Da Argentina e Spagna due titoli interessanti, tra minimalismo e crudeltà

Tra gli ultimi appuntamenti del concorso TFF

 

Si fa in fretta a dire minimalista, oggi, sullo schermo. Ma è necessario saperlo usare senza cadere nelle ampie giravolte del nulla. Certi giovani registi, saggiati durante il 37° TFF, credono che riempirne i loro titoli sia fotografare la vita in ogni suo attimo, fare zeppe le giornate delle cose che ci accompagnano dall’alzarci dal letto al riaddormentarci, costruire con verità immediata le azioni più o meno importanti, le speranze, le infelicità.

Ci vuole sempre un bilancino a portata di mano e dei piccoli pesi che aiutino a non superare quei limiti che in un attimo invadono i terreni della noia, delle falsità, dell’esercizio privato e stupido. Tutto accade veloce, bisogna fare attenzione: la maturità, per un giovane regista, e la garanzia ad essere in grado di lasciarsi alle spalle le opere prime e seconde, dipende anche da questo. Prendete i primi dieci minuti o pochissimo più di Fin de siglo dell’argentino Lucio Castro, girato a Barcellona. Ocho, poeta venuto da New York, si sveglia, apre il frigo per una birra, si lava, dà un’occhiata ad un sito d’incontri, si masturba, scende in strada, entra in un negozio ad acquistare un po’ di frutta, si mescola alla gente, fa un salto in spiaggia per una nuotata, adocchia chi gli sta intorno, rientra, s’affaccia al balcone. Poi la storia, a due, con l’ingresso in scena di Javi inizia: ma hai tempo per comprendere quanto quella solitudine, quel “vivere dentro” e quel “guardare fuori” siano reali e pronti a scivolare all’interno dei rapporti dei due ragazzi. Che si amano furiosamente, che si raccontano, davanti al panorama della città catalana, tra una bottiglia di vino ed un pezzo di formaggio, che riscoprono di essersi già incontrati vent’anni prima, Javi allora compagno di un’amica di Ocho. Si raccontano che le loro vite hanno preso strade diverse, che la voglia di paternità dell’uno ha occupato le giornate dell’altro, immaginano convivenze; la storia si suddivide in spazi temporali, in epoche che si fondono l’una dentro l’altra, accuratamente costruite, vivacizzate, precise, i due attori sullo schermo (Juan Barberini e Ramon Pujol) le riempiono con il loro chiacchierare, con la passione e con l’abbandono, ogni cosa soppesata da Castro con piena maturità.

Forte, brutale, rivoltante a tratti, ma uno dei titoli più “affascinanti” del festival, El hoyo di Galder Gaztelu-Urrutia (Spagna) divide e conquista, certo non lascia indifferenti, ha una forza al suo interno di messaggi e di crudeltà come se ne vedono poche volte. Forse rallenta e s’affatica nella parte finale, ma non rinuncia mai a stuzzicare, a smuovere, a spingere idee nello spettatore. Che cosa è “la fossa”? In un luogo irreale, senza tempo, una prigione verticale, oltre trecento piani si verrà a scoprire, in uno di questi un mattino un uomo, Goreng, si ritrova, con una copia del Don Chisciotte di Cervantes ed un vecchio vicino di letto. Differenti piani, due prigionieri ognuno, regole ferree cui nessuno può trasgredire, un scendere una volta al giorno per una piattaforma che porta il cibo, abbondante e pronto a sparire, più si è sopra e più ci si abbuffa, mentre più si scende più restano le briciole, quanto gli altri più fortunati hanno già rovistato, masticato, abbandonato. Il comando è sopravvivere, ogni mese i detenuti vengono spostati di piano, inconsapevoli di dove si verranno a trovare, più in alto, più in basso. Nessuno vuole accettare quelle leggi, men che meno Goreng, pronto a lottare affinché ognuno, nei vari piani, possa avere una eguale e giusta dose di cibo. È il gioco della follia quello che nasce, dell’incontrollato, grottescamente, il gioco della violenza, ma anche il gioco dell’aiuto e della solidarietà, in primo piano la necessità del cibo e la riluttanza a cedere, in questo “calapranzi” che mette a fuoco l’umanità. Brutale ma solido, il titolo non dovrebbe sfuggire alle scelte della giuria della Comencini.

Si può al contrario passare sotto silenzio Pink wall diretto da Tom Cullen (il maggiordomo aggiustatutto di Downton Abbey, chi l’avrebbe mai pensato!), sei anni nella vita di Jenna e Leon, sei momenti della loro relazione raccontati in maniera non cronologica, gli amori, le feste con gli amici, il loro incontro, il variopinto sesso senza freni, le cene, i locali alla moda, i primi dissapori, le gite in montagna. Sono attimi nella vita di una coppia, frammenti buttati su un tavolo con la volontà di lasciarli lì sparpagliati, nessun ordine: e allora il disordine, fatto del vuoto delle chiacchiere che il titolo argentino era bravo ad evitare, dando un segno e uno spessore, l’ossatura di una intera vicenda, qui in un alternarsi di dolori vissuti e gioie autentiche, lo ammettiamo, che tuttavia non approdano a nulla.

 

Elio Rabbione

 

Nelle immagini, scene tratte da “Fin de siglo”, “El hoyo” e “Pink wall”

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