CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 572

Quando Carlo donò a Carol un “drago da passeggio”

FINO AL 3 GIUGNO

E’una piccola ma raffinata e garbata retrospettiva a due la mostra allestita alla Galleria Sabauda (Musei Reali di Torino) per celebrare i cento anni della nascita di Carol Rama, che sotto la Mole nacque il 17 aprile del 1918 e fu personaggio di punta, nella sua geniale e anarcoide trasgressività, della vita culturale e artistica subalpina– ma non solo – fino alla sua scomparsa avvenuta tre anni fa, nel 2015. Intelligentemente curata da Maria Cristina Mundici, la rassegna prende avvio dalla recente acquisizione, da parte del Ministero dei Beni Culturali e a favore della Galleria di Piazzetta Reale, di un quadro appartenente al periodo di infatuazione per l’astratto che probabilmente segnò il momento meno tribolato e tribolante della pittrice torinese insieme a un bizzarro e improbabile “Drago da passeggio”, uno fra i tanti e insoliti “animali da compagnia” (oggetti cartacei acquistati – si racconta – ai Grandi Magazzini e abilmente decorati con tecniche varie) che il grande Carlo Mollino, architetto, designer fotografo e tante altre “cose” (Torino 1905 – 1973), era solito regalare agli amici più cari per fargli scoprire “il valore del tempo libero”. “Il drago da passeggio, originario dell’India, è il noto drago del Panjab – scriveva ironicamente Mollino nel libretto di istruzioni- di piccola taglia, di singolare intelligenza e vago aspetto. Il mantello, sempre di prestigiosa decorazione, si adatta all’istante con il paesaggio interiore di ciascun proprietario”. E, fra i fortunati a riceverne in dono un esemplare (quello acquistato, per l’appunto, dal MiBACT e presente in mostra) ci fu anche Carol Rama, unita a Mollino da una solida amicizia e dalla non comune eccentricità di un carattere che portò entrambi a seguire percorsi di vita e artistici assolutamente non convenzionali e difficilmente rapportabili ai dettami etici e stilistici dell’epoca. Al “Drago” di Carol, Carlo diede il titolo di “Drago da passeggio n. 70. Notte in laguna”; glielo regalò la notte di Capodanno del ’64 e Carol lo conservò nella sua casa-studio in via Napione a Torino, accanto a una gigantrofia in cui la pittrice compare insieme a Edoardo Sanguineti, altro grande intellettuale amico. Bizzarro cadeau che alla “Sabauda” si confronta con “Pittura 718”, un olio astratto di grande equilibrio geometrico e assonanza di toni cromatici, realizzato da Carol Rama nel 1954, quando la pittrice ebbe a far parte, ma solo per un breve periodo, del MAC – Movimento di Arte Concreta, fondato nel 1948 a Milano da Gillo Dorfles e che a Torino trovò adepti notevoli anche in Albino Galvano, Adriano Parisot e Filippo Scroppo, solo per citarne alcuni. Allo stesso periodo – periodo in cui, a detta di Albino Galvano, “la forma in Carol Rama sfugge al formalismo pur nell’ascesa del ‘lavorar formando’ anziché ‘figurando’” – appartengono altre quattro opere astratte datate primi anni ’50, cui si affiancano due lavori della serie “Senza titolo (Seduzioni)” del 1983, in cui l’artista ritorna ad un immaginario “figurativo”, popolato di misteriose seducenti figure femminili poste a convivere con non meno misteriche e invasive presenze animali. Vent’anni dopo, Carol riceverà il “Leone d’Oro” alla carriera alla Biennale di Venezia del 2003. Una lunga affascinante carriera, di cui troviamo traccia nelle magnifiche fotografie (anch’esse in mostra) scattate da Bepi Ghiotti fra il 2012 e il 2014 nella casa-studio di via Napione, quell’“opera d’arte totale dalle pareti nere”, che presto dovrebbe diventare Museo (c’è già il vincolo della Soprintendenza) e dove Carol si spense a 97 anni d’età.

Gianni Milani

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“Confronti / 4 Carol Rama e Carlo Mollino”

Musei Reali Torino – Galleria Sabauda, Piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5211106 www.museireali.beniculturali.it

Fino al 3 giugno – Orari: dal mart. alla dom. 9-19,30

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Le immagini:

– Carol Rama: “Pittura 718”, olio su tela, 1954
– Carlo Mollino: “Drago da passeggio n. 70. Notte in laguna”, carta pieghettata e dipinta, vetro e metallo, 1964
– Bepi Ghiotti: “Ritratto di Carol Rama”, 2, 2013

 

“A come Archeologia” all’ Egizio

Martedì 13 marzo 2018, alle ore 18.00, presso la Sala Conferenze del Museo Egizio – via Accademia delle Scienze 6 – l’autore del libro “A come Archeologia”, il Professor Andrea Augenti, dialoga con il Direttore Christian Greco per accompagnare il pubblico in un viaggio nel tempo e nello spazio, dalla Preistoria al Medioevo, passando per l’Europa, l’Asia e l’Africa: un viaggio nel cuore dell’archeologia, attraverso le dieci più importanti scoperte compiute fino a oggi. Quali sono le più importanti scoperte dell’archeologia? Chi non conosce il faraone Tutankhamon o la città di Troia, cantata da Omero? A queste domande tenta di rispondere l’opera di Andrea Augenti, professore di Archeologia medievale all’Università di Bologna, che nel corso degli anni ha condotto numerose campagne di scavo e ricerche archeologiche e ha pubblicato, tra i moltissimi altri, “Città e porti dall’antichità al Medioevo” e “Archeologia dell’Italia Medievale”.

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INGRESSO LIBERO FINO A ESAURIMENTO POSTI

Per informazioni: tel. 0115617776 – info@museoegizio.it

 

(foto: il Torinese)

Orfeo, da mito a favola in musica

In scena al teatro Regio l’opera di Claudio Monteverdi 

 

 

L’Orfeo, celebre opera di Claudio Monteverdi, andrà in scena da martedì 13 marzo prossimo al teatro Regio di Torino, nell’ambito del Progetto dell’Opera Barocca. Sul podio dell’Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino Antonio Florio affronta la ricca partitura del compositore italiano, il nuovo allestimento è firmato nella regia da Alessio Pizzech. Tra gli interpreti il soprano Francesca Boncompagni nel ruolo di Euridice ed il soprano Roberta Invernizzi in quello della Musica e Proserpina, contraddistinta da un timbro dolce, scolpito da una dizione impeccabile ed arricchito da una presenza scenica di primo ordine. Il ruolo di Orfeo è interpretato dal baritono Mauro Borgioni, artista di riferimento per il repertorio barocco. Il mezzosoprano Monica Bacelli interpreta il Messaggero e La Speranza. L’Orfeo, origine del teatro lirico universale, fu rappresentato per la prima volta nel 1607, nel Palazzo Ducale di Mantova, ed è oggi venerato e riconosciuto come il primo esempio di opera in musica.

 

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Rappresenta, infatti, il primo tentativo di applicare tutte le risorse della musica all’ opera, senza alcuna limitazione, dal recitativo all’aria, dal madrigale al balletto, dal concerto strumentale al coro integrato nel dramma. Un lavoro destinato ad un piccolo ambiente, quale era la sala di corte, e che pertanto non aveva bisogno di grandi mezzi, scenografie sfarzose o simili. L’Orfeo esce dall’ambito sperimentale dello stile fiorentino e Monteverdi realizza una fusione tra lo stile madrigalistico del tardo Cinquecento, con la ricchezza scenica dei mezzi intermedi, ed una nuova concezione delle possibilità del canto monodico. L’opera deve la sua nascita ad un’iniziativa del principe ereditario Francesco Gonzaga, che voleva emulare, in campo teatrale e musicale, ciò che i Medici stavano realizzando a Firenze, affidando il progetto all’Accademia degli Invaghiti, della quale faceva parte anche il conte Alessandro Striggio, che stese il testo poetico. Nel testo del libretto stampato per la prima rappresentazione, il finale risulta diverso da quello che oggi conosciamo: i lamenti di Orfeo vengono interrotti dall’irruzione delle Baccanti, che intonano un coro dionisiaco e puniscono il protagonista con la morte, a causa delle sue affermazioni misogine. Gesualdo Bufalino ne “Il ritorno di Euridice” afferma senza mezzi termini che “Orfeo s’era voltato apposta”. L’eroe munito di cetra, che con il suo canto era riuscito a piegare anche l’Averno, si boicotta all’ultimo, si volta e tutta la sua fatica svanisce in un attimo. Forse quel voltarsi indietro nascondeva, in realtà, un altro progetto. Con la scelta di questo tema Claudio Monteverdi dimostra una grande modernità, pur richiamandosi ai miti antichi. Dallo sperimentalismo di quelle corti rinascimentali ancora oggi si avrebbe tanto da imparare.

 

Mara Martellotta

I vincitori del Glocal Film festival

Si è conclusa domenica 11 marzo la 17ª edizione del gLocal Film Festival di Torino, dopo 5 giorni di rassegna che hanno portato in sala 88 film. La serata di PREMIAZIONE vede svelati i film vincitori tra i 20 cortometraggi e i 10 documentari in concorso, partecipanti alle sezioni competitive SPAZIO PIEMONTE ePANORAMICA DOC. Le sezioni, cardine del festival, sono riservate ad opere di autori piemontesi o che hanno scelto il Piemonte per le riprese o realizzate da case di produzione locali.

 

La giuria di PANORAMICA DOC guidata da Emanuela Piovano (regista) con Emanuele Baldino (FIP Film Investimenti Piemonte), Sara Benedetti (Scuola Holden), Ettore Scarpa (attore) e Fabrizio Vespa(giornalista) assegna il

Premio Torèt Alberto Signetto – Miglior Documentario (2.500 €)

La poltrona del padre di Alex Tibaldi e Alex Lora (produzione GraffitiDoc)

Un film coraggioso, che affronta un tema disturbante, conducendolo con essenzialità e maestria nella costruzione registica e nella delineazione dei protagonisti. L’opera, dalla multiforme essenza della realtà, fa emergere una struttura narrativa classica regalandoci una vera lezione di cinema. Nel ritrarre una realtà apparentemente circoscritta, il film richiama temi di carattere universale: la fragilità umana, il conflitto corpo-spirito, il problema della perdita. Un documentario che abbatte le latitudini. Un cammino difficoltoso verso la rinascita, dagli esiti inaspettati e lirici.

Premio Professione Documentario (del valore di 500 €) assegnato da 170 studenti degli istituti ISS Baldessano-Roccati, Liceo Artistico Renato Cottini, ISS Bodoni-Paravia, Piazza dei Mestieri e Scuola O.D.S. Operatori Doppiaggio e Spettacolo

Più libero di prima di Adriano Sforzi

Un film coinvolgente che mostra quanto sia sottile il filo che divide il desiderio di divertimento dal dolore per una tragedia. Il regista è in grado di trasportare lo spettatore direttamente nel salotto in cui la famiglia di Tomaso aspetta ansiosamente il responso, creando un sentimento di trepidante e speranzosa attesa. Immagini e disegni ci aiutano a capire quanto possa essere importante la positività in situazioni apparentemente inaffrontabili.

 

La giuria di SPAZIO PIEMONTE composta da Flavio Bucci, presidente di giuria e i membri Carla Signoris (attrice), Francesco Ghiaccio (regista), Mirna Muscas (Skepto Film Festival) e Stefano Di Polito (regista) assegna i seguenti premi

Premio Torèt – Miglior Cortometraggio (1.500 €)

Framed di Marco Jemolo (produzione Grey Ladder, distribuzione Lights On)

Per la regia, l’impianto, la messa in scena, la ricerca dell’immagine, il ritmo che creano identificazione e rendono reale il protagonista. Siamo tutti uomini di pongo.

Premio O.D.S. – Miglior Attore (buono di 600 € per i percorsi di formazione o seminari di O.D.S.)

Gianluca Bottoni per Tale figlio di Giacomo Sebastiani.

Per aver dato emozione a un personaggio succube di una vita spoglia e monotona, vittima del proprio destino.

Premio O.D.S. – Miglior Attrice (buono di 600 € per i percorsi di formazione o seminari di O.D.S.)

Alice Piano per Musicomantia di Mauro Loverre

Per la consapevolezza con la quale si è calata in un’interpretazione intesa, cambiando registro in ogni snodo narrativo.

Premio Miglior Corto d’Animazione (buono di 200 € in libri presso la libreria Pantaleon di Torino)Dandelion di Elisa Talentino

Per la leggerezza del tratto che esalta la profondità dell’amore dei due protagonisti…si cercano, si allontanano, si uniscono e si dissolvono per poi ritornare. Speriamo.

Le giurie partner del gLocal Film Festival assegnano i seguenti premi

 

Premio Cinemaitaliano.info – Miglior Corto Documentario (pubblicazione del corto sul portale Cinemaitaliano.info) assegnato da Cinemaitaliano.info

Makhno di Sandro Bozzo

Per il coraggio mostrato nell’usare la sperimentazione per raccontare una terra e una realtà unica e dimenticata, mantenendo però una forte valenza documentaria e narrativa.

 

Premio Scuola Holden – Miglior sceneggiatura (partecipazione a uno dei corsi Palestra Holden) assegnato dagli allievi del primo anno di College Cinema della Scuola Holden

Framed di Marco Jemolo

Per la brillantezza e l’ingegnosità con cui la coscienza del burattino è indagata e interpretata, in una ricca rete di riferimenti kafkiani e orwelliani.

 

Premio Machiavelli Music – Miglior Colonna Sonora (pubblicazione della colonna sonora su iTunes e sui principali digital stores sul web) assegnato da Machiavelli Music Publishing

Julia Kent per la colonna sonora originale del film Dandelion, regia di Elisa Talentino

Musica ed animazione in Dandelion interagiscono tra loro rincorrendosi come in un gioco, in un crescendo onirico, in una danza visionaria che ci racconta dell’incontro tra due Amanti. Le note della Bourrée di Julia Kent sono emozioni che diventano immagini; accompagnano e ritmano poeticamente la danza di Seduzione dei Due che, trascinati dalla musica, arrivano ad incarnare l’archetipo dell’Uomo e della Donna nel loro trepidante incontro.

Frank Horvat. Storia di un fotografo

FINO AL 20 MAGGIO

Mostra di quelle rare. Che quando hai terminato di visitarle ti sembra di aver capito tutto, ma proprio tutto, “vita opere e miracoli”, dell’ artista che l’ha firmata.Grandiosa per qualità, importanza storica e ricchezza di significati e contenuti, l’antologica di Frank Horvat ospitata nelle “Sale Chiablese” dei Musei Reali di Torino è anche la prima, per portata di pezzi esposti – ben 210 – che mai sia stata dedicata in Italia all’artista nato nel 1928 a Opatjia (Abbazia, allora città italiana, oggi Croazia) e che, a pieno titolo, può collocarsi fra i massimi rappresentanti della grande storia della fotografia internazionale dagli anni ’50 a oggi. Curata dallo stesso Horvat, la rassegna testimonia appieno l’enorme ricchezza e la varietà di un percorso artistico segnato, da quasi settant’anni, dalla curiosità per mondi ed esperienze totalmente diverse fra loro. Da fotoreporter attento al puntuale racconto di realtà sconosciute e lontane dalla nostra, a fotografo di moda fra i più gettonati e assolutamente sui generis in quel singolare immergere le sue modelle nei fatti quotidiani, rubandole ad asettici studi e a rutilanti passerelle per farne figure comuni nel via vai di gente comune fra piazze strade e civiche metropolitane, Horvat (che da tempo vive in Francia) ha sempre guardato con grande interesse e ansia di confronto e conoscenza anche agli stimoli della pittura e della scultura, fotografando uomini e donne e animali e paesaggi carichi di “interiori esplorazioni”e colte assonanze estetiche , non meno che – sotto l’aspetto tecnico – alla sperimentazione di quei “nuovi” mezzi e virtuosismi digitali (è stato fra i primi a usare Photoshop e qualche anno fa ha studiato un’applicazione per iPad chiamata Horvatland) che ancor oggi danno al suo linguaggio i caratteri di un’attualità decisamente al passo coi tempi. Il suo è un geniale pungente ragionare da caparbio giovanotto novantenne (lo sarà in aprile) che di mestiere fa da sempre il fotografo e da sempre cerca di imbrigliare a suo uso e consumo quello strumento fotografico in cui “c’è davvero –scrive convinto – qualcosa di faustiano o mefistofelico, soprattutto nell’illusione di arrestare il movimento continuo che ci trascina”. E poi precisa: “Ho un’età in cui si guarda al proprio passato per cercarne un senso”. In totale serenità e con le idee ben chiare. “Più che i soggetti in se’ – puntualizza – mi interessano le relazioni fra le cose. Così, se dovessi fotografare le piramidi, aspetterei il passaggio di un cammello, di un turista, di una jeep o qualcos’altro. Immortalare le piramidi in se’ e per se’ non mi importa nulla”. Del resto “la fotografia è – per lui – l’arte di non premere il bottone”. Almeno fino a quando non si è di fronte alla possibilità (che ti cade addosso inaspettatamente come un fulmine) di compiere in un battito di secondi il “miracolo”, di fermare con uno scatto “un fatto unico, accaduto una volta sola e che non accadrà mai più”. E’ il caso delle trentuno foto della ricchissima collezione personale di Horvat, realizzate da grandi maestri e amici-colleghi che egli stesso ha voluto portare in mostra e che rappresentano in modo iconico la Storia della fotografia come il celebre scatto di Jeff Widener che, nel 1989 a Pechino, ritrae il giovane studente di fronte ai carri armati di piazza Tienanmen. Accanto, altre a firma di Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Mario Giacomelli, Helmut Newton e Sebastiao Salgado, solo per fare qualche nome. Maestri autentici che a tratti hanno anche segnato la carriera di Horvat e determinato in certo modo quella sua “versatilità” che non sempre è stato un vantaggio per lui: “Alcuni hanno messo in dubbio – sottolinea – la sincerità del mio impegno, altri hanno trovato che le mie foto erano poco ‘riconoscibili’, come se fossero state fatte da autori diversi. Questo mi ha spinto a ripercorrere la mia opera per cercarvi un denominatore comune. Ne ho trovati quindici e li ho chiamati ‘chiavi’. E quindici sono appunto le sezioni-chiave in cui si articola la mostra torinese. Si va (fra le più suggestive) da Luce – con scatti in debito di magica suggestione da Cartier-Bresson, non meno che da Caravaggio e Rembrandt – a Condizione umana (al centro le “persone che soffrono” anche se “non mi piace l’idea che la mia arte si nutra del suo dolore”), da Tempo sospeso a Voyeur. Via via in un sorprendente eclettico percorso artistico, che in Vere somiglianze ci presenta grandi e bellissimi ritratti femminili di corposa e “plastica” sensualità, fino alle Foto fesse e agli Autoritratti (ma “trovarsi di fronte a se’ stessi, quando non si è Montaigne, può diventare noioso”). E, all’uscita, c’è perfino uno spazio per farsi un selfie a ricordo della mostra. Il massimo per un grande giovanotto di appena novant’anni. Ancora da compiere.

Gianni Milani

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“Frank Horvat. Storia di un fotografo”

Musei Reali Torino – Sale Chiablese, Piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5211106 www.museireali.beniculturali.it

Fino al 20 maggio – Orari: lun. 14-19; dal mart. alla dom. 10-19

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Nelle foto:
– “Monique Dutto all’uscita della metro”, Parigi, 1959
– “Scarpe e Tour Eiffel”, Parigi, 1974

 

Quando la paura arriva a teatro

Partirà a marzo da Torino la tournée di “La Bambola Maledetta”, spettacolo inedito che segna l’arrivo della paura come ingrediente fondamentale, preso in prestito dal mondo cinematografico per creare suspense e coinvolgimento all’ennesima potenza fra le comode poltrone del teatro. Un esperimento che il giovane cast di “Chi è di scena”, associazione con quartier generale a Bosconero (To), fra le campagne del Canavese, ha già testato negli scorsi anni con “La Dama in Nero” e che viene prepotentemente riproposta in questo 2018 con un nuovo spettacolo non privo di agganci con la magica Torino e con il territorio piemontese. Annunciata dallo slogan “#sfidalapaura”, la trama di “La Bambola Maledetta” esordisce con due domande: “Da dove arriva quella bambola? E quale viaggio l’avrà portata nella notte dei tempi proprio nel piccolo borgo di Coatbridge?” Interrogativi che aprono la strada ad un enigma tutto da risolvere da parte del pubblico in sala che vivrà sulla propria pelle il confine assai labile fra la bambola come strumento di gioco e come trappola della dimensione introspettiva e psicologica dell’infanzia personale di ognuno di noi. E da un Piemonte misterioso che fa da grande culla a storie inedite, la scena “vola” oltre Manica, per atterrare nell’atmosfera lugubre di un villaggio scozzese dove, negli anni Quaranta il ritorno del protagonista, il restauratore Eric, alla vecchia casa di famiglia e dell’infanzia, non è che l’inizio di un crescendo di coinvolgimento per il pubblico in sala. Gli spettatori avranno a teatro un benvenuto fatto di effetti speciali tipici del mondo cinematografico e rivolti al gradimento di una platea di ogni età. Eric inizia a compiere un cambiamento sempre più inspiegabile dinanzi la moglie Isabel e la figlia Eveline.

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E gli strani fatti, con sempre maggior intensità e incredulità, si manifesteranno nella casa preoccupando via via anche James, medico e amico di Eric, Norah, maestra di Eveline, e Paul, il sarto del villaggio. Il tutto sotto gli occhi costanti di quella bambola e di suoni e voci che generano un’inquietudine insostenibile. Un passato angosciante si impadronisce nuovamente della casa, forse per chiudere i conti ancora in sospeso. In attesa del debutto le aspettative crescono, alimentate da tanti fattori peculiari fra i quali il mix di talento creativo del giovane ed eclettico cast di “Chi è di scena” che vede i componenti operare nella scrittura teatrale, nella danza, nei costumi. Uno spettacolo di sola paura? Non esattamente: la paura va a braccetto con quell’inafferrabile sfera psicologica che caratterizza l’essere umano e che da allo spettacolo un valore riflessivo e quasi di indagine degli stati più reconditi della mente umana. Al comando della regia e nei panni di attore Gioacchino Inzirillo, artista multiforme con esperienze in recitazione e musical anche televisive (Rai5 e La7, fra le altre), supportato da un interprete di fama quale Michele Renzullo, cofondatore della Compagnia della Rancia e volto noto sulle scene teatrali nazionali, e dagli attori Francesca Melis, Chiara Gusmini, Gabriele de Mattheis , Mariasole Fornarelli e Noemi Garbo, molti dei quali già impegnati in “La Dama in nero”. I costumi (studio di Gabriele de Mattheis) sono messi a punto dall’Old House Company, le scenografie sono a cura del gruppo di professionisti chiamato “COB” ovvero lo street artist Matteo Capobianco, il scenotecnico Alessio Onida e il designer Cosimo Bertone mentre le luci, i sorprendenti effetti live e l’audio sono curati da Roberto Chiartano. Infine vi sono musiche inedite, composte da Nicola Barbera che ha studiato effetti sonori davvero “da brivido” per far vivere al pubblico le forti emozioni dello spettacolo. A precedere l’atto unico, nato per impedire di perdere anche solo un minimo secondo di puro coinvolgimento, è in fase di studio un “pre-show” per fare entrare gli spettatori nel “mood” di “La Bambola Maledetta”, facendo conoscere la storia realmente avvenuta fra Torino e il Monferrato, che fa da premessa allo spettacolo. Prima assoluta a Torino, al Teatro Cardinal Massaia di via Sospello dove la paura potrà essere sfidata dal pubblico del debutto nazionale previsto nelle serate di venerdì 16 e sabato 17 marzo 2018.

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Prenotazioni al link: http://www.bigliettoveloce.it/new_spettacolo.aspx?id_show=5024

Il Capitano di Lavia vittima dei perfidi raggiri della moglie

Duro, vecchio, solidissimo teatro. Fuori del nostro tempo, un’immagine eternamente ferma e bloccata, se non fosse per l’eterna lotta tra i sessi che ancora oggi crudelmente troppe volte sfocia in fatti di sangue. Quindi la immutabilità fotografata da Gabriele Lavia nel mettere in scena – per la terza volta lungo la sua carriera – Il padre di August Strindberg, fino a domenica sul palcoscenico del Carignano per la stagione dello Stabile torinese. Un testo (del 1887) che autobiograficamente gronda misoginia (e assistere alla replica della serata dell’8 marzo qualche problema l’ha comportato), la vivisezione di un rapporto coniugale che deflagra allorché il Capitano pretende in una discussione d’imporsi alla moglie Laura circa l’educazione della figlioletta Berta, che lui vorrebbe spedire in città a farsi le ossa per diventare una brava insegnante. “Un capolavoro di dura psicologia”, lo definiva Nietzsche, e la rabbiosa introspezione calata nei caratteri, l’arretrare continuo e lento dell’uomo, il gioco perfido della donna che manipola anche i più piccoli indizi e s’accaparra tutti gli occupanti della casa, la vecchia balia e il pastore suo cognato, il medico arrivato da poco e messo lì immediatamente a giudicare una situazione e a schierarsi, gli stessi giovani militari della guarnigione, anche la ragazzina che al contrario ad ogni incontro stravede per la figura paterna, ogni momento della tragedia è uno studio perfetto e carico a suo modo di una dolente umanità. Il gioco e la forza della donna hanno il sopravvento quando fa entrare nell’animo e nel cervello dell’uomo il tarlo e il dubbio di una paternità che potrebbe far guardare Berta con occhi diversi. Strindberg tende con ogni sua forza verso il Capitano, spalleggia una parabola inevitabilmente dolorosa, svela a poco a poco le ragioni del suo rifugiarsi negli studi – quelli che la donna ha cercato in ogni modo di ostacolare, nascondendogli quelle lettere che erano per lui i rapporti e gli sviluppi con i vari editori -, come la logicità nel contrastare le opposizioni che come una banda di ciechi gli presentano quanti gli stanno intorno. Il mondo del Capitano, quello familiare come quello militare (come ha sempre governato questo vorrebbe governare quello), sparisce, anche quello delle stelle, suo ultimo baluardo, viene meno mentre lui cerca di recuperare la propria dignità di uomo e di padre con le stesse parole dello Shylock shakespeariano: e sotto lo sguardo della Vincitrice, la vecchia balia lo aiuterà a indossare la camicia di forza. Stretto in un’epoca in cui la scienza non aveva ancora prodotto i mezzi per una sicurezza paterna, chiuso nella cupezza di un primo atto della lunghezza di un’ora e 55’ e di un secondo, quasi come una liberazione per il protagonista, di 25’, quasi soffocato in uno spazio di enormi tendaggi rossi che calano vertiginosamente sino giù in platea (la scena è firmata da Alessandro Camera, con le poltrone e la scrivania e l’orologio che scandisce le ore tenuti sghembi e incerti, i costumi sono di Andrea Viotti), luogo dell’intimità e del dolore nel finale, una volta spogliato di ogni arredo, Lavia costruisce senza risparmio personale uno spettacolo angoscioso, soffocante e lentissimo, ma grandioso, in cui la fa da padrone, con un ritratto di protagonista, granitico nella voce e negli atteggiamenti prima, un esempio di resa perfetta poi, che s’acclama per la saggezza con cui lo compone, per la disperazione e la drammaticità di quel suo perdersi tra le grinfie della sua personale altra metà del cielo. Di fronte a lui un’incisiva Federica Di Martino e tutti gli altri in ottima resa. Se una stonatura c’era, possiamo averla ritrovata in quell’incessante bamboleggiamento della balia e della figlia soprattutto, che si sarebbe potuto alleggerire o assolvere del tutto.

 

Elio Rabbione

Sintesis di Roberto Demarchi

 

“Sintesis”: non, banalmente, “sintesi”. Non è solo una consonante in più o in meno: è un mondo diverso, un richiamo al passato, alle radici della nostra civiltà, il titolo dell’antologica di Roberto Demarchi attualmente in corso a Torino

“Raccolta”: non, semplicemente, “riassunto”; ed eccole davanti a noi, sapientemente esposte, le 29 tavole, raccolte insieme (“syntithemi”: cioè, in greco, “mettere insieme”, appunto) da precedenti mostre e godibili, eccezionalmente, in un’unica visita. Illuminazione opportunamente studiata e fondo monocromo della parete sono soltanto strumenti, per quanto necessari: le tematiche e il linguaggio pittorico dei cicli “Perì physeos”, “Genesi dell’arte”, “Eschilo”, “Haiku”, “Giardini zen”, “Antologia astratta”, “Paesaggi della memoria”, “La luce nella pietra”, “Acqua”, “Notturni di Chopin” e “Zodiaco” bastano a se stessi.

Descriviamo tre delle tavole, scelte quasi a caso a sostegno del lettore (che, ne siamo convinti, dovrebbe diventare, nei prossimi giorni, visitatore).

La luce nella pietra N. 3

Tre elementi quadrangolari – sufficientemente vicini da suggerire un confronto (simili, non identiche, le proporzioni), non abbastanza da sfiorarsi – sembrano galleggiare nel magma. Il fruitore ha la tentazione di allungare la mano, di sfiorare quella superficie (superficie? No, per nulla: qui le dimensioni sono tre, come i rettangoli), ma l’esperienza lo trattiene: ciò che ha quel colore, in natura, brucia. Come la lava.

Haiku N. 5

Tra dio / e il mendicante sboccia / il fiore di U (Kobayashi Issa). Di questo fulminante haiku Demarchi rispetta la metrica (sì, anche la pittura astratta può rispettare la metrica; o, se l’artista-poeta lo ritiene necessario, eluderla, riscriverla, mescolarla), il tema e l’ordine logico. Eccolo, il fiore di U, rettangolo di sette “on”, candido e venato di rosa, tra un dio e un mendicante che sono, fatto salvo un piccolo particolare (non lo indicherò: andate a scoprirlo di persona), assolutamente identici.

Tolstoj, Resurrezione

Un vecchio dalla barba profetica scrive, medita e ama nella profondità della Russia. Il secolo sta morendo, l’aspettativa di vita dell’uomo non potrà superarlo di molto: ma il titolo che sceglie è “Resurrezione”. Eccola, la campagna russa, che da una manciata di decenni appena non è più calcata dai piedi dei servi della gleba: eccola, tutta rappresentata in quattro rettangoli inscritti in una cornice quadrata, la fertile terra di quello che fu il principato di Moscovia, cosparsa di piccoli e timidi fiori, verde o bruna in seguito all’aratura, sotto un cielo che è, come lei, profondamente russo.

Tutte le tavole di Sintesis

Eumenidi; Haiku N. 16, Haiku N. 5; Giardini Zen; Jan De La Cruz, Iqbal, Cvetaeva; Chopin N. 3, Chopin N. 1, Chopin N. 2; La luce nella pietra N. 1, La luce nella pietra N. 2, La luce nella pietra N. 3; Sagittario, Toro, Gemelli, Cancro; Acqua N. 1, Acqua N. 3, Acqua N. 3; Buzzati, Tolstoj, Mann; Brunelleschi; Perì physeos (1), Perì physeos (2), Perì physeos (Stele), Perì physeos (3); Apollo Musagete.

È possibile visitare “Sintesis”, gratuitamente e su prenotazione, fino al 20 marzo, in corso Rosselli 11 a Torino. Informazioni e contatti: www.robertodemarchi.info.

Andrea Donna

L’omaggio a Flavio Bucci apre il Glocal Film Festival

La ricca fucina cinematografica piemontese che agisce localmente puntando all’orizzonte

Si è aperta ieri sera al Cinema Massimo la 17° edizione del gLocal Film Festival con un omaggio a Flavio Bucci con la proiezione di Ligabue, di Salvatore Nocita, nella versione cinematografica dello sceneggiato televisivo andato in onda su Rai 1 nel 1977, digitalizzato da Rai Teche e dal Museo Nazionale del Cinema. Quarant’anni fa il grande successo di pubblico che ottenne valse all’attore il premio come Miglior attore protagonista al Festival Internazionale del Cinema di Montreal. E Flavio Bucci, torinese di nascita, con la sua comicità un po’ lunare e fuori dal tempo, ieri sera è stato lieto di raccontare al pubblico la sua vocazione per il mestiere di attore che lo folgorò giovanissimo, il legame con i grandi registi, uno fra tutti Elio Petri, l’insolita amicizia nata fra lui ed Alain Delon. Nel corso della serata Flavio Bucci, che è anche presidente di giuria, è stato inoltre insignito del Premio “Riserva Carlo Alberto”.
Quest’anno il festival, organizzato dall’Associazione Piemonte Movie, si alleggerisce nel nome, non si chiama più infatti Piemonte Movie gLocal Film Festival, ma si arricchisce nei contenuti e negli eventi, confermando la sua funzione di vivace salotto di scambio dove fare il punto sulla cinematografia locale con uno sguardo che abbraccia l’orizzonte più vasto. Sono passati dieci anni da quando il festival da Moncalieri è approdato a Torino e il direttore artistico Gabriele Diverio commenta così questa prima importante decade: “Sono passati dieci anni dalla nostra prima edizione torinese e il ricordo ancora chiaro delle prime riunioni e della curiosità con cui mi sono avvicinato mi farebbe dire sia passato meno tempo. D’altro canto, la quantità di iniziative ideate con l’associazione Piemonte Movie e il percorso che ci ha portato a diventare un appuntamento atteso in città, mi fa sentire come incontrovertibili tutti i giorni passati dal 2008 a oggi. Una cosa però è rimasta uguale, la passione che ci muove nella realizzazione di ogni nuova edizione del Festival che siamo certi, anche quest’anno, saprà stupire il pubblico e richiamare registi e professionisti che insieme a noi lo rendono tale”. Sempre presenti le due sezioni competitive che mostrano la creativa fucina cinematografica piemontese, Panoramica Doc con dieci documentari, di cui cinque anteprime (una assoluta e quattro regionali) e Spazio Piemonte, il contest che presenta i venti cortometraggi selezionati durante la rassegna che si tiene a febbraio Too Short to Wait. Domenica 11 marzo la proiezione di Fred, documentario sulla vita di Fred Buscaglione, sarà un altro evento speciale per celebrare un emblema della cinematografia regionale, il documentarista torinese dalla carriera eclettica Pier Maria Formento, meglio conosciuto come Pit Formento. All’interno della sezione ABC gLocal tre gli appuntamenti imperdibili per un confronto vivo con il cinema per film maker, addetti ai lavori e appassionati: sabato 10 marzo la Masterclass per indagare il rapporto tra attore e regista con due giovani protagonisti del cinema, Marco D’amore, attore della serie Gomorra e Francesco Ghiaccio che ha diretto l’attore nel film Un posto sicuro, la cui proiezione attiverà il confronto; una nuova sezione del festival, il lab contest Torino Factory per filmmaker under 30 presieduto da Daniele Gaglianone e sempre nell’ottica di incoraggiare la partecipazione dei più giovani la quarta edizione del premio professione Documentario che ha coinvolto centosettanta studenti di alcuni istituti di Torino e provincia che avranno la possibilità di confrontarsi con registi. Il 9 Focus & Festival gemellati sono invece lo spazio in cui la produzione regionale mostra tutta la sua variegata offerta attraverso i diversi festival che la animano e il confronto con il cinema contemporaneo e internazionale. E poi viene riproposto il grande cinema nella retrospettiva dedicata a Flavio Bucci, Il teatro è il mio pane quotidiano, curata da Alessandro Gaido e Fabrizio Dividi, con La proprietà non è un furto di Elio Petri, Maledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana e L’ultimo treno della notte di Aldo Lado. Pochi film ma che danno un’idea delle viscerali capacità interpretative di un grande attore italiano.Il festival si chiude domenica 11 marzo con un documentario in anteprima regionale Non ne parliamo di questa guerra di Fredo Valla che sarà ospite in sala per parlare di un tema che sembra non esaurirsi col tempo: la giustizia di guerra nel primo conflitto mondiale.

 

                                                           Giuliana Prestipino

 

Per maggiori informazioni consultare il sito http://www.piemontemovie.com/site/festival/

Un’appassionata operazione di crowdfunding per guardare dentro se stessi

Esce nelle sale “La terra buona” di Emanuele Caruso

Con una vasta operazione di crowdfunding – un budget di 195.000 euro e 500 sottoscrittori pronti a divenire coproduttori, quote minime da 50 euro per un totale di 80.000 euro, gli altri importanti aiuti da parte di Egea, della Film Commission Piemonte e della Cassa di Risparmio di Cuneo – il trentatreenne regista Emanuele Caruso è riuscito a varare il suo secondo film, La terra buona, che con il passaparola e con la lenta ma approfondita ricerca del pubblico e delle sale dovrebbe ripetere il successo di E fu sera e fu mattino, caso cinematografico scoppiato tre anni fa. In una settimana di proiezioni in provincia (anche qui il cammino è inverso, prima questa la metropoli poi) i biglietti staccati sono stati 15.000, l’opera precedente in un anno era arrivata a oltre 40.000. Senza assolutamente dimenticare gli altri aiuti non da poco offerti durante la preparazione e la lavorazione del film, da Eatily che ha offerto quantità grandiose di cibo pronte a sfamare la troupe, al Parco Nazionale della Val Grande, ai confini con il territorio svizzero, 152 km quadrati pressoché incontaminati dalla civiltà – dove la storia è stata trasportata dalla primitiva Val Maira cuneese -, che ha messo a disposizione scenari incomparabili e un efficace supporto logistico, agli abitanti dell’ultima frazione raggiungibile in auto, Capraga, dove nulla esiste che si possa definire moderno, che per due mesi, nel luglio e nell’agosto del 2016, hanno aperto le loro case.


Tre storie che confluiscono nel film, la sceneggiatura è firmata dallo stesso regista con la collaborazione di Marco Domenicale, tre storie diverse tra loro, quasi un pretesto. Ma pretesto non sono. In questa natura che non conosce contaminazioni, vive il vecchio padre Sergio, benedettino, che in anni di eremitaggio ha costruito una biblioteca di oltre 60.000 volumi, con lui un oncologo, Mastro, e il suo assistente, sfuggiti dalla città e dalla gente che li ha condannati per il loro desiderio di sperimentare e di conoscere se al di là della medicina ufficiale vi potessero essere altre cure contro i tumori. In questo eremo, arriva un giorno, all’insaputa di tutti, anche della sua stessa famiglia, una ragazza, Gea, in compagnia di un amico forse innamorato di lei, Martino. Gea è malata terminale, forse con la ricerca di un’ultima naturale medicina è alla ricerca di se stessa, di un rapporto col padre, incompreso, infelicemente concluso. Nel racconto e nella regia di Caruso che dimostra di saper scavare con esattezza nei propri personaggi, s’intrecciano i destini, si consolidano i caratteri, si guardano con occhi nuovi l’ambiente e la cura per il cibo, la sua esatta scelta, si afferma quella spiritualità della vita che tutti dovremmo fare più nostra. Si va a zigzag tra le speranze e le delusioni, si incrociano mai a caso certe sensazioni e i discorsi forti della vita e della morte, si tende a qualcosa oltre. Martino forse è il personaggio che meglio finisce col comprendere e attuare la “filosofia” del regista, l’invito a stabilire una pausa su quanto abitualmente ci circonda, è l’occhio dello spettatore, il tramite e il collante delle tre diverse vicende: ma il film non si sbilancia e non vuole dare risposte, ed è uno dei suoi meriti più immediati.


Superate in maniera brillante le difficoltà di girare in condizioni più che svantaggiate, il percorso s’è fatto sicuro. E quel che più salta all’occhio è la passione che circola (“I soldi sono pochi, e chi li ha dei soldi per pagare un fattorino che consegni il film nelle sale? è chiaro che ci vado io a consegnarlo”). Certo, a tratti alcune interpretazioni appaiono troppo urlate, certa gestualità fuori luogo, la musica che nella prima parte invade binari western alla Leone rimane incomprensibile, la scrittura corre forse in maniera troppo lineare: ma dalla semplicità del racconto può in non poche occasioni nascere una costruttiva robustezza. Convince soprattutto la naturalezza dei due ragazzi, Lorenzo Pedrotti, già con Caruso nell’opera prima, e Viola Sartoretto, torinese; e dopo l’ultima immagine si vorrebbe che il cinema si ricordasse di più di Fabrizio Ferracane, il medico in fuga, indimenticata punta d’eccellenza tre anni fa di “Anime nere” di Francesco Munzi.