Alla Palazzina di Caccia di Stupinigi, il “viaggio estroso e colorato” nella vita del mito indiscusso della Pop Art. Fino al 31 gennaio 2021
Altroché un quarto d’ora di celebrità! “Nel futuro- diceva lui – ognuno sarà famoso per quindici minuti”. Profezie o pillole di profezia. Non semplice boutade. Ma icone di pensiero buttate lì da un’autentica icona vivente.

A pronunciarle Andy Warhol, padre universalmente riconosciuto della Pop Art, che di fama ne ha invece macinata in quantità indescrivibile nei suoi cinquantotto anni di vita, continuando tutt’oggi, a poco più di trent’anni dalla scomparsa, ad esserne compagno fedele, al di là dei tempi, delle mode e in barba ai flussi implacabili dell’oblio. Secondo artista, pare, più comprato e venduto e quotato al mondo dopo Pablo Picasso, a Andy Warhol (Pittsburgh 1928 – New York, 1987, ultimogenito dei tre figli di modesti immigrati originari di Mikovà, paese dell’odierna Slovacchia), la “Palazzina di Caccia” di Stupinigi dedica, fino al 31 gennaio del 2021, la mostra evento “Andy Warhol é…Superpop”, promossa da “Next Exhibition” e “Ono Arte”, con il patrocinio della “Città Metropolitana Torino”.
Per la prima volta nel capoluogo piemontese, si tratta di un’esposizione unica, volta non solo a raccogliere un congruo numero delle più importanti e note opere di Warhol, ma anche a tracciare uno sguardo intimo e curioso di uno degli artisti simbolo del secolo scorso. Oltre settanta le opere ufficiali raccolte per l’occasione fra fotografie, serigrafie, litografie, stampe, acetati e ricostruzioni fedeli degli ambienti e dei prodotti che Warhol amava e da cui traeva ispirazione. Il percorso espositivo si apre con l’atmosfera degli anni Cinquanta e Sessanta, in cui si raccontano le sue prime importanti esperienza come grafico pubblicitario (lavorando per riviste come “Vogue” e “Glamour”) per poi passare alle opere seriali, dai colori alterati vivaci e forti, icone senza tempo, da “Marylin”, a “The Self Portrait”, a “Mao Zedong” fino a “Cow” e alla celeberrima “Campbell’s Soup”. Ripetizione e serialità. Provocazione. L’idea di un’arte da “consumarsi” come un qualsiasi altro prodotto commerciale. In bella vista nelle sale di un Museo o sugli allettanti scaffali di un qualsiasi centro commerciale.
Del resto, affermava “non è forse la stessa vita una serie di immagini, che cambiano solo nel modo di ripetersi?”. Di grande interesse e suggestione, accanto agli acetati e alle lastre serigrafiche da cui prendevano corpo le sue stampe, sono anche le foto in bianco e nero del fotografo Fred W. McDarrah (Ney York 1926 – 2007) che con i suoi scatti documentò la nascita dell’Espressionismo Astratto e della Beat Generation e che, per oltre trent’anni, immortalò Warhol, non solo attraverso le sue opere ma anche sotto l’aspetto più intimo e umano, all’apice della carriera circondato dalle scatole del detersivo “Brillo”, durante l’inaugurazione di una sua personale, o mentre gira una delle sue pellicole sperimentali (il cinema e la musica, altre sue grandi passioni) o ancora, anni dopo, intento a una delle sue attività preferite: una telefonata. In mostra troviamo anche una replica delle “Silver Clouds”, un’installazione composta da palloncini che fluttuano a mezz’aria circondando il visitatore, creata per la prima volta nel 1966 alla “Leo Castelli Gallery”, dove McDarrah documentò il processo di allestimento.
E come poteva mancare l’Andy comunicatore e istrionico? Primo attore in occasione di vernissage (“Andrei all’inaugurazione di qualsiasi cosa, anche di una toilette”) o intento a far bisboccia in chiassosa compagnia nei locali di maggior tendenza degli States o accogliente padrone di casa nella sua “Silver Factory”, l’ampio locale al quarto piano di un’ex fabbrica di cappelli sulla 47^ strada, l’“open house”, la “fabbrica” dove l’artista produceva la gran parte del suo lavoro, ma anche quartier generale, luogo di ritrovo per un mondo di “originali” che lì si riunivano per rincorrere i principi della Pop Art come stile di vita. Senza pregiudizi, fra attori, drag queen, musicisti e innumerevoli personaggi dello “Star System”, alla sua corte Warhol accolse e lanciò verso i lidi del successo un nutrito gruppo di Superstar, dai “Velvet Underground” a Edie Sedgwick e a Candy Darling. Il tutto in un’atmosfera sospesa fra sogno e realtà, chiasso, musica e colori, intorno a quello storico “divano rosso”, ricreato nella copia esatta esposta alla Palazzina di Stupinigi, su cui posero le nobili terga artisti come Lou Reed, Bob Dylan, Truman Capote e Mick Jagger. A chiudere il percorso gli scatti del fotografo americano (di origini croate) Anton Perich ai visitatori della “Factory” e le testimonianze di Keith Haring e Jean-Michel Basquiat (il “James Dean dell’arte moderna”), fra i più importanti esponenti del graffitismo americano ed eredi per eccellenza dell’arte del grande Maestro.
Gianni Milani
“Andy Warhol é…Superpop”
Palazzina di Caccia, piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi (Torino); tel. 375/5475033 o www.warholsuperpop.it
Fino al 31 gennaio 2021
Orari: mart. – ven. 10/17,30, sab. – dom. 10/18,30

Nelle foto


Fra diario intimista, documento storico e biografia, è un libro intenso vissuto sulla propria pelle e nel profondo della propria carne, quello scritto – alla luce di rigorose indagini storiche – da Bruno Avataneo sulla sua famiglia materna di origine, i Castelletti di Mantova. Torinese, classe ’51 e cuneese d’adozione, lo scrittore (che ha lavorato a lungo nel settore della formazione professionale e da tempo si dedica, sollecitato da particolari eventi e situazioni famigliari, allo studio della presenza ebraica a Mantova nel corso dei secoli) presenterà il libro, dal titolo “Le ossa affaticate di Salomon Castelletti”, il prossimo venerdì 30 ottobre, alle 18, nei locali della Soms, ex Società operaia di mutuo soccorso oggi sede dell’Associazione culturale “Progetto Cantoregi”, in via Carlo Costa a Racconigi. A dialogare con lui sarà Alberto Cavaglion, storico e letterato, docente di “Storia dell’ebraismo” all’Università di Firenze e fondatore nel 2015 a Cuneo della Biblioteca e Centro Studi sugli ebrei in Piemonte “Davide Cavaglion”. L’incontro sarà accompagnato dalle letture di Irene Avataneo. Ed è lo stesso Cavaglion a precisare nella Prefazione: “Non è un libro di memorie, anche se è costruito sulla memoria…Se mai ci troviamo davanti a una ‘autobiografia riflessa’, fondata su una rigorosa ricerca archivistica. E’ a suo modo un (copioso) diario intimo compilato con voci (e carte) altrui, per interposte (e assai numerose) persone”.
Poi la scoperta del grande rotolo di carta…
Diciannove spazi concepiti secondo un nuovo iter espositivo “che intende restituire la centralità all’opera d’arte”. E un look decisamente rinnovato, con ambienti ridisegnati e ridefiniti “per permettere il confronto e consentire il paragone necessario tra opera e opera”: dal 26 settembre scorso alla GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino va in scena il nuovo allestimento del Novecento storico – fra nuove acquisizioni e opere che riemergono dal caveau, le preziose “stanze del tesoro” come le chiamava il grande fotografo Mauro Fiorese – curato dallo stesso direttore del Museo di via Magenta, Riccardo Passoni.
Centenario dell’Unità d’Italia) e alla sua forte influenza, anche attraverso gli studi di Lionello Venturi, proprio sugli artisti subalpini dell’epoca.
un Museo. Guarda caso, proprio alla nostra GAM. Dove troviamo la totale anarchia estetica e l’uso libero di materiali, i più eterodossi, di Pier Paolo Calzolari, Mario Merz, Giuseppe Penone via via fino a Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio. Sale personali sono infine e doverosamente dedicate, per il ruolo da loro svolto nell’indicare strade nuove e magistrali nell’evoluzione del percorso artistico nazionale e internazionale, a Felice Casorati, ad Arturo Martini, ad Alberto Burri e a Lucio Fontana. Autentiche chicche, poste in lodevole evidenza dal nuovo allestimento espositivo, il ciclo narrativo “favolistico” della “Gibigianna” dell’albese Pinot Gallizio e l’apparente fragilità del “Requiem” di Giulio Paolini, artista che ha saputo saggiamente indicarci “l’esigenza di mantenere sempre un rapporto necessitante con la storia dell’arte, i suoi segni e richiami, e il loro valore per una vivificazione concettuale della forma”.
L’anno seguente Alighiero Boetti (Torino, 1940 – Roma, 1994), fra i grandi nomi dell’Arte Povera e in seguito di quella Concettuale, si era concentrato sulla “reiterazione del gesto”, fra ossessione e meditazione Zen, sulle orme di quella curiosità per l’esotismo in generale, ereditata dall’avo Giovan Battista Boetti (1743 – 94), missionario demenicano di Mossul, convertitosi all’esoterismo persiano e al sufismo. Ne era nata l’opera “Cimento dell’armonia e dell’invenzione”, paziente ricalco a matita di numerosi fogli di carta quadrettata, una sorta di rituale eseguito registrando i suoni prodotti. Esperienze basilari e di svolta per l’eclettica produzione artistica di Boetti, esaltate dall’invito di Schum, che l’artista accettò trovando ancor più nella produzione video la strada idonea per accentuare quel “tema del doppio”, la ricerca dell’identità e della scissione di sé, che diventerà tema centrale del suo essere artista, del suo essere a un tempo operatore e oggetto del fare arte. Situazione che s’appalesa nitidamente nei video realizzati da Boetti e in visione, fino al 21 febbraio del prossimo anno, alla GAM di Torino, come terzo appuntamento del ciclo espositivo, a cura di Elena Volpato, nato dalla collaborazione fra l’“Archivio Storico della Biennale di Venezia” e la “VideotecaGAM”. “Ogni oggetto del mondo – affermava Boetti – ha almeno due vite”, cui riferirsi e confrontarsi sul piano artistico. Ma anche esistenziale e filosofico. Concetto tanto forte da indurlo a sdoppiare il proprio nome in “Alighiero e Boetti”, mettendo in crisi l’identità dell’artista stesso. “Alighiero – spiegava ancora l’artista – è la parte più infantile, più estrema, che domina le cose famigliari. Boetti, per il solo fatto di essere un cognome, è già un’astrazione, è già un concetto”. Doppia identità, intreccio di vite inscindibili l’una dall’altra. Messaggio chiave del primo video presentato in mostra, “Senza titolo” del 1970, parte della raccolta “Identifications” di Gerry Schum. Boetti volge le spalle alla telecamera e il suo corpo è trasformato in un “segno nero verticale” sul muro bianco posto al centro dell’inquadratura. Le sue mani iniziano a scrivere contemporaneamente, verso destra e verso sinistra, la sequenza dei giorni della settimana, a partire dal giovedì fin dove la lunghezza delle braccia aperte gli consente di arrivare. “In un’unica azione Boetti intreccia il tempo e il doppio, i due aspetti fondamentali del linguaggio video e al contempo del suo lavoro”. Negli stessi mesi aveva realizzato un’immagine fotografica di sé scattata dall’alto, “Due mani e una matita”, in cui stringe una matita posata sul bianco del foglio, “come
apice di un triangolo da cui lasciar scaturire il mondo”. E immagine che, in doppia riproduzione, avrebbe caratterizzato molte sue opere successive; posta, in forma rovesciata, in alto e in basso “come a chiudere e ad aprire lo spazio immaginativo del foglio o della tela”. L’ossessione del “doppio”. Che Boetti vuole trasmettere anche in uno dei suoi più noti ritratti fotografici: “Strumento musicale” del 1970, scattato da Paolo Mussat Sartor e presente in mostra. L’artista vi appare con le mani posate sui due manici simmetrici di un curioso banjo ambidestro che con la sua cassa circolare e il doppio ponticello circoscrive al centro della visione un ideale ombelico sonoro da cui si immagina possano scaturire due diverse musiche speculari, “due flussi di suoni che si dipartono dall’abisso del tempo”. In chiusura, la rassegna presenta il video “Ciò che sempre parla in silenzio è il corpo”, realizzato da Boetti nel 1974 e parte delle raccolte dall’“Archivio Storico della Biennale” di Venezia. L’opera offre, a quattro anni di distanza, una riflessione speculare del primo video, mutandone esclusivamente la frase scritta dall’artista. Che affermava: “È incontrovertibile che una cellula si divida in due, poi in quattro e così via; che noi abbiamo due gambe, due braccia e due occhi e così via; che lo specchio raddoppi le immagini; che l’uomo abbia fondato tutta la sua esistenza su una serie di modelli binari, compresi i computer; che il linguaggio proceda per coppie di termini contrapposti. […] È evidente che questo concetto della coppia è uno degli elementi archetipi fondamentali della nostra cultura”.
