CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 570

Le pagine di Fruttero & Lucentini, le voci quelle di Lavia e Licia Maglietta

Realizzato da Intesa Sanpaolo e curato da Giulia Cogoli, dopo il successo della prima serata affidata alla voce di Giuseppe Cederna, che aveva regalato quel capolavoro che è “La prevalenza del cretino”, continua il ciclo dedicato quest’anno – nel 2016 Natalia Ginzburg, lo scorso anno Primo Levi – alle pagine di Fruttero & Lucentini, perentorio sottotitolo “Basta il nome”. La irripetibile coppia, la ditta letteraria per eccellenza, la famosa sigla legata anima e corpo da quell’inaspettata & commerciale, con una scrittura a quattro mani durata per circa cinquant’anni, si è cimentata nei più disparati generi letterari – dalla fantascienza al fumetto, dal poliziesco (inteso anche come indagine con tanto di lente d’ingrandimento appiccicata all’occhio, provate a ripensare alla Verità sul caso D. scritto a sei mani con la complicità di Charles Dickens) all’horror, dal teatro alla traduzione, visitando Borges e Beckett, Stevenson e Verne -, praticando in un unico battito l’arte di costruire storie con intelligenza sempre e con piacevolezza. Attraverso le pagine di I ferri del mestiere. Manuale involontario di scrittura con esercizi svolti e la voce di Gabriele Lavia (a Torino in una pausa del Padre di Stridberg, uno degli spettacoli di più forte personalità dell’annata teatrale), con l’introduzione di Domenico Scarpa, saranno essi, stasera alle 21 nell’Auditorium del grattacielo di corso Inghilterra, a raccontarci quale è stato il segreto per portare al successo il loro tandem, si disse l’abitudine a scambiarsi l’un l’altro quel capitolo che in precedenza e in solitudine ognuno di loro aveva scritto, la cultura coltivata in ogni angolo, l’estrema complicità, il confrontarsi ad ogni istante, la sottile ironia e la leggerezza che alimentava ogni loro parola. Chissà. Fu proprio Domenico Scarpa a rintracciare e a rimettere in ordine in volume – ben lontano dalle intenzioni dei due autori “la tentazione di mettere insieme una loro teoria letteraria” – quanto negli anni avevano disseminato, volontariamente o no, in prefazioni e schede, in quarte di copertina e introduzioni, ovvero personalissimi pensieri, insegnamenti, consigli. Nacque I ferri del mestiere che subito il New York Review of Books paragonò agli Aspetti del romanzo di Foster o alle “Prefaces” di Henry James. Fu scritto: “Il bilancio di una lunga e allegra carriera, ma soprattutto un manuale imprescindibile (benché preterintenzionale) di scrittura creativa, di cui nessun aspirante scrittore (né lettore consapevole) dovrebbe fare a meno”. Mercoledì 4 aprile, sempre alle 21, Licia Maglietta proporrà brani della Donna della domenica, i tanti angoli di Torino, Anna Carla e Santamaria, l’architetto Lamberto Garrone e l’americanista Bonetto, i fratelli Zavattaro marmisti, Massimo Campi e Lello, le sorelle Tabusso, Boston o Bàston, il Balôn che non hanno bisogno di parole di presentazione: con l’aiuto filmico di Comencini, chi non ha ben impressi nella memoria fatti e persone, quelle ben “informate sui fatti?”. Ingresso libero, prenotazione obbligatoria sul sito www.grattacielointesasanpaolo.com/news.

(e.rb.)

Carlo Terzolo. La realtà immaginata

FINO AL 21 APRILE

E’ stato pittore di grande talento. E di stupendo mestiere. Fedele a un “credo realista”, tutto particolare, che neppure i primi soggiorni parigini (anni Venti – Trenta) e la frequentazione, attraverso l’amicizia con l’ “ardimentoso” Prampolini, di ambienti artistico-culturali contrassegnati da grandi fermenti innovativi, riuscirono a scalfire più di tanto. Classe 1904, astigiano di Incisa Scapaccino, ma formatosi all’Accademia Albertina di Torino e, in seguito, docente egli stesso all’Accademia e al Liceo Artistico subalpino, Carlo Terzolo ha saputo coniugare, a livelli di assoluta maestria, realtà visionarietà e immaginazione in un unicum artistico per il quale Luigi Carluccio a ragione parlò di “Iperrealismo” e “Surrealismo”. Componenti narrative certamente presenti e non contrastanti nell’ opera di Terzolo, capace di lavorare con certosina maniacalità di segno e colore, ma anche di straniarsi dai vincoli del quotidiano per depurarlo dai limiti del contingente, giocando, fantasticando e pur anche ironizzando con sogni, memorie e magie di libertà interpretativa di grande fascino e suggestione. A dirla lunga sul peso e sul singolare significato che nell’arte del Novecento ebbe l’opera del Maestro astigiano, basti citarne la presenza a ben cinque Biennali di Venezia e alle Quadriennali di Roma, senza dimenticare il primo premio “Città di Torino” conquistato nel ’50 alla Promotrice e la partecipazione a svariate mostre (la prima importante a “La Bussola” di Torino nel ’52 con presentazione di Italo Cremona), tutte corredate da un gran successo di pubblico e di critica.

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Scomparso nel 1975, solo nell’80 la Regione gli dedicò una retrospettiva a Palazzo Chiablese, cui seguirono nell’ ’87 una retrospettiva a “Le Immagini” di Torino e nel ’91 un’antologica a “La Finestrella” di Canelli, seguita da altre due, nel 2001 e nel 2012, organizzate al “Palazzo Crova” di Nizza Monferrato e alla “Casa del Conte Verde” di Rivoli. Da allora, ci pare che, soprattutto a livello pubblico – torinese e piemontese – qualcosina in più si sarebbe potuto e dovuto fare per tenere viva la memoria del “nostro” Terzolo. Un plauso, dunque, all’iniziativa della Fondazione Bottari-Lattes di omaggiare l’artista con una contenuta ma significativa mostra organizzata allo “Spazio Don Chisciotte”, in via della Rocca, fino al prossimo 21 aprile. Perfetto quel titolo allusivo alla “realtà immaginata”, la retrospettiva è amorevolmente curata dai figli Luca e Paolo, in collaborazione con Vincenzo Gatti, e presenta sedici opere (in prevalenza oli su tela) accanto a una dozzina di disegni, schizzi rapidi e bozzetti preparatori realizzati “al volo” su taccuini o fogli sparsi per essere poi analizzati e ricomposti in studio sotto forma di opere ben definite e compiute. Visioni di una realtà sempre occhieggiante ad “altro”, in cui la narrazione “viene scissa e ricomposta – scrivono i curatori – secondo logiche interne solo alla logica dell’opera stessa”. Fatto salvo un rigorosissimo dipinto del ’24, “I pini di Natale” appartenente alla collezione di Mario Lattes, tutti gli altri sono stati realizzati dai primi anni Sessanta e scelti attraverso una scrupolosa selezione tematica che ha imposto il sacrificio di opere iconiche, come quelle dei grandi paesaggi, delle cascine o delle fornaci. Al posto d’onore (solo per disposizione dei quadri) l’“Interno” del ’59: un tavolino in primo piano su cui poggiano un cono, una trottola e uno specchio che riflette una “realtà immaginata”, il fiume e la collina torinese che proprio non si vedevano dallo studio del pittore (già di Umberto Mastroianni), al civico 4 di via Perrone. Dietro appare a metà anche una figura femminile che sembra restia (o infastidita?) a rinunciare alla   propria privacy. Ironia. Curiosità. Voglia di gioco e di evasione. Tutto ciò che troviamo anche nella “Ragazza con le galline” del ’75, unica opera in mostra senza firma. L’artista morì prima di ultimarla. E chissà se a quella fanciulla che corre impacciata nel tentativo d’acchiappare il pennuto ribelle, sotto gli occhi di un bimbo con la palla in mano e l’indifferenza di un micio che si crogiola e si stiracchia sul muretto, Terzolo avrebbe voluto aggiungere qualcosa in più? Resta il dubbio, che non sminuisce la briosità dell’atmosfera. Come nel delizioso “La scelta della cartolina” del ’69, con tanto di cartoline realmente illustrate una a una, l’uomo con giacca a spalla e bretelle indeciso nella scelta, il cagnolino paziente in attesa e, sullo sfondo di un angolo della riviera ligure che parrebbe Noli, il roccioso isolotto che parrebbe l’isolotto di Bergeggi. Flash visivi. Piacevolissimi. Ma anche scombussolamenti della memoria. Di quell’antica infanzia rurale – con i carradori, i pozzi a bricola, le ruote, i tricicli da trasporto, lo schiacciasassi, le scale nell’aia sempre pronte all’uso e la vecchia bicicletta appoggiata al muro del cascinale – che tanto l’avrà legato all’amico Cesare Pavese, conosciuto nell’adolescenza a Reaglie, dove le famiglie furono per un buon periodo vicine di casa.

Gianni Milani

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“Carlo Terzolo. La realtà immaginata”

Spazio Don Chisciotte – Fondazione Bottari Lattes, via della Rocca 37b, Torino, tel. 011/19771755-1; www.fondazionebottarilattes.it

Fino al 21 aprile – Orari: martedì – sabato, ore 10,30 – 12,30 e 15 – 19 

 

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Nelle foto

– “Ragazza con le galline”, 1975
– “Interno”, 1959
– “La scelta della cartolina”, 1969
– “Pozzo a bricola con tacchino”, 1973
– “Il triciclo”, 1971

 

Giorgio De Chirico. Capolavori dalla collezione di Francesco Federico Cerruti

FINO AL 27 MAGGIO

Sono otto, realizzati fra il 1916 e il 1927, i capolavori di Giorgio de Chirico (nato a Volos, in Grecia, nel 1888 e scomparso a Roma nel 1978) esposti, fino al 27 maggio, al Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea e posti in relazione – bellissima idea – con le opere di sei artisti contemporanei presenti nella collezione permanente del Museo e portatrici di temi similari o contrapposti a quelli espressi, in momenti ispirativi e in situazioni esistenziali le più diverse, dal grande Maestro della Metafisica. La mostra è sicuramente di quelle da non perdere. Per l’alta portata artistica e storica che la contraddistingue, ma soprattutto perché offre al grande pubblico, per la prima volta, la possibilità di ammirare dipinti di de Chirico finora celati nella Villa Cerruti di Rivoli (che sarà aperta al pubblico il prossimo anno) voluta negli anni Sessanta dall’imprenditore torinese Francesco Federico Cerruti, scomparso nel 2015, ad uso esclusivo della propria collezione privata. Collezione di immenso valore per vastità e importanza, frutto di 70 anni di ricerca e raccolta di opere articolate in una modulazione del bello, che è storia dell’arte tout court, dal Medioevo fino all’età contemporanea passando per il Surrealismo e le principali correnti del Novecento internazionale. Di eccezionale rilievo gli otto de Chirico esposti nelle sale del Castello juvarriano e che finora erano stati accessibili solo a pochi e fidati “amici intenditori” del grande collezionista torinese. La rassegna, presentata nelle sale auliche al primo piano della Residenza Sabauda e curata da Carolyn Christov-Bakargiev (direttrice del Museo) e da Marcella Beccaria, offre “uno spaccato sull’inesauribile capacità metamorfica del genio di de Chirico” fatto dialogare, attraverso opere di assoluta e codificata attualità, con grandi artisti contemporanei che vanno da Giulio Paolini a Michelangelo Pistoletto, da Franz Ackermann a Fabio Mauri, fino ad Alighiero Boetti e a Maurizio Cattelan. “Il percorso espositivo – sottolinea Marcella Beccaria propone ai visitatori, in un vertiginoso gioco tematico di assonanze, contraddizioni ma anche sorprendenti corrispondenze, che gettano ulteriore luce sulla poetica di de Chirico e sulla sua inesauribile eredità culturale”. L’iter espositivo si apre allora con le “Muse metafisiche” (olio su tela eseguito dal Maestro nel ’18, alla fine del periodo ferrarese, anche se le torri ravvisabili dalla finestra, a destra nel quadro, sembrano portarci a Bologna) messe in relazione con la “Casa di Lucrezio” (1981) del Paolini. Elementi comuni, a più di sessant’anni di distanza, il tema del doppio e dell’enigma poetico, che ritroviamo in una delle tante versioni de “Il Trovatore” (questa di Rivoli é del ’22 e molto attenta ai simbolismi dello svizzero Arnold Bocklin) per arrivare all’assoluta purezza metafisica de “Il saluto degli Argonauti partenti” (1920), di netta impronta classico-rinascimentale, con la marcata fisicità di nudi alla Luca Signorelli e “nel cielo la raffinata memoria dell’arte di Mantegna e Bellini. Proseguendo ci si imbatte nel tema dell’autoritratto (tanto caro a de Chirico che ne eseguì più di cento), nodo centrale che pone in relazione “Autoritratto con la propria ombra” (ca. 1920) con l’imponente “L’architettura dello specchio”, eseguita nel ’90 da Pistoletto e che “abbraccia la molteplicità del reale, accogliendone l’inarrestabile mutevolezza”. A seguire il gruppo degli “interni”: “Interno metafisico” (ca. 1918), aperto al contrasto con le architetture immaginifiche di Ackermann, così come la “Composizione metafisica” del ’16 che dialoga con i meccanismi dell’immaginario collettivo evidenziati da Mauri e come l’altro “Interno metafisico” del ’17 affiancato, nell’attenzione per la semplicità degli oggetti d’uso comune, alla “quotidiana banalità” delle opere di Boetti. A completare il percorso l’interrelazione fra i “Due cavalli” (altro soggetto particolarmente amato da de Chirico) realizzati nel ’27 e “Novecento” (1997) di Cattelan, secondo un dialogo “nel quale l’impeto dionisiaco del maestro della Metafisica incontra la cinica e sconsolata visione dell’artista contemporaneo relativamente al secolo appena trascorso”. Assonanze. Contraddizioni. Rimandi di immagini e pensieri capaci di rincorrersi e riproporsi oltre le mode e oltre il tempo. Con la potenza di gesti trasfiguranti che stanno anche alla base dell’altra mostra ospitata sempre al Castello di Rivoli, nella Manica Lunga, fino al 24 giugno, dal titolo “Metamorfosi. Lasciate che tutto vi accada”. Curata da Chus Martìnez, la rassegna intende proporre l’esperienza della metamorfosi nell’arte contemporanea attraverso le opere inedite – installazioni, sculture, azioni performative, dipinti e video – di sette promettenti artisti internazionali.

Gianni Milani

“Giorgio de Chirico. Capolavori dalla Collezione di Francesco Federico Cerruti”

Castello di Rivoli- Museo d’Arte Contemporanea, piazza Mafalda di Savoia, Rivoli (Torino); tel. 011/9565222 – www.castellodirivoli.org

Fino al 27 maggio – Orari: mart.-ven. 10/17 e sab.-dom. 10/19; lunedì chiuso, aperto il lunedì di Pasqua e primo maggio

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Nelle foto

– “Muse metafisiche”, olio su tela, 1918
– “Il saluto degli Argonauti partenti”, tempera su tela, 1920
– “Autoritratto con la propria ombra”, tempera su tela, ca. 1920

 

Un po’ di Oriente in Piemonte

I tesori esotici del duca dal castello di Agliè in mostra al MAO di Torino

 

Martedì 27 febbraio scorso è stata presentata presso il MAO (Museo d’Arte Orientale di Torino) la mostra dal titolo “I tesori esotici del duca. Selezione di opere orientali dal castello di Agliè”, in programma sino al 3 giugno prossimo. L’evento, voluto dal MAO in collaborazione con il Polo Museale del Piemonte, ha visto la partecipazione di Marco Biscione, Direttore del museo, che ha rimarcato la volontà di portare all’attenzione del pubblico i legami tra le collezioni d’arte orientale presenti a Torino e la storia del territorio piemontese, Ilaria Ivaldi, Direttore del Polo Museale del Piemonte, ente che ha in gestione il castello ducale di Agliè per conto del Ministero dei Beni e delle Attività culturali, Alessandra Guerrini, Direttore di Villa della Regina e del castello di Agliè, che ha evidenziato l’importanza dell’iniziativa come veicolo per rafforzare la visibilità del sito canavesano, inserito nel circuito delle residenze sabaude, ma ancora poco conosciuto anche per la carenza di collegamenti efficaci con Torino. L’incontro è stato poi completato dalla studiosa Roberta Vergagni e da Marco Guglielminotti Trivel, conservatore per l’Asia Orientale del MAO, che si sono invece soffermati sulla descrizione delle opere esposte e sulla loro provenienza, soprattutto in relazione alla figura di Tomaso di Savoia duca di Genova (1854-1931) che, durante i suoi viaggi, raccolse la gran parte dei manufatti asiatici radunati nella dimora di famiglia, il castello di Agliè. L’esposizione presenta in anteprima al pubblico, all’interno di una sala al piano nobile di palazzo Mazzonis, già Solaro della Chiusa, dimora nobiliare seicentesca che ospita il MAO, una selezione di opere appartenenti alla collezione di oggetti d’arte e manufatti orientali conservati nel castello ducale di Agliè, dimora sabauda sita nel Canavese, a una quarantina di chilometri a Nord di Torino, che colpisce non solo per la grandiosità, varietà degli ambienti e per la magnificenza di giardino e parco annesso, ma anche per la ricchezza delle collezioni conservate, tra cui quella ornitologica e quella asiatica principalmente dovuta a Tomaso di Savoia-Genova.

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La collezione di manufatti orientali di Agliè, che sarà resa fruibile al pubblico una volta terminata la campagna di studio e restauro, comprende quattro aree geografiche-culturali, Giappone, Cina, Siam (oggi Thailandia) e Cina per Siam (ceramiche cinesi per committenza siamese), con l’aggiunta di un reperto coreano e un altro, un tamburo rituale (visibile in mostra), di area birmana. Due sono, invece, i nuclei di provenienza delle opere: il primo deriva dalle collezioni di Tomaso di Savoia-Genova, il secondo dagli acquisti dell’ingegner Giuseppe Canova. Quest’ultimo si recò in Siam come progettista della prima ferrovia da Bangkok a Phetchaburi, seguendo le orme di altri italiani, ed in particolare piemontesi, giunti in Asia tra Otto e Novecento per mettere le proprie competenze al servizio di Paesi che si stavano modernizzando. Interessante in questo senso è scoprire quali nuclei di reperti conservati al MAO o in altri musei torinesi derivino appunto da acquisti effettuati o doni ricevuti da tecnici e funzionari piemontesi, che si recarono in Oriente per ragioni di lavoro, diventando poi collezionisti di manufatti esotici. Tornando alla figura principale coinvolta nella formazione della raccolta di Agliè, il duca Tomaso di Savoia-Genova, questi era figlio di Ferdinando, fratello minore di Vittorio Emanuele II, e della principessa Elisabetta di Sassonia. Rimasto orfano di padre, morto di tubercolosi a soli 33 anni, venne affidato alla tutela del principe di Carignano Eugenio di Savoia, che indirizzò Tomaso alla carriera militare, inviandolo in Inghilterra, scelta non usuale per principi di casa Savoia, a studiare marineria. In veste di ufficiale della Marina compì la circumnavigazione del globo tra 1872 e 1874, ma fu soprattutto il viaggio intrapreso in Asia orientale tra 1879 e 1881, al comando della corvetta Vittor Pisani, a consentirgli di entrare più profondamente in contatto con quelle culture orientali da cui provengono i reperti raccolti ad Agliè, acquistati come souvenir di viaggio o ricevuti come dono diplomatico da personaggi d’alto rango, come l’imperatore del Giappone e il re del Siam Rama V.

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Tra i manufatti acquisiti dal duca, che andarono poi in parte dispersi quando la dimora di famiglia, il castello di Agliè, venne ceduta allo Stato nel 1939, appaiono preponderanti le ceramiche, in particolare le preziose porcellane cinesi, cui appartiene il grande vaso del periodo Qing in porcellana craquelé decorata a smalti policromi esposto in mostra. Non mancano, però, oggetti d’arte di materiali diversi, come le opere pittoriche di produzione giapponese, cui si riconduce il bellissimo dipinto su carta realizzato a quattro mani, forse su commissione dello stesso Tomaso durante un shogakai, incontro pubblico di pittura e calligrafia, raffigurante un’elegante cortigiana con il suo servitore, immagine riprodotta sulla locandina della mostra, e manufatti d’uso comune, tra cui un risciò (non presente in mostra), recante lo scudo sabaudo, donato al duca dall’imprenditore della seta Carlo Giussani per i suoi spostamenti nelle regioni interne del Giappone, ed un copricapo coreano Gat (XIX sec) a larga tesa, tradizionalmente adoperato in estate per ripararsi da “mosche e zanzare”, come si legge sulle memorie di viaggio. Di particolare importanza, come occasione per implementare la raccolta, fu l’incontro di Tomaso con Rama V, re del Siam, che a quel tempo, nel 1881, era in lutto per l’improvvisa perdita dell’amata sovrana. Tomaso assistette alle cerimonie in onore della defunta e alcuni oggetti presenti ad Agliè sono riferibili proprio a questo evento, in particolare le riproduzioni di modelli di barche da parata cerimoniale utilizzate per l’occasione. Afferenti alla cultura siamese e visibili in mostra, sono anche la grande testa di Buddha in bronzo con tracce di doratura, risalente a fine XV secolo, e le maschere dei personaggi del poema Ramakien indossate dagli attori del dramma Khon.

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I viaggi compiuti da Tomaso s’inseriscono in un contesto più ampio in cui si stava affermando la consuetudine di organizzare spedizioni in Oriente per allacciare relazioni diplomatiche o per scopi commerciali; significativo è, in questo senso, il trattato di amicizia e commercio stipulato a Parigi nel 1857 tra Regno di Sardegna e Persia, poi confermato come accordo italo-persiano nel 1862 a Teheran, che consentì l’afflusso a Torino di materiali confluiti nelle raccolte di scienze naturali. Il gusto per l’Oriente s’era però affermato già da tempo, entrando sin dal Settecento nell’arredo delle residenze sabaude e delle dimore aristocratiche, impreziosite da chinoiseries, manufatti di provenienza asiatica, talvolta adattati a nuove funzioni (ad esempio vasi cinesi adattati a lumi a petrolio) e oggetti realizzati in Occidente imitando modelli orientali. La visita alla mostra vuole anche essere un invito a scoprire il castello di Agliè, magnifico esempio di residenza sabauda extraurbana, che cominciò a svilupparsi, nelle forme in cui oggi la contempliamo, alla metà del Seicento quando l’allora proprietario, il conte Filippo San Martino d’Agliè, sentimentalmente legato alla prima Madama Reale, Cristina di Francia, volle trasformare la fortezza di famiglia, d’impianto medioevale, in residenza aulica, in grado di rivaleggiare con il palazzo ducale di Torino, chiamandovi a lavorare Amedeo di Castellamonte. Le successive stagioni di rinnovamento si situano nella seconda metà del Settecento, per opera di Ignazio Birago di Borgaro, dopo che nel 1763 re Carlo Emanuele III di Savoia aveva acquistato il castello dai San Martino per darlo in appannaggio al secondogenito, nato dalla terza moglie, Benedetto Maurizio duca del Chiablese, e nel periodo della Restaurazione sabauda, per opera di re Carlo Felice e della consorte, Maria Cristina di Borbone-Napoli, che affidarono i lavori a Michele Borda di Saluzzo. Con la morte di Maria Cristina il castello passò, infine, per eredità ai duchi di Savoia-Genova, che ne fecero la loro dimora, privilegiando la funzionalità degli arredi sulle esigenze di rappresentatività e apportando, quindi, modifiche non sempre in linea con la vocazione originaria degli ambienti.

 

Paolo Barosso

La Commedia di Dante secondo Cromie

L’Associazione socio-culturale Cromie-Vivere a colori organizza per i suoi soci un evento straordinario grazie alla disponibilità della Dott.ssa Franca Porticelli, Coordinatore Ufficio Fondi Antichi e Collezioni Speciali, Tutela, Conservazione e Restauro della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino e del Generale Franco Cravarezza, Presidente Associazione Amici Biblioteca Nazionale. Mercoledì 11 aprile alle ore 17 gli iscritti infatti avranno il privilegio di avere accesso all’esposizione davvero unica di rari “Esemplari manoscritti e a stampa ed edizioni antiche della Commedia di Dante Alighieri nei fondi storici della Biblioteca Nazionale di Torino”. Questi stessi documenti faranno parte di una mostra così intitolata che si terrà a Montecitorio nel mese di maggio. I soci di Cromie potranno così accedere in anteprima a questi documenti con facoltà di esaminarli nel dettaglio. Tra i rari documenti, in particolare, varie versioni manoscritte della Commedia, con codici prodotti tra il XIV e il XVI secolo ed edizioni a stampa, a partire da un esemplare dell’edizione fiorentina del 1481 con il commento di Cristoforo Landino, sino alla fine del XVIII secolo. Si potrà inoltre ammirare una “Commedia” edita a Monaco da Bernardo Schuler nel 1893, ricevuta in dono e custodita nella Sezione Riserva del Deposito Manoscritti e Rari, dove i visitatori saranno accolti dalla Dott.ssa Franca Porticelli, che introdurrà la visita con una breve storia della Biblioteca Nazionale. Numero massimo dei partecipanti 30 (per ragioni di spazio e di sicurezza). Il ritrovo è previsto nell’Atrio della Biblioteca, in piazza Carlo Alberto 3. Ingresso gratuito e riservato ai soci di Cromie su prenotazione al 338/2539740. Per ulteriori informazioni ed eventuali nuove iscrizioni telefonare allo stesso numero.

Con il Fai la storia apre le porte

Dimore e palazzi storici chiusi di solito al pubblico aprono le porte sabato 24 e domenica 25 marzo per le giornate di primavera del Fai. La manifestazione, oltre a essere un momento di incontro tra il FAI e la gente, uniti nel festeggiare e raccontare la propria storia più bella e più nobile, è anche un importante evento di raccolta fondi e un’occasione per raccontare a tante persone gli obiettivi e la missione della Fondazione. Per questo, all’accesso di ogni luogo aperto verrà chiesto ai visitatori un contributo facoltativo, preferibilmente da 2 a 5 euro: i preziosi contributi raccolti saranno destinati al sostegno delle attività istituzionali del FAI. A Torino:
Prefettura
L’attuale palazzo della Prefettura nasce nella prima metà del Settecento come palazzo delle Regie Segreterie di Stato e, insieme all’Archivio di Stato (già Archivio di Corte), costituisce uno dei primi esempi, nel mondo occidentale, di architettura nata specificatamente con funzioni amministrative. Normalmente chiuso al pubblico, l’edificio reca la firma di tre grandi architetti al servizio dei principi sabaudi: Amedeo di Castellamonte, che concepì l’intera composizione della piazza, Filippo Juvarra, che ne definì l’articolazione interna e Benedetto Alfieri, che portò a compiuta realizzazione il grande cantiere attraverso la composizione classicista della facciata e la raffinata eleganza degli interni. La lenta ascesa dello scalone centrale conduce alla grandiosità della Galleria e di qui all’infilata delle sale di rappresentanza, allestite da Alfieri, affrescate da Francesco Gonin e arredate con i migliori pezzi provenienti dal mobiliere di Palazzo Reale e dalle Raccolte Civiche. Al termine del percorso emozionerà entrare nel semplice studio di Camillo Cavour, rimasto intatto dalla sua prematura scomparsa nel 1861. Dal 1997 il Palazzo è iscritto alla Lista per Patrimonio dell’umanità in quanto parte del sito seriale UNESCO Residenze Sabaude.
Apertura: sabato e domenica 10 – 18
Archivio storico dell’Ordine Mauriziano – Ospedale Umberto I
Apre in via eccezionale per le Giornate FAI l’ingresso storico dell’ospedale che affaccia su corso Turati, straordinaria porta d’accesso per ammirare il piano nobile dell’edificio, già sede del Gran Magistero dei SS. Maurizio e Lazzaro: l’Ordine mauriziano è un ordine cavalleresco di Casa Savoia nato nel 1572 dalla fusione dell’Ordine Cavalleresco e Religioso di San Maurizio e dell’Ordine per l’Assistenza ai Lebbrosi di San Lazzaro. L’Archivio Storico dell’Ordine Mauriziano è un istituto di conservazione di notevole rilevanza storica, tanto da essere considerato in Piemonte secondo solo all’Archivio di Stato di Torino per la tipologia e la ricchezza della documentazione presente (bolle pontificie, pergamene, mappe, cabrei, alberi genealogici, ecc.). La documentazione è conservata prevalentemente al piano nobile all’interno della sede storica dell’ordine e dell’ospedale. L’archivio conserva più di 2000 metri di documentazione riguardante l’esercizio delle attività attribuite all’Ordine, di natura militare-cavalleresca, assistenziale sanitaria, di istruzione, di culto, di gestione patrimoniale.
Apertura: sabato e domenica 10 – 18

Il Castello della Rotta

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie. Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare(ac)

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2 / Castello della Rotta

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 La geomanzia è un’antica arte divinatoria che si fonda sull’interpretazione dei segni naturali o artificiali presenti sul terreno, o sulla posizione di alcuni di essi rispetto a pianeti o costellazioni. Le antiche popolazioni ritenevano molto importante la componente astrologica nell’erigere edifici di culto, come testimoniano le chiese medievali tutte orientate verso ovest-est con l’ingresso a ovest e l’abside a est; le pagode della Cina e di tutto il sud est asiatico, invece, venivano erette solo dopo un’attenta indicazione dei geomanti, in modo che queste si trovassero ad essere nel miglior equilibrio con la natura. Per chi crede a queste storie, sembra che ci siano sulla nostra Terra zone pregne di energie sovrannaturali, talvolta benevole, talvolta inquietanti, ma sempre si tratta di luoghi strani, immersi in una atmosfera come mutevole, oggetto di racconti che hanno il sapore di antiche storie narrate da vecchie signore intorno a grandi falò. Vicino a Torino, città magica per eccellenza, si trova un luogo particolare, un castello che, nonostante l’aspetto morigerato, pare essere il più infestato d’Italia, si tratta del castello della Rotta. Mi trovo a Moncalieri, sono in compagnia della mia amica Martina, siamo arrivate alla meta dopo esserci perse a Villastellone e una volta giunte ci chiediamo se il posto sia effettivamente quello giusto. Lasciamo la macchina in una stradina sterrata che collega la via principale al castello, costeggiando un campo seminato e ben tenuto. Noto subito che il verde delle colture termina bruscamente nel giallo secco dell’erba che circonda la struttura, come ci fosse un secondo perimetro, invisibile ma invalicabile, come se un mondo finisse e un altro ne iniziasse. Continuo a fissare il cambio di colore, mi stupisce il fatto che sia così netto, a distanza di un passo la natura da fresca e rigogliosa avvizzisce quasi a causa un’antica fattura. Percorriamo il sentiero polveroso continuando a studiare ciò che ci circonda, sicuramente suggestionate dalle storie che già conosciamo riguardo al castello.

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Tutto ci sembra sospettoso, i suoni si fanno stridenti, le macchine che ci sfrecciano attorno “gridano” e le loro “voci” strascicano nell’aria. C’è una leggera brezza, eppure l’unico albero ad esserne disturbato è il salice piangente che cresce di fronte all’ingresso del castello, ondeggia ritmicamente, pari ad uno sciamano intento in chissà quale danza propiziatoria. Il maniero non è grandissimo, non è nemmeno così alto, le pareti sono costituite da mattoni e sono traforate da piccole finestrelle dai vetri rotti. I pochi frammenti di lastra riflettono eccessivamente il sole, il riverbero luminoso colpisce la vista come contenesse in sé qualcosa di tagliente; il contrasto con l’interno non è una semplice contrapposizione luce-ombra, ma ricorda più una silenziosa quanto spaventosa dicotomia tra bene e male. L’ingresso principale è costituito da un serioso cancello ad arco, costruito in ferro, sopra il quale si staglia il bianco emblema della casata dei Valperga. Il sole incessante di quella giornata si scaglia contro il bassorilievo e risulta fastidioso osservarne il disegno: si tratta di un arbusto sovrastato da un becco. La lastra di pietra fu qui collocata nel 1455, dal Gran Priore dei Cavalieri gerosolimitani Giorgio di Valperga di Masino. Mi accorgo che io e la mia amica non parliamo, come non volessimo intimorirci a vicenda, stiamo ognuna concentrata a riguardare le proprie foto, lo facciamo con una meticolosità quasi morbosa, vedo che anche lei, come me, le ingrandisce all’impossibile e controlla che non ci siano strani aloni dietro le piccole finestre scure. Il portone è interamente ricoperto da scritte inneggianti a Satana. Esse sono di varia natura, quelle scalfite sembrano graffi animaleschi, quelle delineate con le bombolette ricordano gli schizzi di sangue di qualche animale sacrificale, per quanto sciocche, quelle parole incutono un certo timore, si evince che chi le ha incise o eseguite credeva fermamente nel gesto che stava compiendo.

 

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La curiosità mi spinge ad andare avanti, ma la soggezione non aiuta la mia parte razionale ad emergere. Il castello ha origini medievali, i primi occupanti furono probabilmente Romani, in seguito venne occupato dai Longobardi, ai quali succedettero i Templari, che ne furono i padroni per oltre trecento anni; dopo di loro, verso il Cinquecento, divenne un bene dei Savoia. La roccaforte fu testimone, nel 1639, della disfatta di Tommaso Francesco di Savoia, principe di Carignano, inflittagli dall’esercito francese, successivamente, nel 1706, diventò un deposito di polvere da sparo durante l’assedio portato avanti dai Francesi nei confronti di Torino. Ci sono altre storie violente ambientate nelle inaccessibili stanze del castello: tra di esse la follia del re abdicatario Vittorio Amedeo II, re di Sardegna, che qui morì il 30 ottobre del 1732, dopo che il figlio Carlo Emanuele III lo costrinse a rimanere rinchiuso tra queste mura. Nel Settecento il castello cessò la sua funzione di fortilizio e venne adibito a dimora gentilizia. Continuo nel mio percorso e mi ritrovo in una sorta di cortile posteriore, qui la vegetazione ha assunto il completo controllo, erbacce e arbusti si intersecano come stessero lottando gli uni contro gli altri; in tale simbolico scontro greco romano il sole non prova nemmeno ad intromettersi e d’improvviso mi ritrovo sovrastata da un’ombra omogenea, che ricopre incondizionatamente le mura di sfondo, le finestre che si aprono su di essa, i resti ammuffiti di un vecchio pozzo e degli strani cumuli di rami che attirano la mia attenzione.

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Mi avvicino a quest’ultima scoperta: non saprei definire quei rami se non come enormi nidi di qualche mitica creatura che viene a nascondersi in questi insoliti meandri. Interdetta mi allontano e con la coda dell’occhio ho l’impressione che qualcosa di scuro si muova sullo sfondo: un uccelletto nero si libera dalla sterpaglia e vola via verso il cielo, eppure l’ombra mi pareva troppo grande per appartenere ad un animaletto così piccolo. È strano, ma ho la netta sensazione di essere osservata, come se ci fosse una compresenza di occhi nascosti che mi fissa da dietro l’oscurità delle finestre, dal di dentro dei nidi, dagli angoli più bui che non riesco a mettere a fuoco, né con la vista, né con la reflex. Fingo di non farci caso, ma le fotografie che fino ad ora ho scattato in quella zona sono tutte micro mosse. Forse quello non è il posto per noi, forse con i nostri rumorosi calpestii abbiamo disturbato il sonno di qualche spirito che lì aveva deciso di assopirsi. Avevo svegliato il cavaliere, o il sacerdote criminale, o qualche nobile suicida? Avevo interrotto la lettura del cardinale? o forse avevo infastidito l’anziana tata che aveva perso il bambino affidatole, oppure l’uomo in nero che passeggia ancora nei luoghi della sua morte? Non ebbi il coraggio di esplicitare la domanda. Proposi di ritornare verso la macchina senza esprimere una motivazione precisa, ma non mi trovai in disaccordo con la mia amica. Sedute nell’autovettura ci diciamo che sarebbe interessante provare a tornare la notte del 14 giugno, quando, secondo alcune testimonianze, si potrebbe assistere alla comparsa di un corteo rituale di alcuni monaci ecclesiastici. Giro la chiave e la macchina non parte, come nei classici horror anni ’80, guardo Martina e scoppiamo in una fragorosa risata apotropaica e al secondo tentativo la vettura si riprende. Sto ancora rimuginando sul fatto di tornare o meno la notte del 14 giugno.

 

Alessia Cagnotto

“Arma il prossimo tuo”. 100 foto al Museo del Risorgimento

STORIE DI UOMINI, CONFLITTI, RELIGIONI. FINO AL PRIMO MAGGIO

Ci esorta. Ci “implora” quasi Domenico Quirico, giornalista scrittore e grande inviato di guerra. Le sue parole, scritte ad accompagnamento narrativo della mostra ci strattonano con misericordiosa “violenza” per aiutarci e, in certo senso, “proteggerci” nella lettura più vera e profonda di quei centodieci scatti coraggiosi (per la maggior parte in bianco e nero) assemblati sotto il titolo ad effetto “Arma il prossimo tuo”, negli spazi espositivi del Museo Nazionale del Risorgimento, in Palazzo Carignano a Torino. “Abbiamo pietà, vi prego – scrive Quirico degli uomini che vedete in queste foto. Sono alle soglie della morte, o forse un po’ al di là ma lo ignorano”. E come non averne di pietà di fronte allo sguardo muto e perfino imbarazzato di Sergey, il soldato ucraino ritratto fra i resti di Promzona, un tempo la zona industriale di Avdiivka, nel cuore dell’annosa guerra del Donbass, dove i due eserciti governativo e filorusso si fronteggiano a poche centinaia di metri l’un dall’altro? Sergey guarda fisso l’obiettivo. Non è il terribile mirino di un nemico kalashnikov, ma l’occhio amico di una macchina fotografica. Armato fino ai denti, nel cinturone il soldato si porta addosso (e in fondo al cuore) un ben visibile crocifisso di metallo. Il tempo infinitesimale di uno scatto e

un’improvvisa vicina esplosione fa fuggire in opposte direzioni il soldato e il fotografo, che non si incontreranno più. Sergey morirà un mese dopo, il 25 aprile del 2017, ucciso da un colpo di un mortaio. A raccontarlo è Roberto Travan, fotoreporter di lungo corso (caposervizio de “La Stampa”, per cui lavora dal 1989), che insieme al collega – anche lui blasonato, entrambi torinesi – Paolo Siccardi (free-lance e collaboratore dal 2000 del Settore Esteri di “Famiglia Cristiana”) firma la rassegna organizzata in Palazzo Carignano fino al prossimo primo maggio, con il supporto di Fujifilm Italia. E’ la prima volta di una mostra fotografica al Museo di piazza Carlo Alberto e l’obiettivo vuole essere quello di raccontare, come forse mai finora é stato fatto, quanto la fede e il supposto dovere di combattere in nome di un Dio, oggi come ieri, siano spesso l’elemento comune, la sottile “linea rossa, non sempre visibile, capace però di alimentare conflitti che per

questo paiono non poter finire”. Conflitti dannatamente eterni. Dove esaltazione e fanatismo si fanno armi spietate contro tutti e tutto. Fuori d’ogni atto umano che possa dirsi vero atto di fede religiosa. Dalla Repubblica Centrafricana al Sud Sudan al Kosovo alla Siria fino all’Afghanistan Israele e Ucraina, gli scatti fotografici esposti ci portano in quattro macro aree ad alta intensità bellica: Balcani, Europa e Caucaso, Medio Oriente e Africa. “Queste foto – scrive ancora Quirico sono lampi di crudo dolore. La guerra e i segni di Dio: piccoli e grandi, pendagli e lapidi, chiese e moschee, segni tracciati sui muri e scritte che gridano Dio… La fede ottiene dall’essere umano ciò che nessun’altra dottrina ha mai ottenuto. Nel bene e nel male”. Nell’effimera gioia dei vincitori e nel pianto straziante dei vinti. E di chi resta. Nel grido di “Allah Akbar” urlato dai giovani combattenti dell’esercito siriano di liberazione, ritratti da Siccardi, che ad Aleppo si lanciano, votati al sacrificio, in battaglia o nella dolorante preghiera (la foto è sempre di Siccardi) alzata al cielo nella chiesa cattolica di Saint Andrews (Bor – Sud Sudan) per i cristiani Dinca massacrati dalle

truppe di etnia Nuer, per lo più composte da musulmani e animisti. Luoghi noti. Altri meno. Altri ancora sconosciuti. Lontani dai riflettori dell’informazione. “Luoghi in cui si continua a pregare. E a uccidere – e morire – in nome di Dio”. In atmosfere di laceranti macerie paesistiche e umane. Nel silenzio assordante che, in una foto di Travan, impietosamente avvolge la figura del sacerdote che a Talish (Nagorno- Karabakh) abbandona il villaggio, portando in salvo i simboli preziosi della sua fede, dopo la violenta offensiva dell’Azerbaijan. Il volto è chinato a terra, in una smorfia appena accennata di pietrificato trattenuto infinito dolore. E allora per davvero: “Abbiamo pietà, vi prego, degli uomini che vedete in queste foto… Camminano nudi nonostante i segni dell’Invincibile che portano addosso, nudi sotto lo sguardo di Dio”.

Gianni Milani

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“Arma il prossimo tuo. Storie di uomini, conflitti, religioni”

Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo alberto 8, Torino; tel. 011/5621147 www.museorisorgimentotorino.it

Fino al primo maggio . Orari: mart. – dom. 10/18

“Da Piffetti a Ladatte”, un percorso di meraviglie

Sono alcuni ritratti di personaggi di casa Savoia ad accogliere il visitatore nelle sale della Fondazione Accorsi-Ometto in occasione della mostra Da Piffetti a Ladatte. Dieci anni di acquisizioni curata dal presidente Giulio Ometto e da Luca Mana, conservatore del Museo: l’esposizione di un centinaio di pezzi tra gli oltre duecentocinquanta – i mobili, i dipinti, le miniature, gli orologi, gli argenti e altro ancora – giunti nel palazzo di via Po attraverso acquisti e vendite, donazioni, aste, scoperte, recuperi importanti, scommesse con se stessi nel desiderio di un ritorno a casa che può anche aver voluto dire una lotta impari con il Louvre ad un’asta di Sotheby, come è avvenuto per la terracotta Il Trionfo della Virtù dovuta a Francesco Ladatte, donata dal settecentesco financier parigino Ange-Laurent de La Live de Lully ad una consorte dai costumi più che leggeri e strappata l’anno scorso per una cifra di circa 180 mila euro. Il risultato, tutto questo, mai stabilizzato ma sempre in progredire (“con i miei collaboratori immagino un museo che possa cambiare continuamente aspetto, ben oltre la codificata raccolta museale”, è convinto Mana), dovuto alla volontà di presentare e di offrire al pubblico (“anche a quello giovane, di studi liceali, quello che – io ne sono convinto – in una crisi sociale ed economica, come è quella che stiamo vivendo, cerca appoggio nella bellezza e nel passato un punto di riferimento”) un patrimonio di arredi e di opere d’arte, inseguito non soltanto nel nostro paese ma nel mondo intero, una vasta collezione d’eccezione che rispecchi le ambientazioni e gli oggetti del XVIII e del XIX secolo, nell’impronta dell’accanita ricerca, dell’intelligenza delle scelte, nel riconoscimento costante di quello che amiamo definire come il “gusto Accorsi”.

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Una raccolta, un patrimonio prezioso, che non è esclusivamente la visione della bella opera d’arte esposta ma che ha alle spalle storie diverse di appartenenza, di affetti, di passioni e di culture che già a loro volta, ben al di là del rapporto economico, hanno tentato di mantenerne intatta la presenza e di cancellarne per molti casi la dispersione in un imprecisato altrove. Dei ritratti, si diceva, che iniziano il ricco percorso. Come quello di Maria Luisa Gabriella di Savoia da bambina, ad opera di Louis-Michel van Loo, appartenuto ad una importante dinastia di pittori di origini olandesi, al seguito del padre nei vari viaggi professionali, da Torino a Roma e a Parigi, non ancora trentenne al servizio della corte sabauda per lasciare le fattezze di principi e principesse, ancora ritrattista a Madrid e in maniera definitiva alla corte di Luigi XV. Il quadro offre tutta l’impertinenza della principessina che tra eleganti abiti e un piccolo bosco alla sue spalle stringe un verde pappagallo ansioso di recuperare la propria libertà. O ancora il ritratto di Maria Giuseppina di Savoia, contessa di Provenza dovuto a François-Hubert Drouais (anch’egli legato alle corti europee, ci ha tramandato la Pompadour e la du Barry), sguardo educato e rispettoso, rosa tra le mani e velluto rosato attorno al collo forse a cercare di nascondere quella poca pulizia di cui a corte si vociferava e che il sovrano Luigi XV stigmatizzava nelle lettere scritte al di lei consorte, affinché la regale dama si lavasse un po’ meglio almeno quando doveva frequentare pranzi e balli. Accanto a quel Trionfo della Virtù che dicevamo strappato al museo parigino, importanti ancora del Ladatte le Allegorie dell’Inverno e dell’Autunno (da Parigi nel 2014), mentre prezioso biscuit degli anni 1790/1800 proveniente dalla manifattura di Meissen è La venditrice di amorini, ricavato da un dipinto pompeiano (fu proprietà di Galeazzo Ciano), una coppia di giovani ragazze nell’intento di scegliere gli amori che una fattucchiera presenta loro, estraendoli da un leggero colonnato circolare.

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Da osservare con attenzione i tanti esempi delle miniature che affollano angoli delle sale, vedute e paesaggi di anonimo come di Moreau e di Giuseppe Bison, le nevi e gli alberi di Angelo Cignaroli, i personaggi eleganti e impreziositi che ci accompagnano nella prima metà dell’Ottocento, donne, giovani uomini, gruppi familiari, dovuti all’acclamato Jean-Baptiste Isabey, a Jacques Le Gros, a Hyacinthe Mercier. Come nelle teche esplodono da un mondo antico le altre porcellane di Meissen – esempi montati su bronzo dorato guarnito di fiori in porcellana di Vincennes -, candelieri a più luci (quello in bronzo dorato, su modello di Juste-Aurèle Meissonier, rischiava di restare all’estero, mentre adesso, dopo il suo acquisto a Parigi nel 2016, è tornato nuovamente a Torino), coppie di doppieri, bouquet con scene pastorali, centrotavola, vasi, pot-pourri; e ancora pendole (quella detta “all’elefante”, attribuita a Jean-Joseph de Saint-Germain, maître fondeur dal 1748), orologi da tavolo o da mensola (di manifattura francese, della metà del XVIII secolo, frutto di una donazione, un orologio in bronzo, osso e smalti), argenterie e candelieri – di fattura napoletana o francese -, la maiolica torinese con i cinque vasi dell’Ardizzone. Come s’impongono gli esempi di porcellana cinese, della dinastia Qing, primo quarto del XVIII secolo o quella denominata “famiglia rosa”, della dinastia Qing, tarda Era Qianlong, 1736-1795).

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Arrivando ai preziosi esempi di ebanisteria che si ammirano in mostra, davvero eccezionali le opere che ancora una volta dimostrano il genio del torinese Pietro Piffetti (1701 – 1777), nominato a trent’anni ebanista di corte, fino alla morte artefice, con preziose tarsie, dell’arredamento di corte, tra Palazzo Reale e Venaria, tra la Villa della Regina e Stupinigi. Il cofano-forte, 107 cm. di altezza, intarsiato di palissandro, pruno e avorio, risalente al 1750-1770 e acquistato da Sotheby’s nel 2013, appartenuto a Beatrice di Savoia all’interno della sua villa di Città del Messico; uno scrittoio databile al 1770 circa, un tavolo da centro o “buffetto” (del 1745 circa, Pietro Accorsi lo vendette all’inizio degli anni Quaranta a una signora della buona borghesia torinese, legata da una più che intima liaison al più importante industriale torinese: quando questi morì, se ne volle disfare e Accorsi lo riacquistò, secondo un patto tra i due, all’antico costo di vendita) e una coppia di armadi pensili, databili tra il 1735 e il 1740 (uno dei due in prestito alla Venaria per la prossima mostra sul Piffetti), legno tartaruga e avorio, due grandi medaglioni ad intarsio sulle ante, provenienti dalla casa di un’agiata coppia di coniugi torinesi e da questi conservati con affettuosa passione, un tempo segnalati come appartenenti alla scuola e oggi giudicati come opera propria del Maestro.

 

Elio Rabbione

 

 

Nelle foto: 

Manifattura di Meissen (modello di Christian Gottfried Jüchtzer), La Venditrice di Amorini, 1790-1800, biscuit

Louis-Michel van Loo (Tolone, 1707 – Parigi, 1771), Ritratto di Maria Luisa Gabriella di Savoia da bambina, 1773, olio su tela

Pietro Piffetti (Torino, 1701 – 1777), Cofano-forte, 1750-1770, legno e avorio.

Pietro Piffetti (Torino, 1701 – 1777), Coppia di armadi pensili, 1735-1740, legno, tartaruga e avorio

Manifattura francese, Bouquet con scena pastorale, 1747-1749, Porcellana di Meissen montata su bronzo dorato guarnito di fiori in porcellana di Vincennes

L’occhio magico di Carlo Mollino

OLTRE 500 IMMAGINI IN MOSTRA DA “CAMERA” A TORINO

FINO AL 13 MAGGIO

Realizzati (in imponente quantità) nell’arco di un quarantennio, in mostra troviamo scatti fotografici che ci raccontano della genialità e dell’eclettico talento di un artista e di un uomo che in vita fu proprio tante tante “cose”. Fra i più noti e celebrati architetti italiani del Novecento, ma anche ardito designer e scrittore e intrepido pilota automobilistico amante del brivido della velocità, nonché aviatore, sciatore e (appunto) fotografo, autore di scatti ribollenti di bizzarre intuizioni, Carlo Mollino (Torino, 1905 – 1973) è ricordato dalla torinese Camera – Centro Italiano per la Fotografia- con una personale che mette insieme oltre 500 immagini, molte delle quali inedite e provenienti dalle Collezioni del Politecnico torinese, Archivi Biblioteca Gabetti e Fondo Carlo Mollino. Curata da Francesco Zanot, la rassegna è la più grande e completa mai realizzata sul tema ed evidenzia a fondo il ruolo privilegiato riservato dall’artista alla fotografia, vista sia come fondamentale strumento di documentazione del proprio lavoro, sia come originale e personalissimo mezzo espressivo, “occhio magico” del proprio vivere quotidiano. Figlio d’arte, Mollino si imbatte e si invischia a tutto corpo nella fotografia fin da bambino, trafficando fra negativi, macchine fotografiche e pellicole da sviluppare, nella camera oscura ricavata dal padre Eugenio (ingegnere, anche lui appassionato fotografo) nella villa di famiglia a Rivoli. Dai primi scatti alle esperienze della maturità, la pura passione diventa per lui – passando fra i canoni obbligatori della tradizione agli slanci di una sperimentazione che ne fortifica l’immaginario espressivo – atto creativo in cui regole e coscienza critica dettano leggi e riflessioni che lo conducono a pubblicare nel ’49 “Il messaggio della camera oscura”, colossale e – in quegli anni- fondamentale volume per la definitiva consacrazione e accettazione della fotografia fra le arti maggiori. Una dovuta “promozione” frutto di riflessioni e teoremi che ben si riflettono nelle quattro sezioni tematiche (impossibile seguire un criterio cronologico, data la vastità delle immagini esposte) in cui si articola la rassegna di Camera. In “Mille case” – titolo della prima- gli scatti raccontano il mestiere dell’architetto, il tema dell’abitare, con le immagini degli interni e dei primi edifici progettati fra gli anni Trenta e Quaranta, fra cui la casa della Federazione degli Agricoltori a Cuneo e la “mitica” sede della Società Ippica Torinese, progettata e realizzata nel ’40, incautamente demolita dal Comune nel ’60 per scaduta concessione (oggi sull’area sorge il Liceo Classico “Alfieri”) e di cui la mostra presenta un fotomontaggio –prima versione del moderno photoshop? – realizzato con l’amico fotografo Riccardo Moncalvo. Nella stessa sezione troviamo anche still-life di oggetti domestici di sua creazione e una serie di istantanee riprese durante i suoi viaggi: dalle case in legno e paglia della campagna rumena al Guggenheim Museum di Frank Lloid Wright a New York, dai mulini olandesi alle vedute di Chandigarh, la “City Beautiful” dell’India settentrionale nata dal piano urbanistico disegnato da Le Corbusier. Di ispirazione surrealista e dada, la più libera e imprevedibile dell’intera mostra, è sicuramente la seconda sezione. A partire dal titolo: “Fantasie di un quotidiano impossibile”. Per ribadire ciò che spesso affermava lo stesso Mollino: “Tutto è permesso, fatta salva la fantasia”. Ecco allora immagini di vetrine che tanto avrebbe amato il “fotografo di Parigi” per eccellenza Eugène Atget (prediletto da Man Ray, suo vicino di studio a Montparnasse), oggetti e specchi dalle rare misteriose qualità, fotografie di altre fotografie, i singolari Draghi da passeggio fino alle preziose immagini tratte dalla pubblicazione “Occhio magico” (da cui il titolo della mostra), voluta dallo stesso Mollino e di cui uscirono solo quattro numeri fra il ’44 e il ’45. All’uomo-artista amante della velocità coraggiosamente e indifferentemente praticata alla guida di un’auto da corsa o di un aereo o sugli sci (Mollino fu anche direttore della Coscuma – Commissione delle scuole e dei maestri di sci) è invece dedicata la terza sezione della rassegna. Titolata alla “Mistica dell’acrobazia”, riunisce fotografie che lo immortalano in passioni sportive da dinamico superman che lo porteranno a progettare (insieme a Mario Damonte e a Enrico Nardi) il famoso “Bisiluro”, automobile con cui partecipò nel ’55 alla “24 ore di Le Mans”. Di 180 fotografie è infine composta la quarta e più ampia sezione “L’amante del duca”, con le famose polaroid dei ritratti femminili (spesso e volentieri “donnine discinte” o di antica postura statuaria) e gli sciatori. In entrambi i casi, prevale l’esercizio di stile, la grammatica dell’artista scrupolosamente attento al controllo della posa, alle sinuose curve degli sci sulla neve e all’ossessiva e armoniosa ripetizione dei gesti.

Gianni Milani

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“L’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934 – 1973”

Camera – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 18, Torino; tel. 011/881150; www.camera.to Fino al 13 maggio

Orari: lun.- merc. –ven.- sab.-dom. 11/19 – giov. 11/21; mart. chiuso

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Le immagini:

– Carlo Mollino: “Mimì Schiagno”, 1952 – ’60 ca.

– Carlo Mollino e Riccardo Moncalvo: “Società Ippica Torinese”, fotomontaggio, 1941

– Carlo Mollino: “Stazione-Albergo al Lago Nero, Sauze d’Oulx”, 1947 ca.

– Carlo Mollino: “Lina Suwarowski”, 1936 -’39 ca.

– Carlo Mollino: “Ritratto (senza titolo)”, 1956 – ’62 ca.

– Carlo Mollino: “Leo Gasperl”, anni ’40