Torino tra le righe


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E serviro’
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3 Ottobre 2024
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Nell’anno del Giubileo, concorso letterario di importanza nazionale
Scrittore, giornalista, regista e sceneggiatore cinematografico e televisivo, ha contribuito moltissimo alla cultura e al costume italiano. Intellettuale finissimo, regista di autentici capolavori come “Piccolo mondo antico” e “Malombra”, autore di romanzi come “America primo amore”, “Le lettere da Capri” (premio Strega nel 1954), “I racconti del maresciallo”, di reportage famosi come “Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini”, Soldati ha lasciato un segno indelebile con la sua poliedrica attività artistica. Lo storico e saggista Pier Franco Quaglieni, l’ha ricordato con il libro “Mario Soldati. La gioia di vivere”, pubblicato nel ventennale della morte dello scrittore e regista torinese. Un testo di grande interesse aperto da un ampio saggio del direttore del Centro Pannunzio, amico personale di Soldati che fu uno dei fondatori del sodalizio culturale subalpino, presiedendolo per due decenni. Un altro grande amico di Soldati, il novarese Enrico Emanuelli, grande firma de La Stampa e del Corriere della Sera, ne tratteggiò così il profilo: “Soldati è scorbutico. Dicono che spesso lo sia per posa. E’ anche legato ad umori repentini, una cosa gli va o non gli va, un po’ a capriccio. Ma dietro a questi suoi estri, vi è una natura d’uomo indipendente, acuto, pieno di difetti appunto perché ha virtù non comuni”. Il brevissimo racconto che segue ( La camelia di Mario Soldati) è un piccolo omaggio alla sua memoria.
“Mario l’aveva portata da Tellaro a Corconio, dalla frazione più orientale del comune di Lerici, nello spezzino, dove aveva scelto di vivere i suoi ultimi anni, al luogo che, forse, più di altri, aveva lasciato un segno, una traccia indelebile nel suo animo, sulla collina che guarda il lago d’Orta. La “General Coletti” era una camelia bella,forte e rigogliosa, con i suoi grandi fiori doppi, a peonia, rosso ciliegia intenso chiazzato a macchie di un bianco candido, puro. L’aveva curata con le proprie mani, pazientemente, con l’attenzione necessaria che si presta ad una creatura apparentemente fragile e delicata. Così l’aveva portata con sè, sul lago d’Orta. Tornare in quel luogo dove aveva vissuto, con il suo più caro amico, “l’altro Mario”, un lungo momento magico, tra l’autunno del 1934 e la primavera del 1936 quando il destino li appaiò, assecondandoli nella scelta di un volontario esilio sul lago d’Orta, si era rivelata una buona idea. Anche portare in dono la camelia agli eredi delle due sorelle Rigotti, l’Angioletta e la Nitti, che all’epoca gestivano l’alberghetto dove dimorarono, era stata un’ottima e gradita intuizione. La locanda non c’era più e il suo posto era stato preso da un’abitazione privata che, però, aveva mantenuto intatta la fisionomia dello stabile. Lì, entrambi, quasi adottati da quella famiglia, misero radici e vissero intere stagioni alloggiando in “una stanza d’angolo, la più bella e più soleggiata dell’albergo, con una finestra a nord e una a ovest”. I ricordi erano come un fiume in piena. Le lunghe chiacchierate davanti al fuoco del camino, mangiando castagne arrosto o bollite, bevendo il vino nuovo nelle ciotole, si accompagnavano alle pagine che vennero scritte, ai libri che presero forma, agli articoli e ai saggi critici che consentirono a entrambi di racimolare il necessario per poter vivere “da scrittori”. L’ambiente circostante si era offerto con generosità ai “due Mario”, Soldati e Bonfantini, ricompensando i loro sguardi con l’intensa bellezza del paesaggio da una sponda del lago all’altra; da Gozzano a Orta, fino ad Omegna e da lì verso Oira, Ronco, Pella e Lagna. Dal balconcino della casa di Corconio, il panorama era rimasto intatto. Mario guardava, ammirato, la camelia dai fiori color panna e fragola. Poi, chiusi gli occhi, annusando l’aria, immaginava i colori del lago. Mario dubitava di potervi tornare. L’età non consentiva grandi progetti e nemmeno di coltivare illusioni. Lo consolava il pensiero che la più bella delle sue camelie potesse rimaner lì, a dimora. Un gesto d’amore di un uomo che in quei luoghi aveva lasciato una parte del suo cuore”.
Marco Travaglini
Si coglie nel silenzio di tanti la volontà del Sindaco che non si arrende alle difficoltà. Stiamo vivendo una crisi che è peggiore di quella del 1864, provocata dal trasferimento della capitale a Firenze. Gli sciocchi che dalle Olimpiadi in poi hanno pensato ad una città turistica al posto di quella industriale sono ormai al capolinea perché si è dimostrata un’utopia velleitaria puntare tutto sulle mummie egizie. Il sindaco Lo Russo sta prendendo il toro per le corna, cercando di rimettere in moto una città in affanno come non mai. Lo Russo si sta rivelando l’uomo giusto al posto giusto anche perché privo di quell’ideologismo intellettualistico che ha rovinato Torino. I tempi di Appendino sono davvero lontani e credo che si possa dar fiducia ad un sindaco pragmatico che è l’ultima ancora di salvezza.
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Nel corso della mostra Gianfranco Ferré dentro l’obiettivo, allestita nelle sale delle Cantine sino al 9 marzo 2025, il Forte di Bard propone una serie di eventi collaterali per approfondirne i contenuti, presentare la genesi del lavoro creativo di Gianfranco Ferré e conoscere più da vicino il mondo della moda e alcuni dei suoi protagonisti. Il primo appuntamento è con il fotografo Guido Taroni, nell’evento Ricordi di famiglia, sabato 28 dicembre 2024, nella sala Archi Candidi, alle ore 16.00. L’incontro sarà preceduto da una visita in mostra alle ore 15.00. |
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Chi non l’ha imparata a memoria e recitata a scuola questa poesia? Secondo alcuni esperti di storia della letteratura, i versi dell’ode “Piemonte” vennero composti da Giosuè Carducci durante il suo soggiorno al Grand Hotel di Ceresole Reale nel luglio del 1890.
Nato a Valdicastello, una frazione di Pietrasanta, nella Versilia lucchese, il 27 luglio 1835, il poeta e scrittore, fortemente legato alle tematiche “dell’amor patrio, della natura e del bello”, fu il primo italiano – nel 1906 – a vincere il Premio Nobel per la Letteratura. Questa la motivazione con la quale gli venne assegnato, vent’anni prima di Grazia Deledda, l’ambito premio dell’Accademia di Svezia: “non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”. Giosuè Carducci morì un anno dopo, il 16 febbraio 1907, all’età di 72 anni, lasciando alla cultura italiana una vasta produzione di poesie, raggruppate in diverse raccolte: dagli “Juvenilia” fino ai lavori della maturità. Tra questi ultimi si distingue in particolare la raccolta “Rime nuove”, composta da 105 poesie, tra cui sono contenuti i versi più conosciuti dell’autore, presenti in “Pianto antico” ( “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano..”) e “San Martino” (“La nebbia a gl’irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar;ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini va l’aspro odor dei vini l’anime a rallegrar..”).
Nella sua produzione non mancano anche alcuni lavori in prosa, tra cui la raccolta dei “Discorsi letterari e storici” e gli scritti autobiografici delle “Confessioni e battaglie“. Alla notizia della sua morte – nella sua casa delle mura di porta Mazzini, a Bologna – la Camera del Regno ( Carducci, dopo essere stato a lungo Senatore del Regno era stato eletto alla Camera nel collegio di Lugo per il gruppo Radicale, di estrema sinistra) sospese la seduta. L’Italia intera vestì il lutto per la scomparsa del poeta che aveva cantato il Risorgimento. Durante i funerali, che si svolsero il 18 febbraio, i cavalli che portavano il feretro alla Certosa avevano gli zoccoli fasciati. Il cuore di Bologna, piazza Maggiore, e molte case private si presentarono parate a lutto. I fanali lungo il percorso vennero accesi e “guarniti di crespo“. La salma del poeta, fu “rivestita dalle insegne della massoneria, alla quale fu affiliato, e molti massoni partecipano alle esequie”. Pochi giorni dopo la casa e la ricca biblioteca del poeta vennero donate dalla regina Margherita al Comune di Bologna.
Marco Travaglini
“Diamanti” sugli schermi
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
George Cukor le aveva chiamate semplicemente “Donne”, Ferzan Özpetek le definisce “Diamanti”, che sullo schermo è la sua opera numero quindici, da quel “Bagno turco” del ’97, volutamente tralasciando spot e piattaforme e prove teatrali “ricavate da” e serie di questi ultimi anni. Uno sguardo tutto al femminile oggi, diciotto attrici chiamate a raccolta tra quante già hanno lavorato con lui e reclutandone altre colte tra le più convincenti, a vario titolo, nel panorama delle ultimissime stagioni. Donne/attrici con le loro felicità e le insicurezze, i drammi e la coralità necessaria ad andare avanti, a superare le asprezze di una vita che ti ha legato ad un uomo o che non ha mai fatto a tempo a legarti, gli sguardi e gli atteggiamenti aspri che nascondono verità inconfessate. Con un espediente che finirà con lo sbilanciare la linearità del racconto, intralciandolo in sovrapposizioni fin troppo chiare dentro un linguaggio cinematografico, Özpetek le raccoglie in un grande terrazzo – di casa sua? la cucina accogliente l’avevamo già conosciuta con i personaggi perfetti di “Saturno contro”, esempio di quel cinema ozpetekiano che con “Le fate ignorante” e “La finestra di fronte” abbiamo preferito e ha incontrato stagioni ben più profonde -, inizia a spiegare per brevi parole, di mano in mano passano sinossi che diverranno sceneggiature vere e proprie, i personaggi prendono forma a poco a poco. Al centro di “Diamanti”, in un passaggio del tempo che dall’oggi riporta a metà degli anni Settanta dove basta accendere una sera un vecchio televisore per rivedere “Milleluci”, stanno Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca) Canova, due sorelle che hanno dato vita a una delle sartorie della capitale più prestigiose (angelo del focolare che nella cucina a tutto sovrintende la Giuseppina di Mara Venier, un passato di ballerina), in cui prendono vita con incanto e fatica i costumi che andranno a inorgoglire questo o quel film – nel ricordo del regista la sartoria Tirelli, dove lui arrivato fresco fresco a Roma cominciò a muovere cinematograficamente i primi passi: memorie, s’intravedono l’abito della Mangano in “Morte a Venezia” o della Schneider per “Ludwig” -, l’una tirannica, dura e scostante, una sorta di Miranda Priestly che annienta con comandi e sferzanti battute (“vuoi fare la costumista e non sai chi è Piero Tosi?”, silurerà una giovanissima piombata nel suo regno con velleità del posto più alto del podio, rimandandola su due piedi a mettere ordine nelle stoffe, tra cui si passano giornate interminabili, scampoli e bottoni e nastri, dove si cerca il colore esatto di questa o quella stoffa), un amore non vissuto alle spalle e una “protezione” nei confronti della sorella, per anni a rifiutare un rapporto pieno di contrasti, velato e taciuto fatto di azioni mai buttate alle spalle. Meglio scritto il personaggio di quest’ultima, con Trinca in stato di grazia, mentre tende a fossilizzarsi nella propria durezza in più scene l’Alberta di Ranieri, dove la corsa all’indipendenza si sarebbe dovuta costruire dando minor spazio a certI dialoghi e a certi comportamenti che sanno di luoghi comuni. Quando si tratterà di preparare i costumi di un film importante (“Diamanti” è necessariamente un film di scene e costumi, di Deniz Göktürk Kobanbay e Stefano Cammitti, bellissimi per quanto sanno di vita e di lavoro), di cui il regista Stefano Accorsi non si mostrerà mai soddisfatto salvo il risultato finale che è una splendida sorpresa, ecco l’irruzione della costumista Bianca Vega – una Vanessa Scalera che se volessimo estrarre la palma della vittoria andrebbe sicuramente a lei, i giurati di David e Donatello prossimi se ne dovranno ricordare -, forte e sicura in un primo momento nel suo modo d’avvicinarsi a quelle sue costruzioni che prendono vita anche con particolari insignificanti (le carte rosse che avvolgono le caramelle), avvilita quando il regista gliele negherà e pronta a mettere in discussione una ricerca e un’intelligenza. Le sarte in un simile universo debbono avere il loro giusto spazio soprattutto, all’insegna della certezza secondo cui “ognuna di noi non è niente ma insieme siamo una forza”: c’è Milena Mancini che deve subire le violenze di un marito (Vinicio Marchioni) che pare il gemello di Mastandrea nel “C’è ancora domani” targato Cortellesi, c’è la sempre più brava Paola Minaccioni con problemi in casa per un figlio che s’è rinchiuso nella sua stanza e non vuol più uscirne, c’è Anna Ferzetti con problemi di soldi a tirar su da sola il suo ragazzino, c’è Geppi Cucciari con qualche massima messa in bocca a forza e di troppo comodo, con qualche approccio un po’ più dappresso con i giovanotti che dentro o da fuori frequentano la sartoria, ma che non riesce a ritagliarsi nella sceneggiatura (che il regista ha scritto con Elisa Casseri e Carlotta Corradi) una storia tutta sua che meriti qualche respiro in più, ci sono Carla Signoris e Kasia Smutniak che giocano a fare le attrici di teatro e di cinema, impareggiabile nella polvere del palcoscenico la prima a preparare un Cechov per la prossima stagione. Un film che sa di mélo, carezzato da un mare di musiche con le gemme di Mina e di Giorgia, d’attrici soprattutto è “Diamanti”, e di una recitazione di gran valore da gustare guardando lo schermo, tanti ritratti che Özpeteck ha inventato, sempre con innegabile sentimento e la conferma di gran reggitore di marionette, glielo dobbiamo riconoscere, a cui regala un’anima, e spazi e tempi più o meno precisi (anche Sara Bosi o Nicole Grimaudo sono “troppo comparse”), forse non sempre definendo appieno le tele ma lasciando – forse l’occasione per una prossima serie? – alcuni contorni imprecisati, sfocati, là dove vengono a mancare certe luci che aiuterebbero a comprendere e a ispessire esistenze. Forse siamo troppo severi nel rimpiangere le storie di un tempo ma la prima sensazione è quella, anche se siamo più che disposti, costretti, a riconoscere quanto lo sguardo al Femminile da parte del regista rimanga unico. Non soltanto i sentimenti, ma la forza, la decisione a combattere, lo sguardo protettivo, tutta la partecipazione. È la sua visione, il suo modo di fare il cinema, di costruirlo con l’occhio dell’altra metà del cielo: nelle parole finali di Elena Sofia Ricci stanno momenti di riflessione che abbracciano un’arte e una storia questa volta dedicate “a Mariangela Melato, a Virna Lisi e a Monica Vitti, tre donne straordinarie con cui avrei voluto lavorare”.