CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 562

I matti esistono!

C’erano una volta i matti
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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8 I matti esistono!
La stampa italiana svolse un ruolo decisivo nella denuncia delle disumane condizioni in cui si trovavano le persone recluse nei manicomi. Grandi firme del giornalismo si schierarono contro tali orrori: Indro Montanelli, Dacia Maraini, Carlo Casalegno, Natalia Aspesi, Camilla Cederna. Anche oltre confini intellettuali di spicco si sentirono obbligati a inserirsi nella lotta, come Jean-Paul Sartre e Noam Chomsky, perfino il “The Times”, nel 1965, pubblicò un articolo dettagliato sulle drammatiche condizioni dei manicomi italiani, il pezzo era firmato Peter Nichols. Lo scandalo stava piano piano venendo fuori, ma ci volle l’inchiesta di Angelo Del Boca per infastidire la coscienza reticente dell’opinione pubblica. Il giornalista, storico e scrittore, scrisse un servizio sulla “Gazzetta del Popolo” fra l’aprile e il giugno 1966 dal titolo emblematico “Manicomi come lager. Centomila ostaggi da liberare”, in cui, con pungente sarcasmo, invitava i connazionali “generosamente commossi alla fame dell’India a prendere coscienza del dramma dei manicomi a casa nostra”. L’inchiesta-choc viene pubblicata anche su altri giornali, e non si può più far finta di niente. Anche la televisione interviene insinuandosi tra i gelidi corridoi dei manicomi; il reportage più significativo è quello realizzato il 3 gennaio del 1969 da Sergio Zavoli, dal titolo “I giardini di Abele”, all’interno del programma TV7, in onda subito dopo il Carosello, girato nel manicomio di Gorizia. La telecamera fa in modo che nelle case degli italiani si proiettino immagini terribili di uomini e donne fantasma, facce svuotate, spettri che si aggirano per cortili spogli e sporchi, infagottati in abiti grotteschi, la TV fa vedere uomini che legano altri uomini, mani che stringono mazzi di chiavi che serrano improvvisamente porte e finestre. Il servizio è commentato dalla stessa voce di Sergio Zavoli che dice: “si è detto che gli alienati vengono trattati più duramente degli altri ammalati perché sono uomini senza difesa e quindi senza voce e senza diritti. Che nel mondo dei sofferenti equivalgono ai negri, agli indigeni, agli apolidi, ai sottoproletari, agli ebrei e come tali sono spesso vittime di pregiudizi e privazioni”. Le parole del giornalista suonano come un’accusa collettiva e vergognosa, dalla quale è difficile difendersi. Anche la fotografia si fa portavoce dell’ingiustizia, Gianni Berengo Gardin, Carla Cerati, Uliano Lucas, Ferdinando Scianna e molti altri fotografi realizzano reportage-choc all’interno dei manicomi, scavalcando mura che parevano insormontabili e mostrando situazioni che non dovevano essere mostrate. Tra le tante ignobili condizioni che vengono scoperchiate c’è anche quella di via Gulio. Nell’anno 1965 “La Stampa” pubblica un articolo su quello che accadeva all’ “albergo dei tre pini”: “Il manicomio di via Giulio è un obbrobrio indegno degli uomini e della civiltà. È incredibile che in una città come Torino che si ritiene all’avanguardia del progresso e in una provincia come la nostra, che vanta antiche tradizioni in campo assistenziale e sociale, sia tollerata la presenza di un’opera che era già inadeguata cent’anni fa. La sede di via Giulio è un’accozzaglia di letti, distanti una spanna l’uno dall’altro, dove c’è posto per 600 persone e le ospiti sono 900. Dove si respira un lezzo insopportabile, dove la luce piove nelle camerate, in cui le pazze sostano tutto il giorno per mangiare e per vivere, da lucernari a mezza luna che non consentono il ricambio dell’aria. Dove i 30 uomini addetti ai servizi comuni dell’ospedale –pazzi tranquilli ma comunque malati- sono costretti a dormire nei seminterrati tra gli scarafaggi.” La gente fuori si trovava costretta a sbarrare gli occhi per vedere cosa accadeva dentro quelle mura che censuravano una realtà troppo scomoda anche solo da immaginare.  Anche la situazione a Collegno era disastrosa: “Il manicomio è tutto da rifare o da demolire. Per la sua struttura è addirittura impensabile di potervi praticare la psicoterapia o la socioterapia. Ci sono sezioni con 150 pazienti. Sezioni piene di vecchi che avrebbero bisogno solo di un’assistenza generica, ma che nessuno li vuole e finiscono qui. Ne vediamo a centinaia, distesi sui loro letti oppure sulle panche in giardino. Sono tranquilli, rassegnati, silenziosi. Nessuno si occupa più di loro. Per la società non rappresentano che alcune modiche rette da pagare, un mazzo di “fiches” in questura, alcuni mendicanti “molesti” di meno per le strade. Qualcuno di loro, però, ogni tanto si ribella e trova, per esprimere la sua protesta, energie impensabili. È il caso del vecchio che troviamo legato al letto, polsi e caviglie chiusi nei ceppi. È un grande vecchio, magro ma dotato di una ossatura imponente, i capelli ancora scuri, gli occhi che ci fissano adirati. L’infermiere sostiene che è “violento, e che spesso picchia i compagni.” All’epoca i manicomi di Collegno, Torino, Grugliasco e Savonera rinchiudevano tra le loro mura malati di mente e semplici emarginati, uomini e donne senza voce e senza difese, scaricati dalla società come zavorra e nella più totale indifferenza. Per la maggior parte erano anziani, allontanati dalle famiglie, rifiutati dalle case di riposo perché non più autosufficienti, una volta stavano al Cottolengo poi presero ad affollare i manicomi. Gli anni Sessanta videro l’immigrazione di massa dovuta all’ irrefrenabile processo di crescita dell’industria automobilistica FIAT e in particolare Torino era diventata una metropoli di oltre un milione di abitanti. Nelle fabbriche vi erano decine di migliaia di operai immigrati dal Sud, in gran parte ex contadini usciti malamente dallo scontro con la civiltà industriale; i dipendenti erano più lavoratori-macchine che semplici addetti alle linee di montaggio. I ritmi di lavoro uniti al disagio di ambientamento avevano fatto sì che nel 1965, 1579 lavoratori venissero internati nei manicomi torinesi, di questi il 37% erano operai, il 28% casalinghe, il 9% agricoltori e il 3% professionisti. Questo tipo di alienazione portò tra il 1957 e 1970 a 33 suicidi per impiccagione. Il fatto venne così commentato da un paziente :” (…) comunque, 33 impiccati in 13 anni! Ha fatto concorrenza al Rondò della Forca in tutta la storia del Rondò della Forca.”

Alessia Cagnotto

Leonidas Kavakos e Sol Gabetta le stelle di marzo

Venerdì primo marzo alle 20.30 all’Auditorium Toscanini, concerto dell’Orchestra Rai diretta da William Eddins con Simone Rubino alle percussioni e il Janoska Ensemble
Martedì 5 alle 20, al Teatro Vittoria, per la stagione dell’Unione Musicale, Pedro Robert Toronal , Dong Yang Xing e allievi ed ex allievi del Conservatorio, eseguiranno musiche di Schumann. Mercoledì 6 alle 21 al Conservatorio, Emanuele Arciuli al pianoforte eseguirà musiche di Schonberg, Haydn, Liszt, Berg, Debussy, Castelnuovo-Tedesco. Giovedì 7 alle 20.30 e venerdì 8 alle 20, all’Auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Edward Gardner e con Anna Caterina Antonacci mezzosoprano, eseguirà musiche di Janàcek, Berlioz e Mahler. Martedì12 alle 20 al Teatro Regio, per la Stagione d’opera, debutto di “Agnese”, dramma semiserio in 2 atti, musica di Ferdinando Avater L’Orchestra del Teatro sarà diretta da Diego Fasolis. Repliche fino a domenica 24. Martedì 12 alle 20 al Teatro Vittoria, verrà eseguito l’integrale dei lieder di Schubert. Mercoledì 13 alle 21 al Conservatorio, per la stagione dell’Unione Musicale, Massimo Polidori al violoncello, eseguirà le suites per violoncello solo n.1. n.3. n.5 di Bach. Giovedì 14 alle 20.30 e venerdì 15 alle 20, all’Auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Costantinos Carydis e con Sol Gabetta al violoncello, eseguirà musiche di Guiraud Lalo, Korsakov. Lunedì 18 alle 20 al Teatro Vittoria, Archicembalo Il Modo Italiano, eseguirà musiche di Vivaldi e Handel. Mercoledì 20 alle 21 al Conservatorio, per la stagione dell’Unione Musicale, Leonidas Kavakos al violino e Enrico Pace al pianoforte, eseguiranno un programma ancora da definire. Giovedì 21 alle 20.30 e venerdì 22 alle 20, l’Orchestra Rai diretta da Juraj Valcuha e con Alexander Malofeev al pianoforte, eseguirà musiche di Dvoràk, Cajkovskij, Rachmaninov.

Sempre giovedì 21 alle 10.30, al Teatro Regio per la stagione d’opera, debutto di Pinocchio opera in 2 atti, musica di Pierangelo Valtinoni. Repliche fino a sabato 23. Sabato 23 alle 20 al Teatro Vittoria, Gabriele Casciano e allievi ed ex allievi del Conservatorio, eseguiranno musiche di Schumann. Martedì 26 alle 20.30 all’Auditorium del Lingotto, la Kammerakademie Potsdam diretta da Antonello Manacorda e con Maximilian Hornung al violoncello, eseguirà musiche di Wagner, Schumann e Brahms. Mercoledì 27 alle 21 al Conservatorio, il Quartetto Belcea, eseguirà musiche di Haydn, Britten e Beethoven. Giovedì 28 alle 20.30 e venerdì 29 alle 20, all’Auditorium Toscani, l’Orchestra Rai diretta da Omer Meir Wellber e con Sarah Jane Brandon soprano , Katija Dragojevic mezzosoprano, Patrick Grahl tenore, Istvan Kovacs basso e il coro Maghini diretto da Claudio Chiavazza, eseguirà musiche di Mozart. Sabato 30 alle 20, al Teatro Vittoria, per la stagione dell’Unione Musicale, il Quartetto Daidalos eseguirà musiche di Webern, Verdi e Schumann.
 

Pier Luigi Fuggetta

Marco Gastini alla Galleria “Persano”

A pochi mesi dalla scomparsa la mostra ricorda il pittore torinese, fra i grandi dell’arte contemporanea italiana

Una ventina di opere inedite, quasi tutte di grandi dimensioni, e una nutrita raccolta di “maquettes”. E’ un omaggio dovuto, quello che Giorgio Persano dedica fino al prossimo 14 maggio, negli ampi spazi della torinese Galleria di via Principessa Clotilde, a Marco Gastini, nato a Torino nel 1938 e a Torino scomparso il 28 settembre del 2018. La mostra era stata infatti concordata da tempo fra lo stesso pittore e l’amico gallerista che oggi concretizza l’idea ripercorrendo, attraverso l’esposizione di opere fortemente significative, l’avventura artistica di uno dei più grandi e “instancabili” ed estrosi (di quell’estrosità coi piedi ben piantati a terra che guarda sempre alla concretezza del mestiere) artisti italiani del secondo Dopoguerra. Dagli anni ’70 ad oggi. Alle spalle – ma mai del tutto dimenticata – l’esperienza informale e gli impulsi ansiogeni anziché no del post-informale (dall’Arte Povera allo Spazialismo di Fontana via via fino al Minimalismo occhieggiante ai Paolini ai Griffa così come ai Castellani), gli anni rappresentati in mostra alla “Persano” sono quelli legati al periodo “analitico” di Gastini – la tela bianca, il “poverismo” cromatico e segnico, il gesto di esile incisività – e a seguire, in moti di andata e ritorno inaspettati e improvvisi, gli anni prepotentemente attratti dall’esplosione della materia (dal legno al ferro al carbone alle terrecotte o all’ardesia) “graffiata” dall’irrequietezza di un colore (il suo amato “blu” soprattutto) che pare condurre l’opera all’invasione e al recupero degli spazi esterni. Sono pagine, sempre, di profonda emozione, espressione passionale di una grande creatività appartenuta a un grande giocoliere dell’arte che ha saputo cavalcare con piena levità e senza imbarazzo alcuno le grandi scuole del Contemporaneo, restando sempre fedele a un’indipendenza di stile e d’intelletto che risiedeva soprattutto, come ebbe a scrivere qualche anno fa Marcella Beccaria “nel rigore – direi quasi nell’orgoglio – con cui ha sempre pensato a sé stesso come a un ‘pittore’, scegliendo di continuare a stare dalla parte della pittura anche in anni caratterizzati da un dilagante rifiuto culturale della stessa, come teoria e come pratica”. Attenzione, però: “Pittura che non dev’essere – annotava lo stesso Gastini– catalogabile, che deve sbilanciare per essere vera e che deve sfuggire alle intenzioni, anche alle mie”. Arte in bilico. Perennemente. Arte che non sai mai se abbia appieno esaurito le sue trame o, al contrario, sia solo agli inizi del gioco narrativo. Pittura che vive di movimento e precarietà come nel monumentale “Il sogno respira nell’aire” (1988), una sorta di geniale poderosa pitto-scultura (in cui, come in altre opere, ritorna quell’antico gusto del fare, respirato e assimilato fin da ragazzo nel laboratorio da marmista del padre) esposta per la prima volta in una galleria, carica di impasti cromatici che con violenza aggrediscono il precario (all’apparenza) assemblaggio di carbone, legno e lamiera di ferro, dove i cerchi possono diventare ruote e tracimare e invadere in un baleno l’area d’intorno. Dell’87, è invece “Mentre ancora la polvere muove”: quattro lamiere di rame, gravate dall’opaco nerofumo che pare appena posato sulla superficie luminosa del metallo, e su cui l’artista graffia e incide forme di casuale e semplificata astrazione, che rimandano alla magica primordiale gestualità della pittura rupestre. Materia e ancora materia. Accanto alle tele bianche o madreperlacee di fine anni ’70, sintesi di ricerca fra segno, spazio e “azzeramento cromatico” con quel bianco “che non è mai vuoto”, diceva Gastini; o ancora – e sono le ultime lasciateci dall’artista – tele datate 2018, appena appena sfiorate da leggeri tratti di carboncino o solcate da vigorose geometrie di colore (forme e silhouettes indecifrabili, a volte misteriche) o da ardesie che frantumano i piani, “feriscono e accrescono la materia”. Di grande interesse infine le “maquettes”, portate in rassegna e che Gastini abitualmente realizzava come progetti (ben saldi e concreti, quelli per la Banca d’Alba del 2010) o in forma autonoma, scelte per meglio comprendere lo sviluppo del suo lavoro negli anni. “Un percorso – sottolinea Giorgio Persano – che ci conduce in un viaggio nel tempo e che intende trasmettere, dell’artista e dell’amico, un ricordo vivo e aperto al futuro”.

Gianni Milani

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Marco Gastini
Galleria “Giorgio Persano”, via Principessa Clotilde 45, Torino; tel. 011/835527 o www.giorgiopersano.org
Fino al 14 maggio
Orari: mart. – sab. 10/13 e 15,30/19 
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Photo Pino dell’Aquila – Courtesy Galleria Giorgio Persano

– “Il sogno respira nell’aire”, tecnica mista, carbone, legno e lamiera di ferro su legno, 1988
– “Mentre ancora la polvere muove”, tecnica mista, carbone e legno su rame, 1987
– “Senza titolo”, tecnica mista, carta e terracotta su tela, 2018
– “Senza titolo B”, acrilici, pearl white, conté, grafite e pastelli su tela, 1978

 

Al Parco Dora "Sanremo the story"

La grande mostra che racconta il Festival della Canzone Italiana dal 1951 a oggi in un’avvincente e inedita raccolta di documenti, cimeli, strumenti, dischi e giornali dell’epoca
 
 
Dopo il successo della mostra dedicata all’animazione dei quadri di Claude Monet in 3D, la cultura torna protagonista al Centro Commerciale ‘Parco Dora’, a Torino in Via Livorno angolo via TrevisoQuesta volta, a calamitare l’attenzione del pubblico, è la volta di ‘Sanremo The Story’, una straordinaria e ricca mostra itinerante interamente dedicata al Festival della Canzone Italiana, che ripercorre la storia del Festival di Sanremo sin dalla prima edizione del 1951 fino ai nostri giorni, attraverso l’esposizione di oggetti e video documentari che fissano e narrano con grande emozione i momenti più belli ed entusiasmanti dell’evento più importante del nostro Paese. Un percorso di visita affascinante, visitabile dal 2 al 24 marzo 2019, frutto di un’iniziativa unica nel suo genere capace di trovare un connubio ideale tra modernità, arte e tecnologia. Più di una semplice retrospettiva sulla kermesse canora, rappresenta una visione più ampia di queste 68 edizioni, capace di mostrare anche i diversi aspetti sociali legati all’Italia dell’epoca”, afferma l’Architetto Emanuele Manca, General Manager del Parco Commerciale Dora nonché professionista attento ai fenomeni culturali e del cambiamento in atto. Il percorso emozionale che caratterizza ‘Sanremo The Story’ vanta la presenza di cimeli originali (dischi in vinile, documenti, abiti di scena) del Festival di Sanremo, accompagnati da monitor che proiettano video documentari, su di un’area di 80 metri quadrati che prevedono all’interno, 7 monitor touch ciascuno, predisposto all’ascolto di brani con l’utilizzo di cuffie, un’ampia varietà di teche con 45 e 33 giri originali del Festival di Sanremo e altre con esposti con strumenti musicali originali dell’epoca impiegati durante la kermesse. E ancora, 30 quadri con locandine storiche delle edizioni del Festival, 70 bacheche con all’interno le copertine di ‘Tv Sorrisi e Canzoni’ dedicate alla kermesse, impreziosite altresì da un’insegna luminosa con il popolare logo del noto settimanale di musica e spettacolo. Completano l’offerta culturale 1 monitor touch con viaggio 3d della mostra, e un altro con una selezione accurata di immagini in loop tratte dai momenti migliori della storia degli anni del Festival. ‘Sanremo The Story’ nasce da un’idea di Pepi Morgia, scomparso nel settembre 2011, direttore del ‘Museo della canzone’ e noto per le sua capacità di regista e light designerIl logo, così come il nome ‘Sanremo The Story’, è stato ideato da Silvano Guidone, socio dello storico pubblicitario torinese ‘Armando Testa’. La mostra è visitabile dal lunedì al venerdì dalle 09.30 alle 12.30, e dalle 16.30 alle 19.30. Sabato e domenica dalle 11.00 alle 22.00. Ingresso libero con offerta minima pari a 1 Euro che verrà interamente devoluta per sostenere il progetto ‘Alternanza Scuola Lavoro’ del Liceo Classico Musicale ‘Camillo Benso Conte di Cavour’ di Torino, i cui allievi forniranno il servizio di guida durante gli orari di apertura della mostra.
 
Tutte le informazioni sul sito www.parcocommercialedora.it e sulla relativa pagina FB del Centro Commerciale ‘Parco Dora’.

L'isola del libro

La rubrica settimanale dedicata al mondo dei libri
 
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Alan Parks “Gennaio di sangue” – Bompiani- euro 18,00
Questo è il primo romanzo dello scozzese Alan Parks che, dopo aver lavorato 20 anni nel mondo musicale, ora si affaccia alla narrativa e racconta omicidi e misteri in una Glasgow imbruttita e grigia per la crisi economica e lo squallore che ne deriva. E’ il primo di una serie di 12 noir, uno per ogni mese dell’anno. Ed ecco la trama. Il 1° gennaio 1973, un detenuto pluriomicida avverte il detective Harry McCoy che in città sta per essere uccisa una ragazza. Cosa che puntualmente accade nel bel mezzo di una piazza. Un giovane prima la uccide e poi appoggia la canna della pistola alla sua tempia, chiude gli occhi e si spara. E’ solo l’inizio di una lunga scia di sangue e cadaveri, tra gole tagliate, bordelli ed escort, droghe, ricchezza depravata e perversione. Al centro della narrazione c’è un personaggio antieroe per eccellenza a cui ci si affeziona subito. E’ il poliziotto 30enne Harry McCoy: uomo disilluso, refrattario alle regole, maltrattato dagli altri, ma con un indistruttibile senso della giustizia che ce lo fa amare d’istinto. Ad aiutarlo nelle indagini -tra sopralluoghi, grandi mansion, malavita, case popolari dove sbarcare il lunario è dura fatica- è il novellino Wattie, ultima ruota del carro, ma tenace nel trovare i colpevoli. Da notare che la storia è ambientata in un’epoca in cui non esisteva ancora la polizia scientifica, con tutto l’apparato tecnologico che oggi aiuta a puntare il dito verso il colpevole giusto. Niente Csi o Dna in “Gennaio di sangue”; piuttosto ritroviamo le buone vecchie indagini. Quelle che scandagliano dinamiche e rapporti umani per risolvere intricati rebus col morto.
 
Abraham B. Yehoshua “Il tunnel” – Einaudi-   euro 20,00
E’ l’ultimo romanzo del famoso scrittore israeliano nato nel 1936 e uno dei mostri sacri della letteratura mondiale. Qui racconta dell’ingegnere 73enne Zvi Luria, da 5 anni in pensione, al quale viene diagnosticato un inizio di demenza senile. Piccole dimenticanze, innocue –almeno per ora- distrazioni e qualche confusione. Per rimandare il più possibile l’inevitabile infausto percorso della malattia che corrode il cervello, la moglie Dina – una pediatra di successo con cui ha trascorso tutta la vita- lo incoraggia a riprendere il lavoro. Luria era stato un dirigente del Dipartimento dei lavori pubblici e per 40 anni aveva progettato strade, autostrade e i due tunnel dell’unica autostrada di Israele. Ora che il medico gli suggerisce di mantenersi attivo, si lascia convincere ad aiutare il giovane Assael Maimoni che ha preso il suo posto in ufficio. Sta lavorando al progetto di un tunnel nei pressi di un cratere nel deserto, simbolicamente nel cuore del conflitto tra israeliani e palestinesi. E trascina con sé Luria, in macchina nelle roventi distese di sabbia, per i sopralluoghi che diventano teatro della loro collaborazione, basata su reciproca stima ed affetto. Il grande fascino del romanzo è nell’introspezione dei vari personaggi, nel racconto dei sentimenti alla base dei loro rapporti e nel modo coraggioso di affrontare il declino del bene forse più prezioso che abbiamo, il cervello ovvero la sede di pensieri, azioni, amori….vita.
 
Anna Dalton “L’apprendista geniale” – Garzanti- euro 16,90
Se avete seguito la fiction su Rai 1 “L’allieva” tratta dai romanzi di Alessia Gazzola, avete già conosciuto Anna Dalton, la brillante attrice 33enne che interpreta Cornelia, sorella di Arthur Malcomess e divertente coinquilina di Alice Allevi. Con “L’apprendista geniale” l’attrice italo-irlandese esordisce anche nella letteratura. E lo fa con una storia spumeggiante, fresca, che sa di sogni di gioventù. Protagonista è la giovane Andrea Doyle che, sulla scia materna, progetta di diventare giornalista… e intanto si fa le ossa pubblicando un giornalino, per così dire, di quartiere. Il padre è custode di uno stabile, soldi non ce ne sono molti, ma lei è responsabile, matura, tenace ed ama studiare. Provvidenziale è la borsa di studio che vince e le apre le porte del famoso Longjoy College, prestigiosa -e quasi inarrivabile- scuola di giornalismo. E’collocata in un bellissimo monastero riconvertito, sull’isola dei Santi, nella laguna veneta. Una location affascinante per raccontare l’ingresso e la sopravvivenza di Andrea in un microcosmo competitivo al massimo, in cui vige una selezione durissima. Come se la caverà la brillante fanciulla tra compagne carogne, agguerrite e sleali, ma anche nuovi amici pronti ad accettarla ed aiutarla? Tutta da gustare con tenerezza questa storia che parla di aspirazioni e nuove generazioni alle prese con il futuro.
 

“Madama Reale”, uno sguardo televisivo sugli intrighi alla corte dei Savoia

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Alle autrici francesi Laura Piani e Tara Mulholland va il riconoscimento di 50.000 Euro per sviluppare quel loro progetto – Madama Reale – il cui percorso non è ancor ben delineato, forse non immediato e faticoso, ma che dovremmo vedere sugli schermi televisivi nei prossimi anni

Il successo dei “Medici” ha fatto da apripista e insegna, le varie corone inglesi non sono da meno, e la corte sabauda in quanto a misteri e complotti non ha mai scherzato. Pronti a reclamare per sé una piena attenzione sugli schermi della tivù. Non solo nostrana, ma di tutte quelle europee e oltre che si potranno raggiungere. Piani ha studiato sceneggiatura a Parigi e Roma, ha al proprio attivo titoli e successi, recentemente ha tra l’altro creato una serie in sei puntate per France 2, Philharmonia, ha da poco terminato la stesura di Temps de Chiens e attualmente sta lavorando a una commedia romantica prodotta da The Bureau; Mulholland è nata a Londra e vive a Parigi, traduce e si occupa della revisione di testi cinematografici per varie società di produzione, ha scritto di arte, femminismo e cultura per importanti testate, tra cui The New York Times, Condé Nast Traveller e The Huffington Post. Paolo Tenna, ad di FIP Film Investimenti Piemonte, parla del vincitore – uscito da un bando promosso su scala europea, lanciato nell’autunno del 2017 da Film Commission Torino Piemonte, FIP e Regione Piemonte, che individuasse una vicenda legata alla dinastia sabauda, di alto profilo storico, e che valorizzasse la storia del territorio piemontese e il circuito delle residenze reali: sono stati 247 gli autori che hanno preso parte al contest, presentando un numero finale di 150 concept di serie – come “di un progetto di solido valore editoriale scritto da due talentuose sceneggiatrici francesi”, progetto in pieno sviluppo per la cui produzione sono state interpellate due società pronte ad unire gli interessi francesi ed italiani, “Les Films D’Ici” e la torinese “Lume”. Adesso si tratterà di rintracciare un’interprete appropriata, un regista di piena validità e soprattutto quei canali di coproduzione che possono decisamente tenere alto l’intero progetto. Paolo Damilano, Presidente di Film Commission, parla di “respiro europeo” che circola nel progetto vincitore ed è forse questo il fil rouge immancabile che lo legherà alla figura di Maria Giovanna Battista di Nemours (oggi in bella vetrina nel proprio palazzo di piazza Castello nella mostra, curata da Clelia Arnaldi di Balme e Maria Paola Ruffino, che la vede accanto all’altra Madama, Cristina di Francia). Donna intelligente e ambiziosa, forte e risoluta, legata alle arti e alla cultura, appartenente ad un ramo cadetto dei Savoia, separatosi da quello principale ai primi del Cinquecento, sposa poco più che ventenne Carlo Emanuele II, nel 1665, anche se la prima volontà di Cristina di Francia per il figlio sarebbe stata Francesca d’Orléans, nipote del Re Sole. L’anno successivo dà alla luce il tanto desiderato erede, Vittorio Amedeo: a lui dovrà sostituirsi nella guida del ducato con la morte del marito, per “una febbre terzana doppia ed acuta”. Giovanna Battista è trentunenne, il figlio ha soltanto nove anni. Un rapporto difficile quello successivo tra madre e figlio, e questa lotta per il potere sarà l’anima del racconto televisivo, il suo tessuto, con un figlio che presto mostra tutto il desiderio di esercitare il comando per conto proprio. Giovanna tenterà ancora di far accettare al figlio il matrimonio con l’erede al regno di Portogallo, nell’intenzione non troppo nascosta di pensare ad un varco per i commerci verso l’oceano e verso le terre del sud America, in particolare il Brasile, ma soprattutto per vedere nuovamente liberato un trono che indubbiamente le sta sfuggendo di mano. Non cadrà nella trappola Vittorio Amedeo e la priverà di ogni suo intervento negli affari di Stato. Sarà l’occasione per la duchessa di accrescere i propri interessi nei confronti della città, portando avanti il progetto della “città nuova di Po”, l’ampliamento verso est che ha il suo fulcro nella attuale piazza Carlina, istituendo un nuovo istituto dei prestiti, fondando l’Ospedale di San Giovanni e la nuova sede del Collegio del Gesuiti, delineando il ghetto ebraico. Tra il 1677 e il 1678 fonda tre Accademie, una cavalleresca, l’Accademia Reale, una letteraria e una terza artistica, di pittura e scultura, allargando quegli orizzonti culturali grazie ai quali la corte e Torino potessero entrare in competizione con altre realtà maggiori, Vienna o Parigi ad esempio. “Il contest – sottolinea ancora Antonella Parigi, assessora alla Cultura e al Turismo della Regione – è stato in grado di generare grande interesse, a livello nazionale e internazionale, a conferma del fatto che i temi e le modalità che abbiamo messo in campo hanno incontrato quelli del mondo delle produzioni seriali”.
 

Elio Rabbione

 
 
Nelle foto:
Laura Piani e Tara Mulholland, vincitrici del miglior progetto di serie del contest “I Savoia. La serie”
Giovanni Luigi Buffi (?), “Ritratto equestre di Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours”, terzo quarto del XVII secolo, olio su tela, Palazzo Madama – Museo Civico di Arte Antica, Torino

Una settimana con il "Pannunzio"

Il calendario degli appuntamenti culturali
Venerdì 1° marzo alle ore 17,30, al Centro “Pannunzio” in via Maria Vittoria 35H, Annamaria Tassone Bernardi e Marta Benedetto presenteranno il libro di Pier Giuseppe Pasero “Evoluzione ed universo. Tra scienza e poesia della natura in Teilhard de Chardin”.

Lunedì 4 marzo alle ore 18 lo storico Pier Franco Quaglieni , autore di una celebre guida storica ai Cimiteri di Torino edita dal Comune di Torino, parlerà sul tema: “I grandi personaggi storici sepolti al Cimitero Monumentale di Torino”.

Mercoledì 6 marzo alle ore 17,30 Cristina Santarelli parlerà sul tema: “Il liuto, il vino, l’efebo. Apologia della trasgressione nella poesia persiana classica”.

L’isola del libro

La rubrica settimanale dedicata al mondo dei libri

 

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Alan Parks “Gennaio di sangue” – Bompiani- euro 18,00

Questo è il primo romanzo dello scozzese Alan Parks che, dopo aver lavorato 20 anni nel mondo musicale, ora si affaccia alla narrativa e racconta omicidi e misteri in una Glasgow imbruttita e grigia per la crisi economica e lo squallore che ne deriva. E’ il primo di una serie di 12 noir, uno per ogni mese dell’anno. Ed ecco la trama. Il 1° gennaio 1973, un detenuto pluriomicida avverte il detective Harry McCoy che in città sta per essere uccisa una ragazza. Cosa che puntualmente accade nel bel mezzo di una piazza. Un giovane prima la uccide e poi appoggia la canna della pistola alla sua tempia, chiude gli occhi e si spara. E’ solo l’inizio di una lunga scia di sangue e cadaveri, tra gole tagliate, bordelli ed escort, droghe, ricchezza depravata e perversione. Al centro della narrazione c’è un personaggio antieroe per eccellenza a cui ci si affeziona subito. E’ il poliziotto 30enne Harry McCoy: uomo disilluso, refrattario alle regole, maltrattato dagli altri, ma con un indistruttibile senso della giustizia che ce lo fa amare d’istinto. Ad aiutarlo nelle indagini -tra sopralluoghi, grandi mansion, malavita, case popolari dove sbarcare il lunario è dura fatica- è il novellino Wattie, ultima ruota del carro, ma tenace nel trovare i colpevoli. Da notare che la storia è ambientata in un’epoca in cui non esisteva ancora la polizia scientifica, con tutto l’apparato tecnologico che oggi aiuta a puntare il dito verso il colpevole giusto. Niente Csi o Dna in “Gennaio di sangue”; piuttosto ritroviamo le buone vecchie indagini. Quelle che scandagliano dinamiche e rapporti umani per risolvere intricati rebus col morto.

 

Abraham B. Yehoshua “Il tunnel” – Einaudi-   euro 20,00

E’ l’ultimo romanzo del famoso scrittore israeliano nato nel 1936 e uno dei mostri sacri della letteratura mondiale. Qui racconta dell’ingegnere 73enne Zvi Luria, da 5 anni in pensione, al quale viene diagnosticato un inizio di demenza senile. Piccole dimenticanze, innocue –almeno per ora- distrazioni e qualche confusione. Per rimandare il più possibile l’inevitabile infausto percorso della malattia che corrode il cervello, la moglie Dina – una pediatra di successo con cui ha trascorso tutta la vita- lo incoraggia a riprendere il lavoro. Luria era stato un dirigente del Dipartimento dei lavori pubblici e per 40 anni aveva progettato strade, autostrade e i due tunnel dell’unica autostrada di Israele. Ora che il medico gli suggerisce di mantenersi attivo, si lascia convincere ad aiutare il giovane Assael Maimoni che ha preso il suo posto in ufficio. Sta lavorando al progetto di un tunnel nei pressi di un cratere nel deserto, simbolicamente nel cuore del conflitto tra israeliani e palestinesi. E trascina con sé Luria, in macchina nelle roventi distese di sabbia, per i sopralluoghi che diventano teatro della loro collaborazione, basata su reciproca stima ed affetto. Il grande fascino del romanzo è nell’introspezione dei vari personaggi, nel racconto dei sentimenti alla base dei loro rapporti e nel modo coraggioso di affrontare il declino del bene forse più prezioso che abbiamo, il cervello ovvero la sede di pensieri, azioni, amori….vita.

 

Anna Dalton “L’apprendista geniale” – Garzanti- euro 16,90

Se avete seguito la fiction su Rai 1 “L’allieva” tratta dai romanzi di Alessia Gazzola, avete già conosciuto Anna Dalton, la brillante attrice 33enne che interpreta Cornelia, sorella di Arthur Malcomess e divertente coinquilina di Alice Allevi. Con “L’apprendista geniale” l’attrice italo-irlandese esordisce anche nella letteratura. E lo fa con una storia spumeggiante, fresca, che sa di sogni di gioventù. Protagonista è la giovane Andrea Doyle che, sulla scia materna, progetta di diventare giornalista… e intanto si fa le ossa pubblicando un giornalino, per così dire, di quartiere. Il padre è custode di uno stabile, soldi non ce ne sono molti, ma lei è responsabile, matura, tenace ed ama studiare. Provvidenziale è la borsa di studio che vince e le apre le porte del famoso Longjoy College, prestigiosa -e quasi inarrivabile- scuola di giornalismo. E’collocata in un bellissimo monastero riconvertito, sull’isola dei Santi, nella laguna veneta. Una location affascinante per raccontare l’ingresso e la sopravvivenza di Andrea in un microcosmo competitivo al massimo, in cui vige una selezione durissima. Come se la caverà la brillante fanciulla tra compagne carogne, agguerrite e sleali, ma anche nuovi amici pronti ad accettarla ed aiutarla? Tutta da gustare con tenerezza questa storia che parla di aspirazioni e nuove generazioni alle prese con il futuro.

 

“Green Book” miglior film, a Lady Gaga la statuetta per la miglior canzone

Gli Oscar? Una grande frammentazione, così quasi da non voler scontentare nessuno, un pulviscolo cinematografico come le cinquanta star che si sono avvicendate sul palcoscenico del Dolby Theatre a distribuire premi e a legare numeri e dichiarazioni, al posto del vecchio maestro di cerimonie, più o meno spiritoso,più o meno allentatore di tensioni, che raccoglieva intorno a sé l’intera serata. Certo non è più l’epoca dei titoli che si portavano appresso carrettate di statuette, ma anche tutto quel frazionare non è per molti versi un convincente segnale. Tra dimenticanze ed errori (considerati al gusto personale), tra supremazie inesistenti, tra scelte che badano assai più al politicamente corretto che al squisitamente cinematografico. Se ne torna a casa a mani pressoché vuote Vice – L’uomo nell’ombra, che ha portato a casa soltanto il premio per il trucco, se ne torna a casa Glenn Close, arrivata alla sua settima nomination senza poter mai assaporare che cosa realmente significhi “quel” premio, immeritatamente sconfitta da una pur straordinaria Olivia Colman, chapeau!, esuberante quanto altalenante d’umori e sofferente regina Anna della Favorita (un ex aequo, proprio no?), unico zio Oscar per un titolo che aveva ben dieci nomination al proprio arco, e che rischiava di rimanere a secco, qualcuna davvero dritta al centro (perché si è preferita Regina King del melenso Se la strada potesse parlare alla prova straordinaria di Rachel Weisz del film di Yorgos Lanthimos quale migliore attrice non protagonista? perché non si sono considerate appieno quei costumi, quelle scenografie e la “nuovissima” fotografia di Robbie Ryan?), se ne torna con la statuetta tra le mani Mahershala Ali per il film di Peter Farrelly (qui nelle vesti del pianista Don Shirley, già pochissimo convincente due anni con il gonfiatissimo Moonlight) come miglior attore non protagonista. E questo davvero ti spinge a dover guardare amaramente “oltre” il cinema.

Green Book, di un autore come Farrelly che sembra aver cambiato la sua strada abituale, vince il titolo di miglior film dell’annata (gli appartiene anche il premio per la migliore sceneggiatura originale, dove ha collaborato Nick Villalonga, prole del vecchio Villalonga che nel film uno straordinario quanto dimenticato Viggo Mortensen, gradasso e poco affine alla gente di colore, tratteggia a piccolo capolavoro), lontano da parecchie convinzioni e capace di far arrabbiare il coloratissimo Spike Lee che aveva sperato fino all’ultimo nel suo BlacKkKlansman e che invece s’è dovuto accontentare della statuetta alla migliore sceneggiatura non originale. Nel giro di pochissimi anni, in buona compagnia dei suoi amici Inàrritu e Guillermo del Toro, Alfonso Cuaròn porta con la targhetta miglior regia un ulteriore premio in terra messicana, esempio di passione e di autentica maestria, di un universalismo culturale che nulla hanno a che fare con i muri da erigere o no.

Roma – che è l’esempio migliore dell’abbraccio di Hollywood a Netflix (altro punto da non sottovalutare di questa 69ma edizione degli Oscar) e che incamera anche i premi per la migliore fotografia ed il miglior film straniero – resta una delle più convincenti e commoventi opere dell’annata, già Leone d’Oro a Venezia (un’altra dose di buon fiuto per Alberto Barbera), un’autobiografia raccontata teneramente, punteggiata da alcuni momenti davvero alti che si fanno sempre più rari nel cinema della nostra epoca. Ha vinto Black Panther, primo fumettone ad arrivare al maggior traguardo, per i costumi, la scenografia e la colonna sonora, un giocattolo che ha raggranellato dollari al botteghino e andava premiato. Quegli stessi botteghini che stanno omaggiando, dopo un percorso partito con leggera incertezza, anche Green Book e che hanno già fatto fare un gran bel pezzo di strada a Bohemian Rapsody, da cui esce il miglior attore dell’anno, Rami Malek (con i migliori suono e montaggio sonoro), lontanissimo dalle apparizioni di Una notte al museo, che nel discorso di premiazione ha ricordato con orgoglio le proprie radici egiziane. La nota più bella della serata, con buona pace delle mire registiche di Bradley Cooper, che certo parecchio di più in questi mesi ha sperato per la sua opera prima (otto nomination iniziali), è stata la voce di Lady Gaga (con quella di Bradley al seguito, certo) che ha riproposto Shallow tratta da A star is born, la più bella canzone dell’anno cinematografico. Con lei lo zio Oscar ha accontentato tutti quanti.
 
Elio Rabbione
 
Nelle immagini  “La favorita”, “Green Bokk”, “Roma” e “A star is born”

''La' dove Finisce la terra''

Domani, martedì 26 febbraio, alle 18 presso la libreria Bodoni in via Carlo Alberto a Torino, Renzo Sicco presenterà il libro ”La’ dove Finisce la terra” di Desirèe e Alain Frappier (edizioni Add), con prefazione di Luis Sepùlveda. Si tratta di una graphic novel che attraverso la storia di Pedro, un ragazzo libanese emigrato in America Latina racconta, con chiarezza esemplare, la storia del Cile tra il 1948 e il 1970. Un viaggio nella memoria di un Paese che il regista di Assemblea Teatro ha conosciuto e amato realizzandovi spettacoli e collaborazioni importanti. Sicco presenterà il libro  insieme al giornalista-scrittore Darwin Pastorin, altro grande conoscitore del Sud America. I due hanno collaborato recentemente alla realizzazione dello spettacolo ”Penarol. Una storia di calcio e immigrazione” che e’ stato rappresentata l’anno scorso nel Teatro  Solis di Montevideo. 

M.Tr.