CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 572

Il "Giorno della Memoria" per la Fondazione Bottari Lattes

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Allo Spazio Don Chisciotte di Torino una mostra di Mario Lattes sulla Shoah e la presentazione di un progetto degli studenti del Liceo “Gioberti”

E’ un doppio appuntamento, quello con cui la Fondazione Bottari Lattes – in occasione del “Giorno della Memoria”, celebrata il 27 gennaio di ogni anno – intende ricordare giovedì prossimo 24 gennaio, presso lo Spazio Don Chisciotte di Torino tutte le vittime dell’Olocausto. A partire dalle ore 17,30 nei locali di via della Rocca 37/b (tel. 011/ 1977.1755), si terrà infatti l’inaugurazione della mostra “Mario Lattes. Non dimenticare”, che propone opere inedite (appartenenti alla Fondazione, nata nel 2009 a Monforte d’Alba, e agli eredi dell’eclettico artista torinese di origine ebraica e fra le figure di maggior spicco nel mondo artistico e culturale del secondo dopoguerra), seguita dalla presentazione al pubblico della ricerca “Non dimenticare” realizzata da un gruppo di studenti del subalpino Liceo Classico “Gioberti” e mirata a verificare le conseguenze che le famigerate leggi razziali del 1938 ebbero su alunni e docenti della scuola di via Sant’Ottavio (fra i più antichi Licei d’Italia), con un approfondimento particolare sulla storia personale dello stesso Mario Lattes. Ma vediamo nel dettaglio i due eventi.
Mostra “Mario Lattes. Non dimenticare
Inaugurata il prossimo giovedì 24 gennaio, alle ore 17,30 e in programma fino a sabato 23 febbraio (dal mart. al sab., ore 10,30/12,30 e 15/19), la selezionata rassegna propone alcuni – una quindicina in tutto – fra i più significativi lavori di Mario Lattes ( editore, pittore, incisore e scrittore, ma anche acuto ideatore di prestigiose iniziative culturali, scomparso nel 2001 a Torino, dov’era nato nel 1923) dedicati alla cultura ebraica e alla tragedia inumana della Shoah, con immagini di potente, spesso drammatico, impatto visivo. Immagini come grovigli di segni e colori che raccontano inquietanti realtà confuse fra sogno e memoria, cristallizzate in cifre stilistiche a volte primordiali, mai ripetitive ma libere di affidarsi alle suggestioni di un incidere astratto così come alla vigorosa ridondanza di un visionario e fantastico espressionismo, tale da evocare – come s’è fatto – illustri discendenze da Gustave Moreau o da Odilon Redon fino al “pittore delle maschere”, il belga James Ensor. Ne sono chiara prova le opere esposte, che vanno da un intenso “Giro dei Serafin” del ’58 con quei rossi che scompigliano con forza inaspettata la trama narrativa e che ritroviamo, a quasi trent’anni di distanza, in quell’“Interno di Sinagoga”, olio su tela del 1987, anch’esso carico di inquiete atmosfere; per passare attraverso le pagine non meno turbanti di “Kaddish” e dei “Deportati”, entrambi del ’59, o della “Figura ebraica” a tempera su carta dell’’84. “Lattes – scriveva Marco Valloraè sempre là dove non te lo attendi, anche tecnicamente”. E l’incontro è sempre di quelli impegnativi. Che ti inducono a mettere in gioco la forza spossante delle emozioni.
Progetto “Non dimenticare. Le conseguenze delle leggi razziali del 1938 al Liceo Gioberti

E all’inaugurazione della mostra di Lattes, seguirà la presentazione della ricerca, raccolta nel volume “Non dimenticare. Le conseguenze delle leggi razziali del 1938 al Liceo Gioberti“, che ha coinvolto trentadue studenti di classi diverse del “Gioberti”, guidati da quattro insegnanti. Alla base del lavoro, incontri con esperti, storici, testimoni e professionisti, nonché l’attento studio dei documenti conservati nell’Archivio storico del Liceo, nell’ “Archivio Terracini” della Comunità ebraica e nell’Archivio di Stato; il tutto alla ricerca dei professori e degli studenti che a causa delle leggi razziali furono allontanati dalla scuola o subirono conseguenze anche gravi, con un approfondimento sulla vicenda personale di Mario Lattes. Tante le storie che affiorano da fotografie, registri di classe, pagelle, lettere, telegrammi e verbali. Come quelle dei due professori sospesi mentre sono in servizio: Marco Levi, che ricopre vari incarichi di responsabilità all’interno della scuola, e Giuseppe Morpurgo, punto di riferimento culturale fuori e dentro l’Istituto. La ricerca studia anche la vita e le famiglie degli studenti definiti di “razza ebraica” a cui è stato impedito di continuare il liceo: oltre a Mario Lattes,  Alda Beer, Germana Colombo, Vera Debenedetti, Giuliana Diena, Gastone Guastalla, Lucia e Gabriella Morpurgo,

Giorgio Ovazza, Guido e Sergio Treves. Tra gli altri studenti colpiti in modo più o meno drammatico dalle leggi razziali ci sono Franco Foà, che pur continuando a frequentare il liceo in quegli anni ha preferito assumere il cognome della madre, Bernardi, per non destare sospetti, e Bruno Finzi il cui nome sul registro appare accompagnato dalla scritta in rosso “di razza ebraica”. La ricerca è riuscita anche a individuare le ripercussioni drammatiche delle leggi su alcuni studenti che avevano frequentato il “Gioberti” molti anni prima, come Enrico Anau, studente di I Classico nel 1901-02 a cui nel 1938 viene impedito l’esercizio della professione di medico, o Ugo Segre, studente di I Classico nel 1909-10, morto con il figlio Tullio ad Auschwitz. Ci sono poi le tre docenti sospese mentre prestano servizio in altre scuole, colpite dalle leggi razziali, con differenti conseguenze, a volte drammatiche, che arriveranno al “Gioberti” dopo la guerra e vi rimarranno a lungo, fino alla pensione: Lia Corinaldi, Giuliana Fiorentino Tedeschi e Giorgina Levi Arian.
La pubblicazione è reperibile online all’indirizzo web:
www.liceogioberti.gov.it/wp-content/uploads/2018/05/Non-dimenticare.pdf

g.m.

Foto

– Mario Lattes: “Senza titolo”, 1970
– Mario Lattes: “Interno di Sinagoga”, 1987
– Mario Lattes: “Kaddish”, 1959
– Liceo Gioberti: Classe IV B con la professoressa Arian Levi, 1955
– Liceo Gioberti: Telegramma riferito al professor Giuseppe Morpurgo

Il “Giorno della Memoria” per la Fondazione Bottari Lattes

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Allo Spazio Don Chisciotte di Torino una mostra di Mario Lattes sulla Shoah e la presentazione di un progetto degli studenti del Liceo “Gioberti”

E’ un doppio appuntamento, quello con cui la Fondazione Bottari Lattes – in occasione del “Giorno della Memoria”, celebrata il 27 gennaio di ogni anno – intende ricordare giovedì prossimo 24 gennaio, presso lo Spazio Don Chisciotte di Torino tutte le vittime dell’Olocausto. A partire dalle ore 17,30 nei locali di via della Rocca 37/b (tel. 011/ 1977.1755), si terrà infatti l’inaugurazione della mostra “Mario Lattes. Non dimenticare”, che propone opere inedite (appartenenti alla Fondazione, nata nel 2009 a Monforte d’Alba, e agli eredi dell’eclettico artista torinese di origine ebraica e fra le figure di maggior spicco nel mondo artistico e culturale del secondo dopoguerra), seguita dalla presentazione al pubblico della ricerca “Non dimenticare” realizzata da un gruppo di studenti del subalpino Liceo Classico “Gioberti” e mirata a verificare le conseguenze che le famigerate leggi razziali del 1938 ebbero su alunni e docenti della scuola di via Sant’Ottavio (fra i più antichi Licei d’Italia), con un approfondimento particolare sulla storia personale dello stesso Mario Lattes. Ma vediamo nel dettaglio i due eventi.

Mostra “Mario Lattes. Non dimenticare

Inaugurata il prossimo giovedì 24 gennaio, alle ore 17,30 e in programma fino a sabato 23 febbraio (dal mart. al sab., ore 10,30/12,30 e 15/19), la selezionata rassegna propone alcuni – una quindicina in tutto – fra i più significativi lavori di Mario Lattes ( editore, pittore, incisore e scrittore, ma anche acuto ideatore di prestigiose iniziative culturali, scomparso nel 2001 a Torino, dov’era nato nel 1923) dedicati alla cultura ebraica e alla tragedia inumana della Shoah, con immagini di potente, spesso drammatico, impatto visivo. Immagini come grovigli di segni e colori che raccontano inquietanti realtà confuse fra sogno e memoria, cristallizzate in cifre stilistiche a volte primordiali, mai ripetitive ma libere di affidarsi alle suggestioni di un incidere astratto così come alla vigorosa ridondanza di un visionario e fantastico espressionismo, tale da evocare – come s’è fatto – illustri discendenze da Gustave Moreau o da Odilon Redon fino al “pittore delle maschere”, il belga James Ensor. Ne sono chiara prova le opere esposte, che vanno da un intenso “Giro dei Serafin” del ’58 con quei rossi che scompigliano con forza inaspettata la trama narrativa e che ritroviamo, a quasi trent’anni di distanza, in quell’“Interno di Sinagoga”, olio su tela del 1987, anch’esso carico di inquiete atmosfere; per passare attraverso le pagine non meno turbanti di “Kaddish” e dei “Deportati”, entrambi del ’59, o della “Figura ebraica” a tempera su carta dell’’84. “Lattes – scriveva Marco Valloraè sempre là dove non te lo attendi, anche tecnicamente”. E l’incontro è sempre di quelli impegnativi. Che ti inducono a mettere in gioco la forza spossante delle emozioni.

Progetto “Non dimenticare. Le conseguenze delle leggi razziali del 1938 al Liceo Gioberti

E all’inaugurazione della mostra di Lattes, seguirà la presentazione della ricerca, raccolta nel volume “Non dimenticare. Le conseguenze delle leggi razziali del 1938 al Liceo Gioberti“, che ha coinvolto trentadue studenti di classi diverse del “Gioberti”, guidati da quattro insegnanti. Alla base del lavoro, incontri con esperti, storici, testimoni e professionisti, nonché l’attento studio dei documenti conservati nell’Archivio storico del Liceo, nell’ “Archivio Terracini” della Comunità ebraica e nell’Archivio di Stato; il tutto alla ricerca dei professori e degli studenti che a causa delle leggi razziali furono allontanati dalla scuola o subirono conseguenze anche gravi, con un approfondimento sulla vicenda personale di Mario Lattes. Tante le storie che affiorano da fotografie, registri di classe, pagelle, lettere, telegrammi e verbali. Come quelle dei due professori sospesi mentre sono in servizio: Marco Levi, che ricopre vari incarichi di responsabilità all’interno della scuola, e Giuseppe Morpurgo, punto di riferimento culturale fuori e dentro l’Istituto. La ricerca studia anche la vita e le famiglie degli studenti definiti di “razza ebraica” a cui è stato impedito di continuare il liceo: oltre a Mario Lattes,  Alda Beer, Germana Colombo, Vera Debenedetti, Giuliana Diena, Gastone Guastalla, Lucia e Gabriella Morpurgo,

Giorgio Ovazza, Guido e Sergio Treves. Tra gli altri studenti colpiti in modo più o meno drammatico dalle leggi razziali ci sono Franco Foà, che pur continuando a frequentare il liceo in quegli anni ha preferito assumere il cognome della madre, Bernardi, per non destare sospetti, e Bruno Finzi il cui nome sul registro appare accompagnato dalla scritta in rosso “di razza ebraica”. La ricerca è riuscita anche a individuare le ripercussioni drammatiche delle leggi su alcuni studenti che avevano frequentato il “Gioberti” molti anni prima, come Enrico Anau, studente di I Classico nel 1901-02 a cui nel 1938 viene impedito l’esercizio della professione di medico, o Ugo Segre, studente di I Classico nel 1909-10, morto con il figlio Tullio ad Auschwitz. Ci sono poi le tre docenti sospese mentre prestano servizio in altre scuole, colpite dalle leggi razziali, con differenti conseguenze, a volte drammatiche, che arriveranno al “Gioberti” dopo la guerra e vi rimarranno a lungo, fino alla pensione: Lia Corinaldi, Giuliana Fiorentino Tedeschi e Giorgina Levi Arian.

La pubblicazione è reperibile online all’indirizzo web:

www.liceogioberti.gov.it/wp-content/uploads/2018/05/Non-dimenticare.pdf

g.m.

Foto

– Mario Lattes: “Senza titolo”, 1970
– Mario Lattes: “Interno di Sinagoga”, 1987
– Mario Lattes: “Kaddish”, 1959
– Liceo Gioberti: Classe IV B con la professoressa Arian Levi, 1955
– Liceo Gioberti: Telegramma riferito al professor Giuseppe Morpurgo

Il manicomio più grande di tutti

C’erano una volta i matti
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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2. Il manicomio più grande di tutti
La nascita della Certosa Reale a Collegno è strettamente legata alle vicende politiche del Ducato di Savoia nel XVIII secolo. Fu Maria Cristina di Francia a fondare il monastero certosino, basato sul modello architettonico della Grande Chartreuse di Grenoble, portando così a compimento le volontà del suocero e del defunto marito. Come sede del monastero fu scelto Palazzo Data, un complesso di edifici al di fuori del perimetro murario medievale collegnese. Il Palazzo era stato fatto costruire da Bernardino Data, il quale, nel 1628, venne prima accusato di peculato e di gravi abusi amministrativi e in seguito condannato a morte, poi, grazie ad amicizie altolocate, la pena si tramutò in esilio perpetuo, mentre i suoi beni venivano incamerati dall’erario ducale. Madama Reale, reggente del Ducato, volle tenere fede alla volontà dei Duchi di Savoia e diede così inizio alla fondazione della Certosa, acquistando anche i fondi contigui. La Duchessa permise ai monaci certosini di installarsi stabilmente a Collegno, in un’ampia area, attorno alla quale vennero erette alte mura che non solo assicuravano ai monaci una totale clausura, ma delimitavano le proprietà contigue al monastero e impedivano la vista dei fabbricanti ai collegnesi. Il 31 marzo 1641 fu sancita la nascita formale del complesso certosino e successivamente, nel 1737, Carlo Emanuele III donò alla Certosa il grandioso portale d’accesso, progettato da Filippo Juvarra, sul quale ancora troneggiano le statue della Fede e della Carità. Negli anni seguenti i monaci non ebbero vita facile, dapprima costretti a lasciare temporaneamente il complesso, a causa del decreto napoleonico di soppressione dei monasteri, vennero poi del tutto allontanati nel XIX secolo, con l’insediamento del nuovo manicomio, fatto che comportò anche il completo riadattamento dello stabile alle nuove necessità ospedaliere. Quando, molto tempo dopo, l’ospedale psichiatrico venne definitivamente chiuso, la struttura passò sotto la proprietà del Comune. Il 25 aprile 1985 venne inaugurato il parco pubblico intitolato al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’interno del quale hanno avuto la possibilità di nascere, e tutt’oggi persistono, associazioni di vario genere, che piano piano si sono insediate all’interno dei vecchi e spogli padiglioni. Nell’ex reparto 21, quello riservato ai “pazzi criminali”, risiede illegalmente dal 2006 un gruppo di anarchici che ha denominato la propria sede “Mezcal Squat”, uno spazio libero e aperto ad iniziative culturali, politiche e ludiche. Ad una vicenda tanto remota quanto complessa ha corrisposto una realtà altrettanto difficile, articolata ed oscura. Nel manicomio di Collegno successero tante cose, moltissime persone vagarono per quei lunghi corridoi spaventosamente alienanti, ciascuno con le proprie vicissitudini, le proprie manie e con la propria incapacità di chiedere aiuto. Con l’aumento critico dei pazienti, che ogni giorno minacciava la sicurezza dei reparti e la possibilità dell’insorgere di una qualche epidemia, la creazione di una sede decentrata e fuori città era diventata una necessità. La Certosa di Collegno si presentò come la scelta migliore, una struttura enorme, protetta e isolata, distante solo dieci chilometri da Torino, ideale per risolvere sia il problema degli spostamenti che quello dell’isolamento, inoltre, essendo una struttura di campagna, presentava costi decisamente minori rispetto ad una sede cittadina. Era stato sottolineato che anche dal punto di vista architettonico e paesaggistico la Certosa possedeva le caratteristiche perfette per ospitare i malati, i quali si sarebbero sentiti meglio già solo passeggiando tra gli ombrosi alberi dell’immenso cortile. L’antica struttura dedicata alla preghiera era perfetta sotto ogni punto di vista per diventare il più grande manicomio d’Italia. L’attività dell’ospedale psichiatrico si avvia formalmente l’8 settembre 1852, con lo spostamento  di ottanta malati di mente dal manicomio di via Giulio a quello di Collegno, e avrà fine solo il 4 giugno 1998. La vita all’interno del manicomio era una lunga, disarmante e monotona attesa di qualcosa, c’era chi aspettava di guarire, chi di morire, chi attendeva una lettera di risposta e chi una visita, c’erano quelli che aspettavano un premio o un compenso e quelli che attendevano il momento giusto per la rivoluzione. I pazienti più tranquilli potevano lavorare seguendo l’insegnamento dell’ergoterapia, si occupavano dell’orto, del bestiame nelle stalle, ma anche dei forni per la produzione del pane e della pasta, c’erano, poi, quelli addetti alla lavanderia e alla manutenzione dei fabbricati, dei mobili, dei caloriferi, della disinfezione e ripulitura dei locali, c’erano muratori e cementisti, decoratori, fabbri ferrai e meccanici, c’era anche chi si occupava dei trasporti e chi gestiva una piccola tipografia e un laboratorio di orologeria, e tra tutti non c’era nessuno che venisse pagato. Fino agli anni venti del Novecento la retribuzione avveniva sotto forma di regalo, i pazienti ricevevano del vino o delle sigarette, del formaggio, della frutta o del caffè.  Ad alcuni venivano dati dei soldi, pochissimi spiccioli, ma c’era chi se li bruciava subito, come Renato, che lavorava in serra ed era efficientissimo, ma appena riceveva la mancia lui la incendiava, i regali mangerecci, invece, li seppelliva, perché temeva che qualcuno lo volesse avvelenare. C’era anche chi si lamentava delle 75 lire al giorno, con le quali, dopo dieci giorni, non si potevano nemmeno comprare le sigarette Alfa, ma erano sussurri e borbottii, perché, per chi alzava la voce, scattavano le botte o l’elettroshock. A Collegno vi erano anche degli artisti, come Francesco Toris, impazzito per il troppo stress derivatogli dall’aver messo incinta una donna più abbiente di lui. Toris divenne molto abile nell’intarsio delle ossa di bovino provenienti dalle cucine, scolpiva volti e piccoli idoli antropomorfi, che poi inseriva perfettamente nelle colossali sculture sostenute dall’audace gioco di incastro dei singoli pezzi. E poi Giuseppe Versino, addetto alle pulizie, che sfilacciava gli stracci e realizzava vestiti, borse e accessori vari, per poi indossarli con fierezza. Mario Bertola era un abile tipografo e creò “Il Mondo in rivista”, un libretto di settantasei tavole, chiamate “allegorie”. Ogni tavola era costituita da otto disegni, eseguiti con china e pastelli a cera e accompagnati da didascalie. C’era ancora Agostino G. Miletti, ricoverato a Collegno con la diagnosi di “demenza paranoide”, si credeva una volta multimilionario, un’altra volta genero del sindaco di Milano, un’altra ancora ricostruttore della Basilica di Superga; disegnava progetti per dar vita a oggetti assai complessi, come un orologio che si caricava ogni 278 anni, o come un ponte di vetro che potesse collegare L’Europa con l’America, e inventò, tra le altre stranezze, due alfabeti, i cui caratteri erano formati da chiodi e bicchieri. Tra i creativi c’era anche chi preferiva recitare, infatti, fino al 1932, fu attiva una Compagnia filodrammatica di ricoverati che si esibiva sul palco del teatrino da trecento posti, ma gli attori vennero silenziati dall’eccessivamente alto volume della radio e della TV, strumenti che entrarono nel manicomio già gridando e senza poter essere mai spenti. Il genio e la creatività non riguardano solo l’arte, ma anche le scienze, come nel caso di Luigi Marinotti. Egli era di povera famiglia, e fu costretto a terminare gli studi in quarta elementare per poi improvvisarsi in ogni genere di lavoro; impazzì quando incontrò l’amore: cercò di trovare i soldi con il rapire una bambina di Genova e chiedendone il riscatto, il suo piano andò in fumo quando accusarono un altro uomo del rapimento e lui andò a protestare in questura, presentandosi come vero colpevole. Da questo momento Luigi iniziò a frequentare carceri e manicomi, e trascorse tutta la vita in un perenne “dentro” e “fuori”, al punto da trovarsi a suo agio più “dentro” che “fuori”. Durante i periodi di detenzione egli si dedicò a scrivere brillanti teorie sulla fisica e sulla matematica, scrisse una lettera a Benedetto Croce, che gli dedicò l’ultima appendice del “Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia” dandogli il titolo di “un indagatore del mistero dell’universo”. Ne scrisse un’altra a Einstein, al quale chiese: “Dica Lei, Einstein, che vuol spiegare il mondo con le matematiche, qual è il primo numero e qual è l’ultimo? Se non lo sa dire, che cosa pretende di spiegare?” (quest’ultima, forse, non venne spedita). Tra tutto questo pensare, c’era anche chi iniziò ad illudersi. Nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1912, nel reparto 21, quello dei “pazzi criminali”, il bandito Rivoltella e il “famigerato martellatore di Nizza”, Demorizzi, capeggiarono una rivolta. Con un inganno, alcuni inservienti vennero catturati e presi come ostaggi e subito si perse il controllo della situazione, intervennero pompieri, carabinieri e giornalisti, il direttore sanitario del manicomio, il Prof. Antonio Marro, salì sul tetto per dialogare con i rivoltosi. Il Prof. Marro rimase in attesa finché uno tra i più assennati tra i ricoverati non espose le ragioni della sommossa: essi volevano minore clausura e più aria e cielo, le condizioni in cui vivevano erano peggiori di quelle delle bestie nelle stalle, dormivano su letti di cemento, abbandonati a loro stessi, chiedevano “perché non venite più spesso a vedere da vicino le nostre miserie?”. Sedata la rivolta, non venne preso nessun provvedimento. La vita all’interno di Collegno era poi tanto diversa da quella del mondo fuori? Chi ha potere si impone sui più bisognosi, chi non sa rispondere a semplici domande alza la voce e le mani, chi si rivolta per un disagio viene ingannato e poi messo a tacere, di questo i matti se ne sono accorti, per ciò li abbiamo rinchiusi là dentro.
Alessia Cagnotto
 

Ute Lemper a Torino per il Giorno della Memoria

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Canzoni dai ghetti e dai campi di concentramento
Canzoni sul razzismo e canzoni in cerca di pace

“Come tedesca, nata dopo la Guerra, sposata ad un uomo ebreo, a New York da 20 anni, sono da sempre legata alla storia, terribile, dell’Olocausto. E’ mia responsabilità e dovere etico onorare la cultura del popolo ebreo e stimolare il dialogo su questo orribile passato.”: così la grande cantante ed artista tedesca Ute Lemper spiega le motivazioni che sono alla base di “Songs for Eternity”, spettacolo costruito sulle canzoni scritte nei ghetti e nei campi di concentramento da musicisti ebrei deportati, molti dei quali morirono nelle camere a gas. Il 31 gennaio e il 1 febbraio Ute Lemper porterà “Songs for Eternity” a Torino e a Cuneo, nell’ambito delle iniziative del Giorno della Memoria 2019.

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Il comunicato del Consiglio regionale:

http://www.cr.piemonte.it/web/comunicati-stampa/comunicati-stampa-2019/471-gennaio-2019/8560-songs-for-eternity-ute-lemper-a-torino-a-cuneo

Un potere al femminile ovvero quando la grandeur giunse sulle rive del Po

In un periodo in cui gli schermi di cinema e televisione vanno riscoprendo il fascino delle sovrane di tempi più o meno recenti, con un gran bel bagaglio di intrighi, bellezze, storie e pettegolezzi – ancora una volta la lotta tra Elisabetta I e la cugina Maria Stuarda (Margot Robbie e Saoirse Ronan si fronteggiano da domani), Olivia Colman, già forte di una Coppa Volpi e di un Golden Globe, tra una settimana agiterà come Anna d’Inghilterra i sonni (e le lenzuola) della sua Favorita e poi passerà a indossare gli abiti di Elisabetta II nella serie The Crown su Netflix, in Spagna furoreggia Isabel sulla regina di Castiglia e Helen Mirren si trasforma nella Grande Caterina di Russia, da noi come regina Anna di Dumas Margherita Buy ha nuovamente bisogno dei Moschettieri per salvare la Francia dalle mire di Mazarino -, è giusto che Torino riscopra le sue Madame Reali, ovvero Cristina (o meglio Chrestienne) di Francia e Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, che nello spazio di poco più di un secolo portarono “cultura e potere da Parigi a Torino”, come recita il sottotitolo della mostra allestita sino al 6 maggio nella sala del Senato a Palazzo Madama e curata dalle conservatrici del museo Clelia Arnaldi di Balme e Maria Paolo Ruffino. Un potere che vide la figura femminile in prima linea, nella difesa del proprio ruolo e nella volontà di rafforzare uno stato che potesse competere con capitali quali Parigi, Vienna o Madrid, politicamente e culturalmente. A testimonianza dell’opera delle due sovrane, sono esposte nel percorso dei vari ambienti che compongono la mostra oltre 120 opere, tra dipinti (due di essi, di Claude Dauphin e del Buffi, ritratti equestri dalle grandi proporzioni, ce le mostrano all’apice della loro grandezza, in abiti elegantissimi e cappelli piumati, la spada ben stretta in mano, mentre la Vittoria alata le precede al suono della tromba; altre opere in mostra di Anton Van Dyck, Carlo Maratta, Maurizio Sacchetti, Giovanna Garzoni, Francesco Cairo, Jan Miel), oggetti d’arte, arredi, tessuti (tra gli altri, quelli raffinati che la Compagnia delle Indie portava in Europa), gioielli, oreficerie, maioliche bianche e blu, di importazione cinese, che ispireranno la produzione delle manifatture di maioliche locali; e ancora ceramiche, disegni e incisioni, tutti provenienti da prestiti di collezionisti privati e di importanti musei italiani ed esteri, tra gli altri dalle Gallerie degli Uffizi ai Musei di Belle Arti e dei Tessuti di Lione, dal Museo del Castello di Versailles al Castello di Racconigi, dal Museo del Rinascimento di Ecouen al Prado di Madrid.

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Opere piccole o grandi che ripropongono anche la quotidianità della corte, il momento della toeletta e la tavola, il piacere della conversazione tra dame arricchito da cerimoniali e ambienti che ripropongono il gusto francese nei mobili, nei parati in “corame d’Olanda”, nei servizi di porcellana pronti per assaporare thè e cioccolate e caffè: non dimenticando una citazione all’attrazione per l’Oriente che crebbe proprio in quei decenni tra le corti europee, alla moda con il privilegio a quella d’oltralpe (nuovi tessuti e nuovi gioielli, con la ricchezza di diamanti e perle) che va a sostituirsi a quella spagnola che aveva imperato durante i governi di Carlo Emanuele I e di Anna d’Austria. Cristina, terzogenita del re di Francia Enrico IV di Borbone e di Maria de’ Medici (in mostra i due loro ritratti dovuti a Frans Pourbus il Giovane, provenienti da Firenze), nasce a Parigi nel palazzo del Louvre e tredicenne, nel 1619, giunse a Torino da Parigi per andare sposa a Vittorio Amedeo I di Savoia, compiendosi un matrimonio che avrebbe rafforzato l’alleanza tra il Piemonte e la Francia e dato alla corte torinese un prestigio maggiore tra le corti europee. Cristina predilesse le feste, i balletti di corte, cui partecipò con assiduità e che affidò alle coreografie di Filippo d’Aglié (anche lui rappresentato in mostra), suo amante e fedele consigliere nonché cortigiano raffinato; fece ampliare e arredare due residenze extraurbane, il grandioso castello del Valentino (ad opera del Castellamonte) e la Vigna in collina (ad opera di padre Andrea Costaguta, l’attuale villa Abegg), trasformò quella che era la piazza per il mercato del vino nella elegante Place Royale (la piazza San Carlo di oggi). Rimasta vedova nel 1637 (un quadro di Philibert Torret, appartenente alla collezione Intesa San Paolo, che è partner della mostra, la rappresenta in abiti vedovili), assunse la reggenza del figlio Carlo Emanuele II, di non ancora cinque anni e subentrato al trono in seguito alla morte in giovanissima età del fratello Francesco Giacinto. Lo scontro con i cognati, il cardinale Maurizio e Tommaso di Savoia-Carignano, sostenitori della corte spagnola, fu inevitabile, “principisti” e “madamisti” si fronteggiarono dando il via ad una guerra civile che si protrasse sino al 1642, anno in cui il matrimonio della giovane Ludovica con lo zio cardinale (una dispensa papale salvò prontamente la situazione, anche se lo sposo, pur avviato in giovane età alla carriera ecclesiastica, non aveva mai preso gli ordini sacri) pose fine al conflitto. Mantenendo l’indipendenza del ducato, la sovrana passò il comando al figlio soltanto nel 1648, anche se di fatto fu lei a governare sino all’anno della morte, nel 1663. Due anni dopo, sposa di Carlo Emanuele, giungerà Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, pronipote di Enrico IV, dama di corte della regina di Francia e cugina del Re Sole.

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Vedova dopo soli dieci anni, si vide costretta a fronteggiare un lungo periodo di carestia, istituì un Monte di pietà e fondò l’ospedale di San Giovanni Battista. Fu reggente fino al 1684 (approfittando del suo potere, tentò di allontanare il figlio dalla corte grazie ad un matrimonio con la figlia del re del Portogallo: un’unione che avrebbe anche sviluppato una nuova rete di commerci con quel paese e con le sue colonie), anno in cui l’erede Vittorio Amedeo II con quello che può essere definito un vero colpo di stato assunse il potere. Privata del comando, si dedicò all’arte e, completandoli, ai vari ampliamenti della città, alle chiese e alla costruzione di nuove vie e piazze (gli ampliamenti verso est, che hanno il loro fulcro nella cosiddetta piazza Carlina), istituì il ghetto ebraico, chiamò Filippo Juvarra per affidargli la realizzazione dello scalone d’onore di Palazzo Madama e l’abate Guarini per la chiesa della Consolata. Fu accusata quest’ultima soprattutto di organizzare feste a palazzo assai dispendiose (al fine di allontanare il figlio dalle occupazioni politiche, si disse), che intaccarono non poco il tesoro della corte: come certi comportamenti piuttosto liberi contribuirono a metterla in cattiva luce agli occhi dei più. Come chi l’aveva preceduta nel comando, espìa omaggiando il Santuario di Oropa e la sua Madonna nera di ostensori o di preziosi pendenti, in oro smaltato e diamanti, sceglie al termine della vita uno stato di devozione e di povertà, per la sepoltura il dimesso abito delle Carmelitane scalze, una veste di panno marrone, lo scapolare con il soggolo bianco, il velo nero. Il corpo di Cristina viene portato in Santa Cristina, in epoca napoleonica sarà traslato nella chiesa di Santa Teresa. Maria Giovanna Battista è seppellita nel Duomo, ma il suo cuore, protetto in una scatola d’argento, è consegnato alle Carmelitane.

 

Elio Rabbione

 

Nelle immagini, nell’ordine:

Charles Dauphin, “Ritratto equestre di Cristina di Francia in veste di Minerva”, 1663 ca, olio su tela, Castello di Racconigi;

Giovanni Luigi Buffi (?), “Ritratto equestre di Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours”, terzo quarto del XVII secolo, olio su tela, Palazzo Madama – Museo Civico di Arte Antica, Torino;

“Pendente raffigurante la Vergine con Sant’Anna e il Bambino”, dono di Cristina di Francia, prima metà del XVII secolo, oro smaltato e diamanti. Oropa, Tesoro del Santuario. (Ph Paola Rosetta);

Jan Miel (1599 – 1663) e collaboratori (?), “Ritorno di Cristina di Francia con il giovane Carlo Emanuele II a Torino” 1645 post – 1660, olio su tela. Racconigi, Reale Castello.

 

 

 

 

 

 

“Annelies e le voci della memoria”

Al MEF di Torino, letture sulla Shoah fra musica e parole

Il MEF – Museo Ettore Fico di Torino celebra, con una settimana di anticipo, il “Giorno della Memoria”, la ricorrenza internazionale fissata per il 27 gennaio di ogni anno (giorno in cui nel ’45 le truppe dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli di ingresso al campo di sterminio nazista di Auschwitz) e istituita il primo novembre del 2005 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per ricordare l’orrore della Shoah e tutte le vittime dell’Olocausto. L’appuntamento, al torinese Museo di via Cigna 114, è per la prossima domenica 20 gennaio, a partire dalle ore 17, con un reading fra musica e parole, dal titolo “Annelies e le voci della memoria”, incentrato su letture a soggetto Shoah scelte da Ezio Beccaria e interpretate dagli attori del Teatro Instabile delle “Gambe sotto il tavolo”, costituitosi a Torino nel 2000 e aderente all’Ente per il Teatro e lo Spettacolo Amatoriale Italiano. Fra le tante “voci” che inviteranno a far memoria di un passato terribile raccontato per non dimenticare e per lasciare un segno, il più possibile, positivo nel presente, a prendere il volo sarà soprattutto quella di Annelies Marie Frank, per tutti Anna Frank, simbolo fra i più toccanti dell’Olocausto, in virtù del suo celebre “Diario” scritto (su quel quadernino a quadretti bianco e rosso regalatole al compimento dei suoi 13 anni) nella casa-nascondiglio di Amsterdam e della sua tragica morte a soli 16 anni, nel febbraio o nel marzo del 1945, all’interno del campo di sterminio di Bergen-Belsen. Undici gli attori che si avvicenderanno nello spettacolo commemorativo realizzato al MEF: Ezio Beccaria, Paola Callegari, Corrado Dalbesio, Simona De Vizia, Marica Di Tria, Daniela Ferrara, Umberto Ghiron, Dario Giannozzi, Geny Macrì, Luca Pivano e Giovanna Riva. Le immagini sono di Marco Bovio, i suoni di Mina Imperiale e le proiezioni di Silvia Garrone. Alla regia, Luca Piovano. “L’Olocausto – si legge in una nota stampa – reclama il silenzio, perché tutto è già scritto nella carne di chi l’ha vissuto, nella memoria di chi può raccontarlo, nella coscienza di chi ne ha sentito parlare. Ma in un’epoca come la nostra, che consuma rapidamente il ricordo, giunge sempre opportuna, con il ‘Giorno della Memoria’, l’occasione per meditare più a fondo sopra l’orrore di quanto è accaduto, affinché nulla di simile abbia mai nel futuro a ripetersi. Nonostante che tutto già fosse accaduto; nonostante che tutto continui a ripetersi. Ed è proprio per questo che al dovere di ricordare per sempre, vogliamo associare un tributo alle vittime di ogni razzismo, un omaggio a coloro che sono scomparsi travolti nel vortice di un’intolleranza insensata. Perché senza memoria non potremo capire, né trovare mai pace”Per info: MEF-Museo Ettore Fico, via Cigna 114, Torino; tel. 011/853065 o www.museofico.it

g.m.

Nelle  foto:
– Il Teatro Instabile delle “Gambe sotto il tavolo”, immagine tratta dallo spettacolo Canto di Natale” 2018
– Anna Frank

Dialogo Italia – Russia grazie all'associazione "E' ora"

“È ORA”. Potrebbe sembrare un semplice slogan, invece è il nome dell’associazione interculturale italo-russa, nata a Torino per iniziativa della giornalista Katia Veshkina, che da una ventina di anni è residente in Italia e da un decennio proprio a Torino,   città di cui si è innamorata

“La nostra – spiega Katia Veshkina – non voleva essere un’associazione soltanto di cultura russa, ma di scambio e di contaminazione tra persone russe e russofone abitanti a Torino e torinesi curiosi di conoscere la cultura russa, scevri da quei pregiudizi che la associano esclusivamente a stereotipi lontani dalla realtà, quali il freddo gelido o il regime comunista, che fanno ormai parte del retaggio di un passato definitivamente lasciato alle nostre spalle”. L’associazione riunisce persone conosciute a Torino, sia russe sia italiane, che considerano fondamentale la componente umana nell’accostarsi ad una cultura straniera. Una delle prime adesioni all’associazione è giunta dall’insegnante italo-russa Elena Bulgarelli, una donna di talento, docente da parecchi anni presso l’Università Popolare e che ha, al suo attivo, anche la discussione di una tesi sulla metodologia dell’insegnamento della lingua russa come lingua straniera, discussa presso l’Istituto Pushkin di Mosca. Con Elena è nata l’idea di avviare il progetto del corso intitolato “Parliamo Russo”, cui se ne è affiancato un secondo progetto principale, avviato con un’esperta guida turistica russa, che ha dato vita a passeggiate insolite e tour museali. “La nostra associazione – prosegue Katia Veshkina – si è anche fatta promotrice dell’organizzazione di serate di carattere letterario dedicate ad autori russi, di cui vengono lette le opere in lingua originale e poi tradotte   in italiano, per incontrare il favore di un pubblico bilingue”. “È ORA”organizza anche delle vere e   proprie competizioni tra aperitivi russi ed italiani. Ha anche avviato una proficua collaborazione con il Cinema Massimo, per la proiezione di pellicole di registi sovietici, e con la Biblioteca Civica Centrale, che tuttora supporta in modo significativo le nostre iniziative. ll prossimo appuntamento in programma dell’associazione “È ORA” è per martedì 22 gennaio alle 21, al Circolo dei Lettori, con una serata in cui parlerà lo scrittore e traduttore Paolo Nori, che presenterà il suo libro autobiografico dal titolo “La Russia portatile”.

Mara Martellotta

Dialogo Italia – Russia grazie all’associazione “E’ ora”

“È ORA”. Potrebbe sembrare un semplice slogan, invece è il nome dell’associazione interculturale italo-russa, nata a Torino per iniziativa della giornalista Katia Veshkina, che da una ventina di anni è residente in Italia e da un decennio proprio a Torino,   città di cui si è innamorata

“La nostra – spiega Katia Veshkina – non voleva essere un’associazione soltanto di cultura russa, ma di scambio e di contaminazione tra persone russe e russofone abitanti a Torino e torinesi curiosi di conoscere la cultura russa, scevri da quei pregiudizi che la associano esclusivamente a stereotipi lontani dalla realtà, quali il freddo gelido o il regime comunista, che fanno ormai parte del retaggio di un passato definitivamente lasciato alle nostre spalle”. L’associazione riunisce persone conosciute a Torino, sia russe sia italiane, che considerano fondamentale la componente umana nell’accostarsi ad una cultura straniera. Una delle prime adesioni all’associazione è giunta dall’insegnante italo-russa Elena Bulgarelli, una donna di talento, docente da parecchi anni presso l’Università Popolare e che ha, al suo attivo, anche la discussione di una tesi sulla metodologia dell’insegnamento della lingua russa come lingua straniera, discussa presso l’Istituto Pushkin di Mosca. Con Elena è nata l’idea di avviare il progetto del corso intitolato “Parliamo Russo”, cui se ne è affiancato un secondo progetto principale, avviato con un’esperta guida turistica russa, che ha dato vita a passeggiate insolite e tour museali. “La nostra associazione – prosegue Katia Veshkina – si è anche fatta promotrice dell’organizzazione di serate di carattere letterario dedicate ad autori russi, di cui vengono lette le opere in lingua originale e poi tradotte   in italiano, per incontrare il favore di un pubblico bilingue”. “È ORA”organizza anche delle vere e   proprie competizioni tra aperitivi russi ed italiani. Ha anche avviato una proficua collaborazione con il Cinema Massimo, per la proiezione di pellicole di registi sovietici, e con la Biblioteca Civica Centrale, che tuttora supporta in modo significativo le nostre iniziative. ll prossimo appuntamento in programma dell’associazione “È ORA” è per martedì 22 gennaio alle 21, al Circolo dei Lettori, con una serata in cui parlerà lo scrittore e traduttore Paolo Nori, che presenterà il suo libro autobiografico dal titolo “La Russia portatile”.

Mara Martellotta

Scalfaro dalla Costituente al Quirinale. Cinquant’anni di storia italiana

Un presidente pilastro a difesa della nostra Costituzione, dell’unità nazionale e delle prerogative del Parlamento

 

Giovedì 31 gennaio, alle 17.00, alla Biblioteca Civica Negroni di Novara verrà presentato il libro “Scalfaro dalla Costituente al Quirinale. Cinquant’anni di storia italiana”, edito da Interlinea. All’iniziativa, nel settimo anniversario della scomparsa di Oscar Luigi Scalfaro, interverranno Giannino Piana, il curatore del volume Giovanni Cerutti e Paolo Cattaneo, presidente dell’Istituto Storico della Resistenza “Fornara”. Modererà Gianfranco Quaglia. La memoria collettiva su Oscar Luigi Scalfaro è indissolubilmente legata al suo settennato presidenziale, uno dei momenti più intensi e turbolenti della storia dell’Italia repubblicana. È in quella fase di transizione, di emergenza economica, di crisi politica e istituzionale, che la figura del Presidente Scalfaro emerge come pilastro a difesa della nostra Costituzione, dell’unità nazionale e delle prerogative del Parlamento. Ma la storia politica di Scalfaro affonda le sue radici nella storia stessa della Repubblica, in un lungo e prestigioso percorso politico: dalla militanza nell’Azione Cattolica all’Assemblea Costituente, dall’elezione ininterrotta alla Camera dei Deputati per ben undici legislature a importanti incarichi ministeriali. Questo libro rappresenta un primo contributo alla ricostruzione della biografia politica di Oscar Luigi Scalfaro, senza dimenticarne la dimensione sociale, umana, spirituale. L’impegno per la legalità, contro le mafie e la corruzione, la passione civile nella difesa della Resistenza e del movimento di liberazione sono ricostruite da studi e testimonianze che offrono nuova luce su un autentico protagonista della nostra storia repubblicana, la cui etica della politica emerge chiaramente da un suo testo inedito dedicato ad Alcide De Gasperi. “Tutto mi ha conquistato, tutto è richiamo alla responsabilità” scrive Scalfaro del grande statista democristiano: un richiamo alla responsabilità che non smette di essere attuale.

M.Tr.

Ho giurato di non stare mai in silenzio

“Brava bambina fai la conta

Più punti a chi non si vergogna

Giochiamo a mosca cieca

Che zio ti porta in montagna”

Nessuno, di fronte alle donne, è più arrogante, aggressivo e sdegnoso dell’uomo malsicuro della propria virilità. Siamo nel mondo di Carmen Consoli … soprannominata la cantantessa, irrequieta sin da ragazza e che in un’intervista dichiara, a proposito del proprio orientamento politico, di essere di sinistra e di avere votato per il Partito Democratico alle elezioni del 2018, pur confessando le delusioni ricevute dallo stesso partito. «Noi artisti non dovremmo occuparci di politica, ma la politica è qualcosa che dovrebbe interessare tutti in una demos-crazia. Sono orientata a sinistra, ma sono delusa dal PD, che ho votato turandomi il naso sperando che possa esserci in futuro un partito che sia più vicino alle persone e ai lavoratori. Ma io sono una meridionale attiva, faccio parte di chi rischia, non di chi aspetta. Sono una che confida negli uomini e nella ragionevolezza.» Si dichiara Buddhista praticante all’interno dell’ente religioso laico Buddhista Soka Gakkai. Narra Carmen, nel brano “mio zio” di un abuso consumato nell’ambito familiare e taciuto da una madre timorata…o complice chi lo sa? Troppo spesso si permette accadano certe cose senza considerare che quando si violentano, picchiano, storpiano, mutilano, bruciano, seppelliscono, terrorizzano le donne, si distrugge l’energia essenziale della vita su questo pianeta. Si forza quanto è nato per essere aperto, fiducioso, caloroso, creativo e vivo a essere piegato, sterile e domato. E quando questo accade tra le mura domestiche allora, è ancora peggiore in quanto a gravità e spregiudicatezza. Imperdonabile direi. Da qui nascono disagi, e, nella migliore delle ipotesi, brani musicali che fanno da condotto ad una rabbia che, probabilmente, non si riesce a sfogare diversamente…e forse meglio cosi. Ho voluto dar buona nota a questo brano per esortare, ancora oggi, nel 2019, coloro che pensano, tacendo, di non essere complici di azioni crudeli ed ignobili.  Vorrei lo ascoltaste, è un brano particolare e, secondo me, degno di nota. Non saprei, oggi, cosa aggiungere se non lasciarvi con una frase di Èlie Wiesel: ”Ho giurato di non stare mai in silenzio, in qualunque luogo e in qualunque situazione in cui degli esseri umani siano costretti a subire sofferenze e umiliazioni. Dobbiamo sempre schierarci. La neutralità favorisce l’oppressore, mai la vittima. Il silenzio aiuta il carnefice, mai il torturato.” Pensiamo sempre a ciò che facciamo…sempre…potrebbe essere un buon modo per cominciare a rendere il mondo migliore. Buon ascolto

Chiara De Carlo

https://www.youtube.com/watch?v=qPrdwyGc7Ig

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Chiara vi segnala i prossimi eventi …mancare sarebbe un sacrilegio!