 giugno 1914: data famosissima, l’assassinio a Sarjevo dell’arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia in occasione della loro visita ufficiale proprio per la festa di San Vito ad opera del nazionalista serbo Gavrilo Princip. Fu il casus belli del primo conflitto mondiale, l’inizio di una serie impressionante di sciagure per tutto il Vecchio Continente;

–       28 giugno 1919: la firma del Trattato di Versailles pose termine alla Prima Guerra Mondiale, definita pace anfibia da Winston Churchill, perché di fatto pose anche le premesse per il secondo conflitto mondiale;

–       28 giugno 1921: fondazione da parte del re Alessandro del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni;

–       28 giugno 1948: espulsione del partito comunista jugoslavo dal Cominform e rottura insanabile tra URSS e Jugoslavia;

–       28 giugno 2001: consegna di Milošević al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja. Verrà poi trovato morto nel carcere dell’Aja la mattina dell’11 marzo 2006: tre giorni dopo il Tribunale dichiarerà estinta l’azione penale, senza formulare alcuna sentenza. Un’altra vicenda oscura, sulla quale chissà mai se si farà chiarezza;

–       28 giugno 2006: il Montenegro è proclamato il 192esimo Stato membro dell’ONU.

Molte altre le considerazioni di Travaglini, ma credo sia importante soffermarsi sull’accorata analisi che egli ha fatto di Sarajevo, la città che ha “pesato” di più sulla storia dell’intero secolo breve, per usare la definizione di Hobsbawm, quella in cui si abbracciano Oriente e Occidente, nel cui centro stanno quattro luoghi di preghiera, uno musulmano, due cristiani e uno ebraico, a un centinaio di metri l’uno dall’altro, cosa che non esiste in nessun’altra parte del mondo: una città che ospitava un Islam laico, moderato, nella quale sino ancora ad una ventina di anni fa le donne musulmane non indossavano il velo.

Credo valga raccolto l’invito che Travaglini ci rivolge nelle ultime pagine del suo bel libro: Andate a Sarajevo, a Mostar, a Tuzla, s Srebrenica. Ma non andateci con gli occhi svagati dei turisti, ma di chi è disposto a vedere oltre l’apparenza, con la voglia di capire…[…] I Paesi della ex Jugoslavia non hanno ancora trovato stabilità ed equilibrio dopo la sanguinosa guerra degli Anni ’90. È una vicenda che ha radici ben più lontane se, più di cinquant’anni fa Winston Churchill commentava in questo modo la natura di quelle terre: “Gli spazi balcanici contengono più storia di quanta ne possano consumare”. Ci si accorge, senza troppa fatica, che lì nasce e termina, nel sangue, il secolo breve. Tutto finisce e tutto si capisce lì. Basta avere voglia di tenere gli occhi aperti e mente e cuore sgombri da pregiudizi.

Stefano Casarino 


Gli Anno Domini Gospel Choir arrivano in Monferrato

Di scena nella Chiesa Parrocchiale la più importante formazione gospel di fama internazionale

Un evento di primo piano che si inserisce di diritto nel cartellone delle importanti iniziative atte a celebrare l’anno del ventennale della nascita, dalla fusione con Colcavagno e Scandeluzza, del nuovo comune di Montiglio Monferrato ufficialmente tenuto a battesimo il 1° Settembre 1998. Un momento di aggregazione e riflessione attorno al tema del Natale e della condivisione, sulle note di una musica senza tempo“. Esordisce così Dimitri Tasso, imprenditore e professionista delle PA, nonché Sindaco storico della ridente località astigiana che ospita domenica 25 Novembre l’atteso concerto degli ‘Anno Domini Gospel Choir’, la prima, più antica e rinomata formazione gospel italiana anch’essa atta a celebrare il venticinquennale dalla propria fondazione. Guidato e diretto da sempre dal Maestro Aurelio Pitino – un passato di prestigio nella musica dance come leader de ‘I Legend’, gruppo da alta classifica a livello internazionale negli anni ’80, un presente come vocal coach e vocalist fra i più apprezzati anche dai grandi artisti della scena pop italiana -, il coro propone un riuscito mix di brani contemporanei e storici, in grado di emozionare al primo ascolto, in un delicato e coinvolgente intreccio di musica e parole. Motivo per cui, negli anni, gli ‘Anno Domini Gospel Choir’ si sono ritagliati uno spazio di primo piano anche nel mondo discografico italiano, collaborando sia su disco che in live con artisti di fama quali, tra i tanti, Antonella Ruggiero, Rossana Casale, Gerardina Trovato, Bungaro (cantautore e autore di primo piano per artisti come Gianni Morandi, Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni e Pacifico, con cui ha partecipato fra i Big all’ultimo Festival di Sanremo 2018), Linda, l’astigiano Danilo Amerio e Raphael Gualazzi, con cui si sono classificati secondi fra i Campioni al Sanremo di Fabio Fazio, nel 2014. L’ingresso è libero, il concerto, patrocinato, oltre che dal Comune di Montiglio Monferrato, anche dalla locale Pro Loco e della Diocesi di Casale Monferrato e dall’Ufficio Beni Culturali. L’evento avrà luogo alle ore 17.00 presso la Chiesa Parrocchiale di Santa Maria della Pace in Via Roma, nel cuore del centro storico del paese. Un’occasione per apprendere anche da vicino le impellenti esigenze di interventi di ripristino e restauro sia del tetto dell’edificio religioso, minato da infiltrazioni d’acqua, che della sostituzione integrale dell’ormai desueto castello campanario e dei relativi automatismi e componenti di movimento dei sacri bronzi, attualmente muti e impossibilitati al suono per motivi di sicurezza statica.

 

Il “caffè nero” che uccide il vecchio scienziato e le “celluline grigie” di Poirot

Torino Spettacoli continua a perlustrare con successo il pianeta Agatha Christie. Terreno fertile, certo da non abbandonare. Per l’attuale stagione – dopo una settimana al Gioiello da domani sera si cambia casa, ovvero per trasferirsi all’Alfieri sino a domenica 25 novembre, per ritornare dove si è partiti, ancora al Gioiello, dal 27 novembre al 2 dicembre: è chiaro che con il passaparola e la fedeltà del pubblico se ne dovrà poi riparlare -, riscopre Caffè nero per Poirot (Black coffee), una commedia scritta nel 1929 e portata in palcoscenico l’anno successivo, l’unica in cui il freddo raisonneur abbia trovato posto, temendo l’autrice che potesse distrarre l’attenzione dello spettatore dagli altri personaggi, un meccanismo perfetto come solo la signora sapeva inventare, un dialogo serrato (qui nella traduzione di Edoardo Erba) che acchiappa chi assiste ad ogni scena sempre più, man mano che scendiamo verso il finale inatteso – come si conviene -, il tutto avvolto nel punto centrale delle “celluline grigie” dell’insuperabile detective belga, ancora una volta in trasferta nella campagna inglese con il fido Hastings.

Una grande casa, alta borghesia, sontuosa cena e abiti da sera, lo scienziato che s’è visto sottrarre una formula chimica di immenso valore cui stava lavorando, l’invito a Poirot a raggiungerlo per scoprire il ladro, ma troppo tardi, se non per constatare che il vecchio Amory è stato ucciso da un caffè avvelenato (il veleno, grande alleato della scrittrice, fin da quando iniziò a corteggiarlo con la sua prima opera, Poirot a Styles Court, nel 1915). Dal maggiordomo dai modi impeccabili al medico italiano, che sembra nascondere segreti più di chiunque altro, tutti sono sospettabili, nessuno in ogni momento è mai come sembra, dal figlio del padrone di casa che non coltiva certo un buon rapporto con il genitore, alla nuora che odia l’Italia, sua terra d’origine, e che ha trovato tranquillità e calore in quella famiglia, alla figlia che ostenta un’allegria che forse dovrebbe mettere in guardia. Per chi ha la bella abitudine di abbandonarsi alle storie e ai meccanismi dell’autrice, sa benissimo quanto sia capace, tremenda sorniona, di seminare qua e là tra le pagine particolari e sospetti e piccoli indizi con il solo piacere di gettare ombre su questo e su quello, per poi cancellare tutto e convogliare gli stessi su un terzo condannabile. È il gioco della distrazione, predisposto ad arte, la costruzione degli inganni portata avanti in ogni perfetto tassello. La regia di Girolamo Angione (dal progetto artistico di Piero Nuti) dà un bel ritmo all’intrigo, calibra gli impercettibili movimenti che danno il via al misfatto come quelle figurine in odore di peccato, ricrea con esattezza, tra suspence e divertimento, le giuste atmosfere. Guida un gruppo d’attori, tutti giovani o giovanissimi, che (finalmente!) piace vedere già bell’e pronti sin dalle primissime repliche nella completa credibilità che danno ai personaggi. Li citiamo tutti: Roberto Marra, Elisabetta Gullì (un piccolo successo personale la sua sproloquiante signorina Amory dalla voce stridula), Elena Soffiato con un paio di scene di bella maturità, Giuseppe Serra, Arianna Pozzi, Giovanni Avalli, Elia Tedesco (carico di incredibili ciarlatanerie pur di distrarre lo spettatore dal suo vero ruolo, folle, perfettamente straniante, capace di attirare l’”inspiegabile” attenzione che il regista gli ha costruito sino in fondo), Alberto Greco, Simone Moretto (un Poirot che dipana con intelligenza la matassa, che forse vedremmo più a suo agio con qualche tono in meno di voce, più metodico indagatore), Giovanni Gibbin e Stefano Cenni. Un bel successo che consigliamo non soltanto per i ferrei amanti del giallo.

 

Elio Rabbione

Quei 31 grandi italiani di Quaglieni

Roma – Martedì 20 novembre alle ore 18, l’Associazione “I Piemontesi a Roma” presenta nella Sala Roma di via Ulisse Aldovrandi 16, il libro di Pier Franco Quaglieni Grand’Italia, Golem Edizioni. Ne parleranno con l’autore Mattia Feltri, giornalista de “La Stampa”, Salvatore Sfrecola, già Presidente di Sezione della Corte dei Conti, Valter Vecellio, vice caporedattore del TG2. Dopo il fortunato Figure dell’Italia civile, il ritratto di 31 nuovi personaggi che hanno caratterizzato la storia e la cultura italiana contemporanea. L’esperienza di un’Italia che appare lontana, ma che può essere di utile esempio ai giovani d’oggi.

E’ tempo di “Museiamo”

Riparte il programma di visite teatrali MuseiAmo Due ignoti personaggi vagano per i musei torinesi con il compito di raccogliere e comprare per un privato il più possibile, qualsiasi pezzo di storia, di arte, tecnologia e scienza contenuto nei musei, per arricchire la sua collezione personale. Riusciranno i due a rubare la memoria dei luoghi o decideranno di conservare i beni e “la storia” per la comunità? Sulle orme di queste domande ogni museo verrà rappresentato attraverso teatro, musica, arte e poesia. 17 appuntamenti dal 17 novembre. Trovate tutti i dettagli qui: http://bit.ly/museiamo Posti limitati, prenotazioni obbligatorie presso Turismo Torino e Provincia Tel. 0125618131 E-mail: info.ivrea@turismotorino.org

Moncestino, terra di confine

Moncestino è un piccolo comune della Provincia di Alessandria, anzi è uno tra quelli di minori dimensioni con una popolazione di circa duecentosessanta abitanti, ed è posti ai suoi confini estremi nord – occidentali. E’ questa la sua peculiarità perché il comune della Valcerrina confina con ben tre province quanto al suo territorio comunale: quella di Vercelli con Crescentino, quella di Asti con Robella d’Asti e, infine, la Città Metropolitana di Torino, con Verrua Savoia. La sua parte pianeggiante, che si affaccia sull’area golenale della Piagera (a poca distanza si trova il mercato ortofrutticolo della Piagera, struttura unica tra Casale e Chivasso che insiste però sul territorio comunale della confinante Gabiano) è chiamata ‘Ganoia’ dai nomi delle ganoie, ovvero i ganci delle barche che venivano usate sul Po.

La parte più suggestiva è quella collocata sulla collina ed il nome del paese, Moncestino, ha un’origine molto antica, pertanto non documentabile con estrema certezza. Moncestino, o per usare l’antica denominazione ‘Mons Cestini’, deriverebbe da ‘Ceste’, insediamento celto-gallico ubicato sulla riva sinistra del Po, nella località antistante l’attuale capoluogo, in prossimità di Fontaneto Po, in Provincia di Vercelli, per alcuni studiosi, per altri spostato leggermente più a Nord, verso San Genuario (Crescentino). Si era nel lontano 101 a.C. e nella fase iniziale della battaglia dei Campi Raudi gli abitanti di Ceste si rifugiarono al di da del Po, sulla sponda destra, fermandosi sulla collina che da loro prese nome di ‘Monte dei Cestini’. Nella battaglia il console Caio Mario annientò i Cimbri. L’ipotesi dell’origine celtica del nome del paese ha un buon fondamento nella toponomastica locale, i cui termini sono di chiara derivazione del linguaggio di tale popolo, ma altre tracce le lasciarono anche altre genti, come Liguri, Romani, Longobardi e Saraceni.

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Una fonte storica del paese è data dal libro di Romano Ghitta, sindaco di Moncestino sino al1991, anno in cui terminò il suo cammino terreno: ‘Moncestino, storia e tradizioni’, tirato in 500 copie per iniziativa del Comune. Si tratta di un’interessante camminata nel corso della storia di una comunità della Valcerrina, che non manca anche di ricordare il piccolo paese di Villamiroglio, con il cui territorio confina, mediante alcuni cenni posti alla fine del libro. Rimandando ad un’altra puntata del nostro viaggio i cenni sugli immobili di maggiore pregio esistenti nel paese, il Castello costruito dai Conti Miroglio, la cappella votiva di San Sebastiano e San Rocco, la chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Tre Valli, in questa ‘tappa’ del viaggio ci soffermiamo sulla nuova casa comunale, Palazzo Giustiniani, il cui acquisto venne effettuato con delibera del Podestà Lazzaro Quarello il 12 luglio, approvata dalla Giunta Provinciale Amministrativa il 30 agosto 1928. Spiega il Ghitta nel suo testo che “L’iniziativa di acquistare il palazzo della Marchesa Matilde Giustiniani era stata presa negli anni immediatamente posteriori alla Prima Guerra Mondiale, ma con esito completamente negativo, per l’irremovibile rifiuto, da parte della proprietaria, di cedere lo stabile di sua proprietà. Nel 1928 furono mosse nuove cortesi pressioni alla Marchesa che, venendo tra l’altro incontro al desiderio del Governo Nazionale di dotare gli Enti Pubblici di sede decorosa, decideva per la cessione”.

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Oggi, dopo essere stato destinatario di un intervento di ristrutturazione negli anni Duemila, è il vero fulcro della vita del paese: sede del Comune, della Pro loco, dell’ambulatorio medico, dell’ufficio postale e di quattro alloggi. Una curiosità è che nella sua sala consiliare è conservata una lapide marmorea dedicata all’avvocato Luigi De Vecchi, nato nel 1843 e deceduto nel 1939, “Figlio del Monferrato nella sua vita austeramente operosa maestro di rettitudine e di bontà la sua veggente esperienza di colto e tenace agricoltore dedicò in assistenza e consiglio alla gente di Moncestino che ne conserva grata memoria”. L’avvocato De Vecchi era il padre di Cesare Maria De Vecchi, quadrumviro del fascismo nella marcia su Roma e capo del primo fascismo torinese e piemontese. La famiglia era proprietaria di terreni in Moncestino. Di qui il legame ed il ricorso del padre. Da segnalare, poi, dal piazzale antistante il palazzo Municipale la splendida vista panoramica che permette di vedere, nella belle giornate, oltre alla sottostante Valle del Po nella pianura vercellese con le risaie allagate (e non) sino alla cupola di San Gaudenzio a Novara, o l’arco delle Alpi. E’ uno spettacolo unico davvero mozzafiato che premia, a prescindere anche dalle altre interessanti attrazioni del capoluogo, il viaggio per arrivare in questo borgo da non dimenticare. Un ringraziamento particolare al sindaco Fernando Anselmi per le notizie e la cordialità riservatami.

Massimo Iaretti

“Forum del Libro-Passaparola”. A Torino la 15° edizione

Sarà Torino la città sede della quindicesima edizione del Forum del Libro – Passaparola, l’appuntamento itinerante che ogni anno sceglie un capoluogo diverso per “riflettere sullo stato dell’arte della lettura, promuovere il dialogo e la cooperazione di tutti gli attori della filiera del libro e incentivare una sempre più radicata cultura del leggere in un Paese che sostengono gli organizzatori – legge troppo poco”. Organizzato dall’associazione Forum del Libro presieduta da Maurizio Caminito (con il sostegno di Cepell-Centro per il Libro e la Lettura, Comune di Torino e Regione Piemonte e con il patrocinio dell’Anci-Associazione Nazionale Comuni d’Italia), l’appuntamento è per sabato 24 e domenica 25 novembre, con la proposta di due giornate di dibattiti, incontri, letture e workshop aperti al pubblico sul tema La città legge”: un’occasione per ragionare sui fenomeni di aggregazione intorno ai libri che si realizzano nelle città, nelle periferie e nei territori regionali, per immaginare nuovi progetti di cooperazione sul fronte della lettura, per riflettere sulla lettura come bene collettivo e sociale da condividere.Sede degli incontri saranno l’Istituto Avogadro (Via Rossini 18), la Biblioteca Civica “Primo Levi” (Via Leoncavallo 17) e il Circolo dei Lettori (Via Bogino 9), dove sarà proposta al pubblico una selezione bibliografica a tema.Per info e programma del Forum: tel. 328/9645607 o www.forumdellibro.org o info@forumdellibro.org Fra i protagonisti degli appuntamenti, tutti a ingresso gratuito, lo scrittore Nicola Lagioia (che aprirà il programma, sabato 24 novembre, alle ore 9, nell’aula magna dell’”Istituto Avogadro”) e più di quaranta ospiti, fra scrittori, giornalisti, docenti e figure di spicco della cultura italiana. Particolarmente interessante, in chiusura della prima giornata di sabato e presso la Biblioteca Civica “Primo Levi” (ore 21), la festa letteraria e musicale con reading di testi e storie ambientate nella periferia torinese, scritti e interpretati dagli stessi autori: Christian Frascella (da poco in libreria con “Fa troppo freddo per morire”, Einaudi 2018), Margherita Oggero (autrice di “Non fa niente” Einaudi 2017 e del recente “La vita è un cicles”, Mondadori 2018), Enrico Pandiani (“Un giorno di festa”, Rizzoli 2017 e “Polvere”, DeA Planeta 2018), Massimo Tallone (“Le maschere di Lola”, Edizioni del Capricorno 2018) e Dario Voltolini ( “Pacific Palisades”, Einaudi 2017). L’accompagnamento musicale è affidato al chitarrista argentino Miguel Acosta.Fra gli appuntamenti di spicco di domenica 25 novembre, l’annuncio, al “Circolo dei Lettori” di via Bogino, dei Comuni vincitori del Bando “Città che legge 2018”, esteso quest’anno alle città con più di 100mila abitanti.La chiusura della manifestazione è affidata a Francesca Leon, assessora comunale alla Cultura, che presenterà il “Patto per la Lettura” di Torino, con le firme del Cepell e del Forum del Libro: un documento che indica linee guida, obiettivi ed azioni da mettere in campo per diffondere e promuovere le attività di lettura in città.

g.m.

 

 

 

 

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Nelle foto

– Nicola Lagioia
– Margherita Oggero
– Enrico Pandiani

Antoon van Dyck conquista la Sabauda

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L’esposizione intende far emergere l’esclusivo rapporto che l’artista ebbe con le corti italiane ed europee, ove dipinse capolavori unici per elaborazione formale, qualità cromatica, eleganza e dovizia nella resa dei particolari

Il 16 novembre ai Musei Reali di Torino, nelle Sale Palatine della Galleria Sabauda, apre al pubblico la straordinaria mostra dedicata ad Antoon van Dyck (Anversa, 1599 – Londra, 1641), il miglior allievo di Rubens, che rivoluzionò l’arte del ritratto del XVII secolo. Personaggio di fama internazionale e amabile conversatore dallo stile ricercato, Van Dyck fu pittore ufficiale delle più grandi corti d’Europa e ritrasse principi, regine, gentiluomini e nobildonne delle più prestigiose dinastie dell’epoca. Attraverso un percorso espositivo che si dispiega in quattro sezioni, 45 tele e 21 incisioni, la mostra Van Dyck. Pittore di corte intende far emergere l’esclusivo rapporto che l’artista ebbe con le corti italiane ed europee, ove dipinse capolavori unici per elaborazione formale, qualità cromatica, eleganza e dovizia nella resa dei particolari, soddisfacendo le esigenze di rappresentanza e di status symbol delle classi dominanti: dagli aristocratici genovesi ai Savoia, dall’arciduchessa Isabella alle corti di Giacomo I e di Carlo I d’Inghilterra.Al grande artista i Musei Reali di Torino e Arthemisia dedicano una grande esposizione incentrata sulla sua vasta produzione di ritratti e non solo: le opere esposte provengono dai musei italiani e stranieri più prestigiosi come la National Gallery di Washington, il Metropolitan Museum di New York, la National Gallery di Londra e la Collezione Reale inglese, la Scottish National Gallery di Edimburgo, il Museo Thyssen-Bornemiza di Madrid, il Kunsthistorishes Museum di Vienna, l’Alte Pinakotek di Monaco, il Castello Arcivescovile di Kromeriz presso Praga, le Gallerie degli Uffizi, i Musei Capitolini di Roma, la Ca’ d’Oro di Venezia, la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, il Palazzo Reale e i Musei di Strada Nuova di Genova, in dialogo con l’importante e corposo nucleo dii capolavori della Galleria Sabauda.La mostra è organizzata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Musei Reali di Torino e dal Gruppo Arthemisia, con il patrocinio di Regione Piemonte e Città di Torino. La cura dell’esposizione è affidata ad Anna Maria Bava e Maria Grazia Bernardini e a un prestigioso comitato scientifico, composto da alcuni tra i più noti studiosi di Van Dyck quali Susan J. Barnes, Piero Boccardo e Christopher Brown. L’iniziativa è sostenuta da Generali Italia attraverso Valore Cultura, il programma per promuovere l’arte e la cultura su tutto il territorio italiano e avvicinare un pubblico vasto e trasversale – famiglie, giovani, clienti e dipendenti – al mondo dell’arte attraverso l’ingresso agevolato a mostre, spettacoli teatrali, eventi e attività di divulgazione artistico-culturali con lo scopo di creare valore condiviso.

Tra Yale, UConn e le feste studentesche

Quando si dice “Delta Kappa Epsilon”, “Phi Gamma Delta” o “Alpha Xi Delta” si parla di università americane e college, in particolar modo di fraternities e sororities (confraternite e sorellanze), organizzazioni di studenti o studentesse concepite in origine per lo sviluppo intellettuale, fisico e sociale degli appartenenti, con proprie “missions”, principi e regole interne; col passare degli anni hanno anche assunto fama negativa, dal momento che sono andati crescendo le forme umilianti di iniziazione ed il tasso alcolico delle loro feste. I fraternity parties, fin dai decenni passati, erano un contesto parecchio ambìto da chi si occupava di animazione, in primis dai gruppi musicali.

Negli anni Sessanta l’ondata post-British Invasion raggiunse università e colleges, dove la spinta anticonformista e ribelle trovò ben presto terreno fertile e seguaci convinti; sui fraternity parties si concentrava con forza l’attenzione di parecchi gruppi garage rock, che non di rado facevano letteralmente a gara per accaparrarsi l’animazione di questa o quella festa universitaria, soprattutto se il college era famoso e se erano possibili “agganci strategici” nel mondo musicale. In Connecticut il panorama era invitante tra Yale, Trinity College, University of Connecticut (Uconn) e Wesleyan University e la concorrenza musicale era agguerrita. Nella mischia si gettarono nel 1967 anche i Marble Collection (Charles Byrd, V; Lenny Eldridge, V, chit; Bruce Webb, b; Jimmy White, batt; Dave Coviello, org), formatisi nell’area tra Shelton ed Ansonia, sotto l’ala del manager Johnny Parris, proprietario dell’agenzia Act One Entertainments. La band godeva di grande affiatamento (che affondava le radici nei gusti musicali dei componenti, dai Beatles ai Doors) e capacità nelle esibizioni live, anche in venues affollate e rumorose; tanto che i Marble Collection ebbero occasione a più riprese di animare vari high school proms, ma anche molte feste universitarie e fraternity parties tra Yale (New Haven), UConn (Mansfield), Hartford, Middletown, New Britain. Le esibizioni spaziavano anche sul versante dei clubs (tra cui The Hullabaloos ad Ansonia e The Electric Grape a Milford) e oltre il confine del Connecticut, a nord fino a Springfield (Massachusetts) e ad ovest fino a Poughkeepsie e Kingston (New York). Il buon successo aprì le porte degli studi di registrazione e nel 1968 uscì il primo 45 giri: “(What’s So Good About) Love In Spring” [D. Coviello – L. Eldridge] (C-143; side B: “Glad You’re Mine”), inciso negli studi East Coast Sounds di New London, prodotto da Johnny Parris e Martin Markiewicz con etichetta Cotique. Con il primo single come trampolino di lancio i Marble Collection ebbero l’opportunità di comparire a The Brad Davis Show ad Hartford e di fare da opening band anche a nomi quali Sly & The Family Stone, The Cowsills, Rare Earth e Steppenwolf (a New Haven). Nel 1969 venne inciso il secondo 45 giri: “Friend Like You” [D. Coviello – L. Eldridge] (CO 2995; side B: “Big Girl”), inciso presso i Poison Ring Studios di Wallingford, prodotto da Johnny Parris con etichetta propria Marble Disc records.L’anno seguente furono registrate altre due tracce, “Lovin’ Eyes” e “The Man”, mai pubblicate; presto però la spinta creativa della band venne meno, così come la capacità di tenere il passo ad un’evoluzione globale del sound che si stava allontanando di molto dagli anni della “fiammata garage”. Dal 1970 il gusto musicale generale era ormai trasformato verso nuovi orizzonti e progressive rock e hard rock crescevano in importanza in modo irreversibile; fu così che entro l’autunno 1971 l’esperienza dei Marble Collection si chiuse definitivamente.

 

Gian Marchisio

 

Ariase Barretta presenta “Living Fleshlight”

Alla libreria Trebisonda insieme alla Live performance di Manuela Maroli.  In occasione delle iniziative contro la violenza sulle donne

Alla libreria torinese Trebisonda, in via Sant’Anselmo 22, verrà presentato sabato 17 novembre alle 18.30 il romanzo “Living Fleshlight”, “Le lacrime di Venere” ( MeridianoZero Edizioni) di Ariase Barretta, che dialoghera’ con Virginia Tomaselli, alla presenza della Live performance di Manuela Maroli. L’iniziativa si inserisce nella programmazione delle giornate contro la violenza sulle donne. Ariase Barretta è dottore di ricerca In Letteratura ispano americana presso l’Università Complutense di Madrid e ha vinto nel 2009 il premio La voce dei sogni, cui ha fatto seguito la pubblicazione del romanzo lirico Litany e del racconto intitolato “Oscillazioni e parallelismi”. Nel romanzo che viene presentato a Torino argomento centrale è il protocollo Thomson, che ha come obiettivo l’eliminazione di tutte le donne della società, tranne le più belle, che sono tenute in vita sotto forma di Fleshlight, giocattoli umani destinati a soddisfazione sessuale degli uomini, alle quali vengono amputate braccia e gambe, asportati gli organi riproduttivi e le corde vocali. Peter, un reporter che considera aberrante questa pratica, alla fine ammette che il Protocollo ha determinato la fine della violenza e del crimine. Manuela Maroli è un’artista interdisciplinare attiva nel campo della body art dal ’99. Esplora nella sua ricerca linguaggi poetici e visivi attraverso il corpo, suo principale strumento espressivo. Opera nel campo della performance art, della poesia d’azione e della body art estrema. Ha fondato nel 2014 il collettivo Svirgin_Arte, rivolto a creare nuove realtà di aggregazione ed espressione artistica e, dal 2015, è anche membro cofondatore del collettivo artistico internazionale The Others society.

Mara Martellotta