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FINO AL 22 LUGLIO Monforte d’Alba (Cuneo)
“Un menino de rua dorme in grembo a una statua”: è il titolo e il soggetto di una foto scattata nel 1978 in Brasile, a Bahia, da Mario Dondero. L’immagine ha la grandiosità e la poetica drammaticità di una “Pietà” michelangiolesca, con quel bimbo rapito dal più profondo dei sonni e protetto dal freddo grembo di una statua femminea in sostituzione del caldo soffice e carnale grembo materno.
Un flash di dolcezza infinita e di cruda verità. Immagine, in quelle parti del mondo, di vita reale. Come lo sono, pur se di atmosfera e narrazione completamente diverse, il “Doppio ritratto con fiasco e botticelle” e il “Ritratto dell’usciere dell’Opera Pia Barolo”, realizzati rispettivamente nel 1910 e nel 1920 da Lorenzo Foglio. Pagina di divertita e divertente “vita da paese” la prima, più austera e formale la seconda con l’usciere in divisa e il faccione incorniciato da folti baffoni d’epoca che se ne fanno davvero un baffo di quelli ben curati e tirati a manubrio che incorniciano la risata (par di sentirla) di uno dei due amiconi con paglietta in testa e andanti a tutto fiasco del precedente “Doppio ritratto”. Vite, volti e mestieri, ritratti di una quotidianità a portata di mano e di personaggi assolutamente comuni, ma anche di altri noti e di larga e condivisa popolarità : sono questi i soggetti che accomunano, per scelta culturale e di mestiere, le immagini fotografiche esposte, fino al 22 luglio, negli spazi della Fondazione Bottari Lattes di Monforte d’Alba. Sessanta in tutto e tutte in bianco e nero: trenta a firma del noto fotoreporter Mario Dondero (Milano, 1928-2015), fra le figure più originali del fotogiornalismo italiano e non solo, e trenta scattate dal fotografo-postino di Barolo Lorenzo Foglio (Novello di Cuneo, 1886-1974), i cui “ritratti” realizzati senza mai lasciare il lavoro di postino – che per lui é stato anzi fonte ispirativa continua ed eccezionale in quel quotidiano girovagare, agli inizi addirittura con una “Carl Zeiss” a soffietto, fra cascine e frazioni del cuneese – rappresentano un magnifico e perfino didattico spaccato della più autentica storia di Langa. Organizzata dalla Fondazione Bottari Lattes e promossa dall’Associazione Giulia Falletti di Barolo in collaborazione con la Galleria Ceribelli di Bergamo, la rassegna intende proprio sottolineare le affinità di sguardo sull’umanità (fatte salve le diversità di stile, di soggetti e di tecniche) proprie dei due fotografi. Una mostra che lo stesso Dondero – si racconta – avrebbe fortemente voluto dopo aver scoperto, nel 2013 durante una visita nelle Langhe, ed esserne stato profondamente colpito, le lastre fotografiche al bromuro d’argento con impresse le immagini scattate un secolo prima dal fotografo portalettere di Barolo. Per questa ragione “a qualche anno dalla scomparsa del grande fotoreporter– spiegano gli organizzatori – ereditiamo la sua intuizione e omaggiamo i due fotografi dedicando loro questa esposizione di immagini, un’unione di sguardi in grado di creare una commistione di umanità e vita”. Che per Foglio è il variegato microcosmo delle sue colline di Langa (con il bottaio, la trebbiatura, le materassaie e la preparazione dei salici per la legatura delle viti o ancora il saggio ginnico dei giovani balilla e il Presidente Einaudi in visita a Barolo); mentre in Dondero l’orizzonte si amplia passando dalla silente quotidianità dello sconosciuto “Contadino di San Sepolcro” (che con fierezza e il viso che è maschera stupenda di rughe e di fatica mostra all’obiettivo il suo strumento di lavoro) a quella amplificata dei grandi nomi della cultura e dello spettacolo dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (da Pier Paolo Pasolini con la madre Susanna nella casa romana all’Eur, a Carla Fracci o a Vittorio Gassman con il teschio di Amleto e alle ballerine dell’avanspettacolo) fino alla singolarissima documentazione degli epocali cambiamenti politico-sociali che, nel secolo scorso, hanno coinvolto l’Italia, al pari di altri Paesi come il Brasile, la Spagna, la Germania, la Francia e il Nord Africa. Bandite le costruzioni artificiose, erano sempre “le persone e le loro storie a interessarlo – scriveva di lui Antonio Gnoli – ancor prima della fotografia”. Storie. Piccole, grandi o infinitamente grandi. Il giudizio è soggettivo. Momenti irripetibili, di quelli che di colpo ci trovano più che essere trovati e “che resteranno a disposizione di quelli che verranno dopo”. Questo era l’esser fotografo per Mario Dondero. E, prima di lui, per il fotografo-postino di Barolo, Lorenzo Foglio.
Gianni Milani
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“Mario Dondero e Lorenzo Foglio. Lo scatto umano”
Fondazione Bottari Lattes, Monforte d’Alba (Cuneo), via Marconi 16; tel. 0173/789282 – www.fondazionebottarilattes.it
Fino al 22 luglio – Orari: dal lun. al ven. 10/12,30 – 14,30/17,30; sab. e dom. 15,30/18,30
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Nelle foto:
Sabato 14 luglio alle ore 21,15 nel Chiostro “Ester Siccardi” di viale Martiri della Libertà 1 il prof. Giorgio Durante in dialogo con l’autore presenterà, in anteprima nel Ponente ligure, il libro di Pier Franco Quaglieni “Grand’Italia” edito da Golem. Introdurrà la dottoressa Vittoria Barroero presidente del DLF di Albenga. Il libro prosegue il percorso iniziato con “Figure dell’Italia civile”di cui è uscita nel 2018 una seconda edizione.Quaglieni, storico e saggista,ma anche docente e giornalista, ha scritto,tra gli altri, i ritratti del filosofo Benedetto Croce,del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat,degli intellettuali e politici Antonio Gramsci e Piero Gobetti, del Re Umberto II di Savoia,degli scrittori e giornalisti Giovannino Guareschi, Leonardo Sciascia,Oriana Fallaci, Umberto Eco, Giovanni Arpino,del presidente della Fiat Umberto Agnelli,dei magistrati Bruno Caccia e Lucio Toth, dei giuristi Giovanni Conso e Stefano Rodotà,del politologo Giovanni Sartori, del partigiano Enrico Martini Mauri,della scienziata Rita Levi Montalcini,dell’attore Giorgio Albertazzi. Un inedito di Mario Soldati chiude il volume. Come scrive l’autore nella introduzione, si tratta di un volume polifonico, post-ideologico,che ricorda grandi figure del ‘900 italiano,a prescindere dagli schieramenti. “Una grand’Italia- aggiunge Quaglieni- da opporre idealmente all’Italietta di oggi, a cui si deve guardare per dare speranza al nostro futuro.Una Grand’Italia in cui la differenza di idee viene vista come una ricchezza intellettuale importante.
L’abbazia di Vezzolano, con le sue ricchezze iconografiche e architettoniche, sarà l’impianto scenografico di Anima Vagans – Musica, Parole e azioni sceniche nei luoghi dell’anima, quattro performance che si terranno in quattro serate: 7, 14 e 21 luglio e venerdì 27 luglio, quest’ultima in concomitanza con l’eclissi lunare alla quale la performance sarà dedicata. Tutti gli spettacoli avranno inizio alle ore 21 e saranno itineranti nei luoghi interni ed esterni dell’abbazia. Luoghi che diventeranno cassa di risonanza per suggestioni evocative in un gioco di contaminazioni, interazioni, contrasti tra le arti, tra riproduzione filologica e libera rielaborazione in chiave contemporanea di temi prevalentemente Medioevo-Rinascimentali.
Helena Janeczek ha vinto il premio Strega, il più importante premio letterario italiano, con il romanzo La ragazza con la Leica, pubblicato da Guanda. Nata in Germania, a Monaco di Baviera in una famiglia di ebrei tedeschi, la Janeczek vive in Italia da 35 anni ed è cittadina italiana. La protagonista di La ragazza con la Leica è Gerda Taro ( il cui vero nome era Gerta Pohorylle),fotografa tedesca morta nel 1937 a 26 anni durante la guerra civile spagnola, investita da un carro armato durante un bombardamento aereo. Il romanzo si basa su fonti storiche e tra i numerosi personaggi realmente vissuti spicca la figura del celebre fotografo Robert Capa, che fu compagno di Gerda Taro. Il nostro giornale ne aveva parlato mesi fa nell’articolo di Marco Travaglini che riproponiamo sulla vita straordinaria della Taro che è sepolta nel cimitero parigino del Père Lachaise.
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Gerda Taro. La vita ribelle e breve di una fotoreporter
Nel cimitero di Père-Lachaise, il grande cimetière de l’Est sulla collina che sormonta la rive droite e il Boulevard de Ménilmontant, nel ventesimo arrondissement di Parigi, è sepolta, tra i tanti illustri defunti, Gerda Taro. La sua tomba è nella 97° divisione, non lontana da quella di Edith Piaf e dal “muro dei Federati“, un luogo-simbolo dove, il 28 maggio del 1871, furono fucilati dalle truppe di Thiers gli ultimi 147 comunardi sopravvissuti alla “semaine sanglante”, la settimana di sangue che pose fine al sogno ribelle del governo rivoluzionario della Comune di Parigi. Questo è, senza dubbio, il luogo ideale per custodire le spoglie mortali della prima giornalista di guerra a cadere sul campo durante lo svolgimento della sua professione, entrata nella storia della fotografia per i suoi reportage realizzati durante la Guerra di Spagna. Gerda Taro, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nasce nel 1910 a Stoccarda e, nonostante le sue origini borghesi entra giovanissima a far parte di movimenti rivoluzionari di sinistra. Le idee politiche, la militanza e la sua origine ebraica, con l’avvento del nazismo in Germania, la costringono a rifugiarsi a Parigi. Nella ville Lumière degli anni folli, magistralmente descritta da Ernst Hemingway in “Festa mobile”, la stella cometa della Taro travolge le vite degli amici e degli amanti con un’energia inesauribile. E’ a Parigi che Gerta Pohorylle conosce André Friedmann, ebreo comunista ungherese e fotografo, che le insegna le tecniche del mestiere. Formano una coppia e iniziano a lavorare insieme. L’atmosfera magica della città e l’estro creativo e vulcanico della giovane la portano a creare per il compagno una figura del tutto nuova. Nasce così Robert Capa, un fantomatico fotoreporter americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Con questo pseudonimo il mondo intero conoscerà Friedman e il fotografo finirà per sostituirlo al suo vero nome, conservandolo per tutta la vita. Lei stessa cambia il nome in Gerda Taro.
Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola. Si tratta di una scelta importante che li coinvolgerà e segnerà così profondamente da farli diventare alcuni tra i più importanti testimoni del conflitto, che seguono e raccontano al mondo attraverso scatti sensazionali e numerosi reportage pubblicati su periodici come “Regards” o “Vu“, la prima vera rivista di fotogiornalismo. Gerda con incredibile coraggio e sprezzo per il pericolo, rischia più volte la vita per fermare, attraverso le immagini, un momento del conflitto. Helena Janeczek ne “La ragazza con la Leica” ci regala un ritratto incisivo e significativo della Taro, raccontando che si “trascinava dietro la fotocamera, la cinepresa, il cavalletto, per chilometri e chilometri. Ted Allan ha raccontato che con le ultime parole ha chiesto se i suoi rullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri”. Gerda fotografa prevalentemente con una Rolleiflex, formato 6×6, mentre Robert preferisce la Leica. Poi anche lei inizia ad utilizzare la piccola fotocamera. Nello stile di Gerda predomina l’individuo, i suoi scatti mettono a fuoco i protagonisti della guerra, le vittime, i combattenti, le donne e i bambini, immagini forti che descrivono, in punta di obiettivo, l’evento storico che anticipò come un tragico prologo la seconda guerra mondiale. Le sue foto sono come la sua vita tumultuosa, simile ad una corsa a perdifiato, una vita segnata da passioni forti, da un’incredibile vitalità e da un desiderio di affermazione e di emancipazione che, storicamente, le donne avrebbero raggiunto solo molto più tardi. Questa vita viene spezzata dai cingoli di un carro armato che la travolge proprio mentre torna dalla battaglia di Brunete dove aveva realizzato il suo servizio più importante, che viene pubblicato postumo sulla rivista “Regards”. Sotto quel carro armato si spengono i sogni, l’entusiasmo, tutte le foto che il futuro avrebbe potuto regalarle e la breve ed intensa vita della 26enne Gerda Taro.Trasportata a Madrid, la fotografa resta cosciente per alcune ore, giungendo a vedere un’ultima alba: quella del 26 luglio 1937. Il suo corpo viene riportato a Parigi, la patria della sua vita di artista, e, accompagnato da un corteo funebre di duecentomila persone, viene tumulato al cimitero del Père Lachaise. Il suo elogio funebre viene scritto e letto da Pablo Neruda e Louis Aragon. Robert Capa, distrutto dalla morte della sua compagna di vita e d’arte, un anno dopo la scomparsa di Gerda, pubblica in sua memoria “Death in the Making“, riunendo molte delle foto scattate insieme. La vita di Capa, da quel momento, sembra procedere in uno strano, inquietante e provocatorio “gioco a rimpiattino” con la Morte che il fotografo sfida, conflitto dopo conflitto, scattando immagini sconvolgenti e sempre fedeli al suo motto “se le foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino”. La morte gli dà scacco matto attraverso una mina antiuomo, nel 1954, nella guerra in Indocina, mentre Capa cerca, ancora una volta, di regalare all’umanità un’altra testimonianza dell’orrore dei conflitti bellici. Un fotoreporter, in fondo, non deve fare niente altro se non testimoniare la realtà e semplicemente “dare la notizia”.
Marco Travaglini
Tornano nelle leggende e nella storia delle montagne piemontesi ogni estate, puntuali e minacciosi. Sono i Saraceni, i Mori, i Maomettani o i Turchi, il cui nome è da oltre mille anni tragicamente inciso con lettere di sangue e fuoco nella storia d’Italia. Leggende nere aleggiano sulle gesta dei Saraceni, venuti da lontano nella nostra penisola come invasori, razziatori, guerrieri e pirati. Sulle coste del Mediterraneo li ricordano ancora oggi con rievocazioni storiche mentre nelle valli del Piemonte danze e sciabole volteggiano nell’aria annunciando il loro arrivo che non terrorizza più nessuno e, anzi, preannuncia la vittoria delle forze positive su quelle negative, il trionfo del Bene sul Male. Sabato 7 e domenica 8 luglio tocca a Bagnasco, un piccolo Comune di mille anime, in alta Valle Tanaro, in provincia di Cuneo. Dalla torre del castello si narra che il paese fu occupato e saccheggiato dai saraceni mille anni fa e un’antica danza contadina ricorda l’evento ogni anno. È il “Bal do sabre”, il ballo delle sciabole che anima le vie del Paese tra danzatori, giullari, araldi, tamburini, scimitarre e saraceni in costumi moreschi. È la storia di un contadino bagnaschese che rifiuta di dare la figlia in sposa al capo dei saraceni invasori e viene giustiziato nella piazza del paese. Ma si va soprattutto al di là della leggenda: si esaltano gli antichi riti della civiltà contadina, propiziatori della fertilità della terra, con la primavera che sconfigge la stagione fredda e i semi che ricominciano a germogliare. Vecchie tradizioni popolari che durante il Bal do Sabre vengono portate in scena da dodici spadonari, dodici come i mesi dell’anno, con sciabole danzanti tra roboanti tamburi e urla di menestrelli. La primavera si risveglia in un’esplosione di colori. I Saraceni sono cacciati dalla valle. La danza rurale, sospesa per lungo tempo, è rinata alla fine degli anni Sessanta grazie alla passione per la storia locale di un gruppo di ragazzi e da allora non si è più fermata. Gli spadonari, alcuni dei quali provengono da altri Paesi europei, si troveranno a Bagnasco sabato 7 luglio per la due giorni del Bal do Sabre.
Filippo Re
Conoscevamo Guido Mannini come legato al figurativo, come descrittore degli spazi desertici e di quanti li abitano ma sapevamo anche di un percorso desideroso di evoluzioni, di nuove scoperte. Lo abbiamo riscoperto, felicemente – la sua personale Metamorphosis si è chiusa pochi giorni fa presso la galleria Innerspace di via Cesare Battisti 17 -, dinanzi a cerchi smaltati (“macchie”, si fa troppo presto a far cadere loro addosso una definizione, “psicologiche”, con predominanza di rossi e porpore e violacei) occupati da forme astratte, prepotenti, di un forte dinamismo, capaci di esprimersi attraverso un perfetto incontro di colori estremamente accesi (si noti Magma o ancora l’accensione di Intuizione), che spingono a una curiosità futura. Colori che si lasciano alle spalle la morbidezza sabbiosa degli esempi del passato – quanto lontani! -, per approdare ad una fascinazione cromatica inaspettata e del tutto coinvolgente. Un fuoco, nuovissimo, una “deflagrazione” è stata anche definita questa nuova espressione del percorso di Mannini, forse un accumulo di sogni o una strada tutta da percorrere, una libertà di spazi sinora mai scoperti né attraversati, certo una voglia di sperimentare che deriva da un angolo della vita, personalissimo, da uno sguardo che intende andare oltre.
Elio Rabbione
Le immagini:
“Intuizione”, smalto, 150 x 100 cm.
“Magma”, smalto su tela, diam. 100 cm.
Porta il nome della nota città indiana il nuovo coinvolgente singolo dal 6 luglio in radio
Arriva il 6 luglio in radio ‘BOMBAY’, secondo estratto da ‘Pelle d’oca e Lividi’ (‘Hit Rainbow/Artist First’), album monumentale di ben 19 brani uscito per l’etichetta di Roby Facchinetti dei Pooh e Athos Poma che il 25 maggio scorso ha segnato il ritorno sulle scene di Gatto Panceri, cantautore e stimato hitmaker (oltre 45 milioni di copie vendute come autore per i grandi della musica): nelle prime due settimane di uscita il disco è stato primo su Itunes Rock e su Amazon nelle vendite dei dischi, andando subito esaurito. Inoltre, l’album ha esordito al 57° posto in classifica F.I.M.I. Dopo la title-track – profonda e impegnata – è tempo invece di un altro brano più immediato, fresco e leggero al punto giusto. Un divertissement in musica adatto alla stagione più calda dell’anno, ma senza mai citare le parole ‘estate’, ‘mare’ e il verbo ‘bailando’: un cantautore di razza sa evitarle.
Gatto Panceri così racconta ‘Bombay’:
“Che cosa non si è disposti a fare, per amore? Persino le cose più impossibili e impensate…Come andare a piedi fino a Bombay, dopo aver sfornato per far colpo pane alle noci, e aver scritto un canto a due voci per l’amata, e mille altre inedite pensate. La mia dichiarazione d’amore più allegra e spensierata mai firmata e interpretata sinora, tra chitarre in puro stile latin-soul e il gusto di Carlo Santana“.
Gatto Panceri è molto legato all’India e a Bombay dopo un viaggio recentemente fatto lì a scopo umanitario. Nel frattempo, il cantautore prosegue l’attività live, dopo l’applauditissima performance ‘sold out’ sul palco del ‘#Parco Dora Live’, tra i grandi Festival musicali estivi più importanti e seguiti d’Italia.