CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 553

Il Capodanno Cinese al Torino Outlet Village

Domenica 26 gennaio un fitto programma di iniziative per festeggiare l’anno del topo. 

Un evento pensato per i turisti, ma anche per i cinesi residenti, e per chiunque ami la cultura e la tradizione orientale. Torino Outlet Village organizza per domenica 26 gennaio una serie di iniziative per la celebrazione del Capodanno cinese.

Capodanno Cinese, 26 gennaio

Si comincia dalle 10:30 del mattino e per tutto il giorno sarà possibile vivere il Capodanno Cinese tra sfilate, degustazioni, veri e propri corsi di cucina e molto altro. La giornata inizierà con un laboratorio di Ravioli Cinesi “Jiaozi”: per imparare l’arte della preparazione dei famosi ravioli tradizionali cinesi. Dove? Presso C-House Cafè&Restaurant. Il laboratorio è gratuito, ma la prenotazione è obbligatoria all’Infopoint contattando il numero 011 19234780.

A mezzogiorno ci sarà la danza del Drago leone, momento culmine dei festeggiamenti del Capodanno Cinese. Un evento entusiasmante e scenografico lungo i boulevard del Village che verrà replicato alle 15:30, per permettere a più clienti possibili di assistere a questa straordinaria esibizione. Sfileranno anche i Qipao, costumi tipici cinesi caratterizzati da colori vividi, stampe floreali eleganti e ricercati e stoffe pregiate.

E non mancherà una class sulla tradizionale bevanda cinese: il Tè. Alle 16:30 presso C-House Cafè&Restaurant si terrà il workshop Storie e Origini del Tè in Cina: degustazione e tecniche di infusione. Anche in questo caso, il laboratorio è gratuito, ma la prenotazione è obbligatoria all’Infopoint contattando il numero 011 19234780.

Wonder China in comporary art, la mostra al Village

Ma le iniziative che celebrano il mito e la cultura cinese non sono finite. La vera chicca al Torino Outlet Village è la mostra Wonder China contemporary art, presso la unit eventi nella piazza principale del Village.  Si potrà visitare la mostra dal lunedì al venerdì dalle 14.00 alle 19.00 e il sabato e la domenica dalle 11.00 alle 19.00. Più di 50 opere, racconteranno l’evoluzione dell’arte cinese contemporanea con presenze ormai iconiche e di grande interesse culturale, dal forte impatto visivo. 

La mostra, articolata per sezioni, presenta una serie di piccole personali che nel loro insieme costituiscono un percorso esaustivo sull’ evoluzione del linguaggio artistico cinese e presenta, per la prima volta a Torino, uno spaccato della sua complessa realtà artistica. Nonostante la sua natura prettamente commerciale, il Torino Outlet Village con questa mostra intende proporsi al pubblico dei visitatori come luogo di cultura ed incontro, teso a favorire una migliore fruizione degli spazi, anche quale luogo di incontro.

Da Testa di ferro a Napoleone tutti i ponti e i mulini sul Po

Abbiamo riletto un interessante volume di Elo Seminara e Giuli Hal

Emanuele Filiberto di Savoia non fu solo fu solo “Testa di Ferro”, il duca sabaudo che riconquistò i suoi territori sconfiggendo, alla guida delle truppe spagnole, a San Quintino nelle Fiandre i francesi, ponendo così le basi della pace di Cateau Chambresis del 1559.

E non è ricordato come colui che trasferì, il 7 febbraio 1563 a capitale da Chambery a Torino. Ma è anche colui che, primo tra i Savoia, andò in visita di Stato alla Serenissima.

E nel 1774 il tragitto venne effettuato tutto lungo il corso del Po, da Torino a Venezia, con andata e ritorno in due mesi lungo la via che, all’epoca, era considerata la più agevole e sicura. Questo viaggio è stato, ai giorni nostri, anche punto di partenza per un interessante ed accurata ricerca d’archivio sul fiume Po di due storici. Elio Seminara e Giuli Hal in “Il fiume a Verrua: porti, pesca,  ponti e mulini  natanti 1750 – 1900” analizzano i porti, la pesca,  i ponti ed i mulini natanti sul grande fiume arrivano ad un progetto  di Napoleone (un’altra influenza del passaggio del grande generale corso nei territori subalpini) che non fu mai realizzato ma che sicuramente avrebbe fortemente condizionato lo sviluppo economico del Piemonte.

 

Massimo Iaretti

L’isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità librarie. A cura di Laura Goria

Claudia Casanova “Storia di un fiore”   -Feltrinelli- euro 15,00

Quando si ha una passione profonda si maneggiaun’arma in più per difendersi dai duri colpi inferti dalla vita. Sicuramente l’amore viscerale per la botanica è l’ancora di salvezza della protagonista, la giovane Alba. Sfondo del romanzo è la Spagna di fine 800, nella splendida tenuta di campagna della famiglia Ruiz de Peñafiel, la Solariega, dove trascorrono le vacanze le sorelle Alba e Luisa. Dalla madre Mercedes hanno ereditato l’amore per la natura. Le ha cresciute incoraggiandole a trovare una loro strada nel mondo, anziché perdersi nei futili interessi delle loro coetanee.

Tra le mura domestiche vige l’idea che una donna possa avere un ruolo diverso dalla consueta “ama de casa” dedita solo a marito e figli. Alba e Luisa sono moderne e coraggiose; trascorrono le giornate nei campi dove cercano, osservano, raccolgono, catalogano e disegnano gli oggetti del loro amore. Alba, la maggiore, va alla ricerca di fiori, steli, foglie, semi e qualsiasi meraviglia possa arricchire il suo erbario. Luisa invece mette tutta la sua passione nella ricerca delle farfalle e avrebbe un futuro da entomologa. Alla delicata storia dell’amore di Alba per la natura, si aggiunge quella per il famoso botanico tedesco Heinrich Willkomm, ospite alla Solariega. Condividono l’amore per la scienza, si avventurano insieme nel verde e finiscono per trovarsi invischiati in una tenera passione proibita e segreta. Scoprono una nuova specie di fiore che Heinrich battezza “Saxifraga Alba” in onore della ragazza che ama, ma che deve abbandonare. Tra dolore, perdite finanziarie e drammi familiari, ancora molte cose accadranno. Scritto con delicatezza questo romanzo dal sapore antico è ispirato alla vita della botanica spagnola dell’800 Blanca Catalán de Ocón, vissuta a Teruel; a parte la storia d’amore per un botanico tedesco che è pura finzione letteraria.

 

Amy Tan “Dove comincia il passato” – Salani –   euro 18.60

Amy Tan è una scrittrice statunitense di discendenza cinese e questo suo libro esplora la vita di una famiglia divisa tra oriente e occidente. E’ una sorta di memoir che prende l’avvio dalle storie contenute in una capsula del tempo: sette grandi scatole di plastica trasparente che racchiudono il passato della sua famiglia. Spulciando tra lettere, fotografie, documenti e cimeli vari, l’autrice -che a 8 anni scopre di essere tagliata per la scrittura- sguinzaglia bravura e fantasia e svela vicende, passioni, sofferenze e redenzioni che sono tanti “attimi di tempo congelato”. Ricostruisce un passato che comincia prima della sua nascita. A partire dalla Cina imperiale con il suo manto di decadenza, ma anche di fascino. Amy Tan ricompone la vita di sua nonna, nella Shangai del primo 900, quando rimasta vedova aveva poi sposato un uomo ricchissimo diventando una delle sue concubine. Morta infelice e giovane per aver ingerito dell’oppio, ha lasciato sola al mondo la sua bambina (figlia di primo letto) che ha solo 9 anni. E’ la madre della scrittrice, e anche la sua storia ha numerosi coni d’ombra. Cresciuta dal patrigno, a 18 anni sposa un uomo ricco e scivola in un matrimonio di un’ infelicità abissale. Il marito, dietro pubbliche conclamate virtù, nasconde un pozzo di nefandezze: giocatore d’azzardo dilapida la dote della moglie, la considera sua proprietà, la picchia selvaggiamente e la tradisce impunemente. Lei riesce a scappare con il suo amante e dalla loro unione nasce la scrittrice. In altre pagine Amy Tan scruta a fondo nel difficile rapporto con la madre, rivive il dolore delle tragedie che hanno segnato la sua vita, e finisce per comporre un mosaico che non lascia indifferenti.

 

Marco Buticchi “Stirpe di navigatori” -Longanesi-   euro 22,00

Buticchi non sbaglia un colpo e si riconferma maestro dell’avventura, alla stregua di nomi blasonati come Wilbur Smith e Clive Cussler. Leggere il suo ultimo romanzo vuol dire viaggiare a spasso nei secoli, solcare mari tempestosi -tra Italia, Portogallo del 1700, Congo e Stati Uniti degli anni 60 del XX ° secolo- per arrivare ad oggi. E ritroviamo la coppia vincente formata da Oswald Breil e Sara Terracini. Proprio da lei scatta la trama perché mentre è a bordo del Williamsburg insieme al marito deve tradurre un antico diario, rinvenuto in un monastero di Lisbona. E’ stato redatto dal grande navigatore italiano Alessandro Terrasini, (cognome che la dice lunga sulla parentela con Sara).

Ed ecco che Buticchi vi catapulta nel 1755, quando il terremoto rase al suolo Lisbona, e vi trascina nelle incredibili peripezie di Alessandro. La sua nave è la Frelon e lui commercia in stoffe solcando i mari. A incrociare la sua rotta saranno personaggi bellissimi, come Padre Rafael o la contessina Elisa (ingiustamente accusata di matricidio) che fugge dallo zio e dalle sue mire di potere. Ma a smuovere ulteriormente le acque si mettono eminenze grigie, navi negriere, cattivi e assassini a iosa, e la ricerca del mitico tesoro del pirata Olivier Levasseur (realmente esistito nel XVIII° secolo).

Altro piano temporale -tra Congo, Parigi e Stati Uniti- troviamo due fratelli congolesi testimoni di qualcosa di sconvolgente: per questo costretti alla fuga per sopravvivere. Matunde e Kumi Terrasin riprenderanno le loro vite altrove, tra difficoltà e successi. Fino all’epilogo finale in cui i destini di tutti i personaggi finiranno per chiarirsi, incontrarsi o scontrarsi nel presente…

 

L’infanticidio a teatro: “From Medea” al Dravelli

Domenica 19 gennaio alle 19.00 il Teatro Dravelli di Moncalieri ospiterà il debutto di “From Medea” della compagnia FramMenti, per il primo appuntamento dell’anno della rassegna “Fermata Bengasi”, organizzata da Santibriganti in collaborazione con la Fondazione Dravelli

Lo spettacolo, scritto da Grazia Verasani, vedrà in scena Federica Bòttega, Virginia Cuffaro, Ramona Giancaspero e Daniela Vanella, dirette da Claudio Sportelli. La storia è quella di quattro donne rinchiuse in un carcere psichiatrico per aver commesso uno dei reati più difficili da comprendere: l’infanticidio. Diverse per personalità e background culturale, sono accomunate da una maternità rifiutata che le ha portate a compiere il drammatico gesto e da una ricerca disperata di normalità nell’elaborazione ed espiazione della propria colpa.

Il tema, estremamente delicato, viene affrontato tramite la quotidianità della convivenza forzata di queste quattro donne, durante la quale, nonostante tutto, germogliano amicizie, confessioni, litigi e conforti mai pienamente consolatori, che spingono gli spettatori ad una sospensione del giudizio. “Queste donne” spiegano le attrici della compagnia FramMenti “pur con le loro innegabili colpe, difficilmente vengono percepite come vere assassine, anzi, riescono ad avvicinare a tal punto alle loro motivazioni da generare una pietas che prima non avremmo forse creduto di poter avere”.

La seconda edizione della rassegna teatrale 2019/2020 “Fermata Bengasi – Una piazza italiana” del Teatro Dravelli di Moncalieri, è organizzata da Santibriganti Teatro in collaborazione con la  Fondazione Dravelli e il patrocinio della Città di Moncalieri.

Santibriganti Teatro aderisce al Comitato Emergenza Cultura

 

Rassegna 2019/2020 “Fermata Bengasi – Una piazza italiana”

Domenica 19 gennaio 2020 – ore 19.00

“From Medea”

di Grazia Verasani

con Federica Bòttega, Virginia Cuffaro, Ramona Giancaspero, Daniela Vanella

regia di Claudio Sportelli

Compagnia FramMenti

***

Teatro Dravelli di Moncalieri

Via Praciosa 11, Moncalieri

Biglietti

Intero € 10 – Ridotto soci ARCI € 8

Inizio spettacoli ore 19.00

Apertura cassa teatro un’ora prima dello spettacolo

Informazioni e prenotazioni

Santibriganti Teatro: 011-645740 (dal lun. a ven. 12.30/16.30) • organizzazione@santibriganti.it

Ritorno al futuro nella notte al Liceo Classico Cavour

Venerdì 17 Gennaio 2020, dalle ore 18 alle ore 24, presso il Liceo Classico e Musicale C. Cavour (Corso Tassoni 15) si è svolta la sesta edizione della “Notte Nazionale del Liceo Classico”

Nata nel 2015 da un’idea del prof. Rocco Schembra, del Liceo “Gulli e Pennisi” di Acireale (CT), la Notte si
arricchisce di anno in anno di Licei aderenti (oltre 430 in tutta la penisola), di partenariati e di attività, che
vedranno protagonisti gli studenti, gli ospiti e il pubblico.
Studenti e docenti hanno lavorato con creatività e intensità nei mesi scorsi, per preparare una kermesse
variegata, risultato della straordinaria progettualità dell’Istituto. Un appuntamento costruito con grande
energia e spirito di collaborazione; un modo diverso di “fare scuola” e di mettere a frutto il lavoro quotidiano.
I contenuti dell’evento, dal titolo Ritorno al futuro, come il film ormai “classico” di cui ricorre nel 2020 il
trentacinquesimo anniversario, sono stati progettati pensando ad una scuola che sappia allargare gli orizzonti
dal passato al futuro (connecting the dots) e anche aprirsi e avvicinare i propri studenti al mondo che li
circonda nei suoi vari aspetti, per farli crescere con nuove prospettive. Un viaggio attraverso il tempo e i
tempi, le arti e le forme espressive, non un luogo di lingue morte o di culture ormai tramontate, ma di
coinvolgimento, di socialità e di crescita civile e personale, il luogo in cui non ci si ferma alle apparenze e si
costruisce il futuro imparando a porsi problemi “antichi”.
La lunga serata ha avuto momenti di incontro con ospiti esterni, interviste, debate, musica, recitazione e
performance di varie arti, gestite dai ragazzi, con una pausa per una cena condivisa. Guidati dagli esperti di
Arkenù, gli studenti del Liceo della Comunicazione hanno realizzato la diretta streaming dell’evento, che
quest’anno connetterà anche più punti del Liceo, tutti in diretta.
Il pubblico ha potuto incontrare il ricercatore Giorgio Vacchiano, individuato nel 2018 da Nature
tra gli 11 scienziati emergenti, che ha dialogato con gli studenti su “Immaginare il futuro. Storie di foreste che
cambiano il pianeta”. Poi una serie di momenti musicali.

I nuovi concerti di “Vitamine Jazz”

Gli appuntamenti della settimana all’Ospedale Sant’Anna per la rassegna già arrivata al centocinquantaquattresimo concerto e alla sua terza stagione, organizzata per la “Fondazione Medicina a Misura di Donna” e curata da Raimondo Cesa

 

I concerti avranno inizio dalle ore 10.00 nella sala Terzo Paradiso in via Ventimiglia 3 aperta al pubblico, dedicata alle pazienti e ai loro cari.

Martedì 21 gennaio “Trio Fabbrini Russo Borotti”

Monica Fabbrini voce
Pino Russo chitarra
Diego Borotti sax

Monica Fabbrini

 

Allieva di chitarra del maestro Maurizio Colonna.
Innumerevoli le performance in Gala’, concerti in tutta Europa, tra cui lavori di sonorizzazione per grandi convegni aziendali quali Fiat, Ferrero, Gancia (dal 2006 ad oggi) o istituzionali quali Convegno Nazionale Ordine degli Ingegneri nel 2010 al Palaisozaki di Torino.
Nel 2013 partecipa al Torino Jazz Festival, nella sezione Fringe, con il suo disco Moni’s Mood, al Piossasco Jazz Festival e alla manifestazione Jazz Acqua Dolce di Avigliana.
Nel 2014 partecipa nuovamente al Piossasco Jazz Festival, alla manifestazione Sale e Pepe di Collegno e al ChiusArte Jazz Festival di Chiusa Pesio. Insegnante di supporto durante masterclass fra le quali quella di Gege’ Telesforo.
Collabora con Con Alberto Marsico e Diego Borotti , con i quali pubblica il primo cd a proprio nome dal titolo ” Moni’s Mood, Alberto Mandarini, Luigi Tessarollo, Mattia Barbieri, Davide Liberti, Alessandro Minetto, Paolo Franciscone, Alberto Gurrisi, Gilson Silveira, Daniele Tione, Gianpaolo Petrini. Massimo Camarca, Daniel Bestonzo, Francesca Oliveri, Gianluca Guidi, Augusto Martelli, Gegè Telesforo

Pino Russo

Pino Russo, eclettico chitarrista, plurilaureato, compositore ed arrangiatore. Docente di Chitarra Jazz al Conservatorio Verdi di Torino, è stato una colonna portante del Centro Jazz ed in seguito fondatore della Jazz School Torino.
Vari i riconoscimenti e premi tra cui: Incroci Sonori Jazz 2008, Premio Mancinelli al Concorso Massimo Urbani 2009, Premio Migliore Rivisitazione Classica al Barezzi-Live 2009.Ha suonato per svariati eventi tra cui: XXIII Festival Jazz en Lima (Perù), Grenoble Jazz Festival, Praga Jazz Festival, Annecy Jazz Festival, Acoustic Guitar Meeting di Sarzana, Linguaggi Jazz, Torino Jazz Festival, Ivrea Euro Jazz Festival, Antidogma Musica. Soprannominato “L’orchestra a sei corde” per la concezione estremamente dinamica della produzione sonora e del “gesto” chitarristico. Nella sua lunga carriera ha sviluppato un’intensa ricerca timbrica sulla chitarra esplorando diverse sonorità musicali attraversando Jazz, Bossa-nova, Musica Mediterranea, Contemporanea e Contrappunto Bachiano.

Diego Borotti
L’attivita’ jazzistica lo porta a collaborare con molti jazzmen di fama internazionale tra cui Franco D’Andrea e Dado Moroni, Barney Kessel e John Patitucci, Steve Grossman ed Enrico Rava, Flavio Boltro e Francois Jeanneau, in innumerevoli club e festival di piu’ di 20 paesi europei e non, per oltre 2000 concerti.
Tra il ’90 ed il 2000 compone numerosi concerti , la sonorizzazione dell’esposizione europea del Whitney Museum di N.Y. con il Saxea 4tet, il concerto per coro rinascimentale, gregoriano e saxofono “Contrapunctum”, “Tam Tam” per il Teatro Regio di Torino con alcuni tra i piu’ grandi maestri di tamburo africani.Dal ’96 ad oggi dirige decine di jazz-festival e manifestazioni musicali tra cui “JAZZ IN TOWN ” edizioni ’97 e ’98 a Torino e Bologna,per la Philip Morris Companies, “JAZZ A PALAZZO” presso il Palazzo Reale di Torino nelle edizioni del 2001 e 2002, COCCHI JAZZ FESTIVAL TORINO 2012. E’ attualmente il condirettore artistico del TORINO JAZZ FESTIVAL.
Ha preso parte al World Summer Tour di Solomon Burke (2004-2006), durante il quale ha suonato con BB King al “RAY CHARLES MEMORIAL” di MONTREUX JAZZ FESTIVAL. Tra il 2005 ed il 2007 ha lavorato ai tour ed alle produzioni editoriali di Fiorella Mannoia, partecipando,tra le decine di concerti, al “Live 8” di Roma. Ha insegnato dal 2008 al 2010 “Jazz: Estetica e Tecnica dell’improvvisazione” presso il Conservatorio G. Cantelli di Novara.
Fonda nel 2012 con Pino Russo e Paolo Franciscone la JAZZ SCHOOL TORINO.

Giovedì 23 gennaio

Amedeo – Arnoldi – Nicola Trio

Ivano Amedeo pianoforte
Dante Arnoldi sax tenore
Claudio Nicola contrabbasso

Il gruppo nasce dal piacere di condividere tra musicisti e con gli ascoltatori le atmosfere dei grandi classici
del jazz, da Duke Ellington a Miles Davis passando per Sonny Rollins.
Gli Standards jazz costituiscono il cuore del genere e la lingua comune di tutti i jazzisti, di ogni provenienza e di ogni epoca. Il materiale, profondamente assimilato, viene restituito, elaborato attraverso le emozioni personali di ogni interprete rinnovandosi e ad ogni esecuzione in un ciclo infinito di rinascita.
Ivano Amedeo, piano, ha ereditato la passione per il jazz dal padre contrabbassista. Dopo gli studi con Aldo Rindone ha preso parte a numerose iniziative in campo musicale e jazzistico in particolare Avigliana Jazz Festival. Il segno caratteristico è la predilezione per le armonizazioni ricche e comunicative.
Per l’ occasione è accompagnato da Dante Arnoldi al sax tenore, membro stabile del gruppo “I CETRI” e Claudio Nicola, presente in varie formazioni sulla scena del jazz torinese da molti anni, al contrabbasso. L’idea è quella di “cullare” e “curare” con la musica le persone in ascolto.

Gli anni di liceo

Caleidoscopio rock USA Anni ’60

Impossibile contare il numero di bands americane degli anni Sessanta che nacquero e morirono entro gli anni di liceo, destinate a sciogliersi con le iscrizioni al college o con la chiamata in esercito

La spensieratezza degli anni della high school erano la linfa vitale perfetta per una fantasia musicale spontanea (anche se grezza), per l’incoscienza e per i sogni più ambiziosi e velleitari.

Per le bands di liceali qualsiasi posto era buono per esibirsi, si badava poco agli introiti, la necessità più urgente era il farsi conoscere, dimostrare la propria buona volontà sperando di attirare l’attenzione di qualche intermediario di case discografiche; non si poteva mai sapere dove potessero sbucare i talent-scout, magari perfino camuffati ai margini di feste di high-school proms o in teen dance clubs… o in qualche parlour di locali non necessariamente pensati per le esibizioni musicali, o in adult clubs di seconda o terza fascia. Ciò che importava era possedere una marcia in più, meglio se supportata da managers sufficientemente sfacciati e audaci, ma comunque ragionevoli. Un esempio riassuntivo di tutto ciò? La band The Strangers di Boston, meteore formatesi nel 1964 e scioltesi entro l’estate 1966, con il management di Rip Rapolla e John Gioioso. Tutti studenti di liceo, tre su quattro figli di immigrati italiani, Dan Gioioso (chit), Jimmy Chicos (chit), Tony Baglio (b), Joe Beddia (batt), seppero subito entrare nel giro delle feste universitarie di Boston, infilandosi strategicamente in vari frat parties ed esibizioni in M.I.T., Northeastern University e Boston University, grazie all’intraprendenza di Rip Rapolla. Era buona anche l’attività sul versante dei clubs (tra cui “Ebb Tide” e “The Novelty Lounge”) nell’area tra Boston, Revere, Somerville, Malden, Cambridge e Medford, la partecipazione a “Battles of the Bands” e l’esibizione come opening band (in un’occasione anche per James Brown). Il sound dei The Strangers er un mix di varie influenze, tra cui The Ventures, Beach Boys e Beatles e trovava senz’altro il suo habitat naturale nelle feste universitarie, nell’ambito delle quali furono possibili contatti per l’ingresso in sala di registrazione. L’occasione non tardò ad arrivare (sempre grazie all’iperattività del manager Rapolla) anche con il supporto di un paio di radio locali. Con l’etichetta Oriel uscì l’unico 45 giri della band, probabilmente nell’autunno 1965: “Lonely Star” [Gioioso] (341; side B: “What A Life” [Pires (Baglio) – Gioioso]), prodotto a Newton da Petrucci & Atwell e registrato con mezzi quasi di fortuna ed impianti ridotti al minimo indispensabile. L’esito dell’incisione non fu nulla di eccezionale e l’effetto sulle classifiche radiofoniche si dissolse piuttosto in fretta, con conseguente grande sconforto dei ragazzi. I mesi successivi trascorsero in fretta e già nel 1966 la band venne a sciogliersi in concomitanza con l’ingresso del bassista Tony Baglio al college (attualmente Baglio è direttore di produzione presso Greater Media/Boston). Ma i riflettori sugli anni di liceo dei The Strangers si sono riaccesi più di trent’anni dopo, quando il brano “What A Life” è stato ripescato nel 1998 in The Essential Pebbles Collection, vol. 1. La parabola era stata rapida… ma a volte può capitare, per qualche scherzo del destino, che qualcuno faccia riemergere quello che fu…

 

Gian Marchisio

 

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Il Monferrato e la Sicilia di Leocata

“Siam polvere di stelle”

La natura, le colline monferrine e le antiche rocche e i cavalieri siciliani nelle opere dell’artista in mostra a Casa Bertalero

Fino al 2 maggio – Alice Bel Colle (Alessandria)

E’ dedicata al fratello recentemente scomparso, Salvatore Vincenzo (per tutti solo Vincenzo, nome ereditato dal nonno), la mostra che Pippo Leocata presenta ad Alice Bel Colle nel Monferrato alessandrino, all’interno degli storici spazi di Casa Bertalero, struttura turistico-polifunzionale essenzialmente vocata al comparto enologico e splendidamente inserita al centro del triangolo Acqui Terme – Canelli – Nizza Monferrato. Vincenzo di mestiere faceva il professore di chimica a Cesena. Ma scriveva anche poesie, che firmava con lo pseudonimo di “Salvin” (per rispetto ai due nomi consegnatigli in sorte); liriche di forte carica emozionale, le sue, in cui le ragioni della scienza sapevano mirabilmente piegarsi ai misteri dell’anima. Come in quel “Siam polvere di stelle”, fra le sue ultime poesie, una sorta di testamento e riflessione spirituale maturata con mille interrogativi negli ultimi giorni di vita e amorevolmente fatta sua dal fratello pittore di Torino per titolare la mostra ospitata a Casa Bertalero e farne immagine – guida della stessa rassegna. Scriveva Vincenzo: “Vorrei librarmi in alto lassù / e toccare con mano quello spicchio di luna in cielo…Vorrei vagare alla deriva del tempo / spingermi oltre i limiti degli spazi siderali / giungere alla fine dell’infinito all’ultimo lembo / E scoprire che in realtà / ‘Siam polvere di stelle’”. La pochezza di un’intera vita che se ne va. Pur se ricca di fatti e di volti, di lacrime e di amori, di gioie e tristezze, di vittorie e sconfitte. Una miniera di storie nella storia unica e irripetibile di un uomo. Stardust. Solo “polvere di stelle”. Molecole infinitesimali di un mondo che ci sfugge e di un “oltre” che ci atterrisce nell’impenetrabile oscurità del suo mistero.

E Vincenzo, per il fratello Pippo, l’artista di famiglia, può essere allora una di quelle quattro figurine appena appena abbozzate, due si tengono per mano ( Pippo e Vincenzo?), che sotto un bluastro spicchio di luna arrancano per geometriche zolle di terra, che paiono celare mostruose parvenze vitali e inghiottire più che proteggere, verso alte rocche e castelli oscurati da cieli poveri di speranza. Gli stessi di “Tramontata è la luna” che, in tecnica mista su carta e pur con tonalità diverse e ancor più inquietanti, Pippo Leocata ricompone in segno e colore, per dar forma attraverso i versi tradotti dall’amato Quasimodo alla raffinata e malinconica riflessione notturna della sensualissima Saffo. Pittura e poesia. Binomio frequente nelle ultime prove del pittore. La seconda che dà voce e corpo alla prima. E la prima che s’immerge senza ostacoli nei versi e nelle parole dei poeti più cari: da Quasimodo a Montale a Pavese. Di grande suggestione, su questa linea, la pavesiana “Vigna” che “sale sul dorso di un colle/fino a incidersi nel cielo”. Sono le colline di Langa, Roero e Monferrato (Patrimonio Unesco dell’Umanità) che s’incontrano in mostra e rendono più dolce e lieve, nei quadri di Leocata, le vulcaniche natie colline della sua Adrano (l’antica Adranon), colonia greca di Corinto alle falde dell’Etna, dove, nel 344 a. C., i guerrieri di Timoleonte da Taormina sconfissero quelli di Iceta da Lentini, liberando gli Adraniti dalla dominazione siracusana. Così raccontano Plutarco e Diodoro Siculo. Storia e Mito.

Che sempre ritornano nell’opera dell’artista (ormai torinese da una vita e allievo, negli anni Sessanta, di Carlo Mollino alla Facoltà di Architettura del Politecnico subalpino), sotto forma di battaglie, guerrieri, cavalli e cavalieri – ne troviamo anche in sculture di legno e argilla all’ingresso di Casa Bertalero – armati di lance, scudi e coriacee armature. In un groviglio meditato ma irrequieto di segni e colori, che sa di antico mestiere e di accademia pur se incantato da guizzi e libertà creative del tutto singolari e di trascinante carica emotiva. Capace di violare le leggi cosmiche. E chissà? Di arrivare fin lassù. Per mano ancora a Vincenzo. Pippo e il “fratellone”. Oggi come ieri. In fondo, “non morirà nessuno, morire poi perché? Dicono che siamo tutti polvere di stelle”. Versi dall’ultimo singolo di Luciano Ligabue. Che Vincenzo, insieme a Pippo, avrebbe approvato. Sicuramente.

Gianni Milani

“Siam polvere di stelle”

Casa Bertalero, Regione Stazione 19, Alice Bel Colle (Alessandria); tel. 0144/745705 – info@casabertalero.it

Fino al 2 maggio

Orari: dal mart. al sab. 8,30/12,30 e 14,30/18,30, dom. su appuntamento

***

Nelle foto

– “Siam polvere di stelle”, tecnica mista su carta, 2019
– “Tramontata é la luna”, tecnica mista su carta, 2019
– “La vigna”, olio  su tela, 2017
– “Paesaggio del Monferrato”, olio su tela, 2005
– “Rivisitazione”, tecnica mista su carta, 2018

Scene di violenza coniugale. Atto finale

Una produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale /Teatro di Dioniso /PAV con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati – fondazione franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe – Beyond Borders

Il 20 gennaio va in scena, in prima nazionale (repliche fino al 31.01.2020) presso la Galleria d’Arte Franco Noero, in Piazza Carignano 2, a Torino, per la stagione del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale, SCENE DI VIOLENZA CONIUGALE. ATTO FINALE del drammaturgo franco-inglese Gérard Watkins, nella traduzione di Monica Capuani, con la regia di Elena Serra. In scena Roberto Corradino (Pascal Frontin), Clio Cipolletta (Annie Bardel), Aron Tewelde (Liam Merinol), Annamaria Troisi (Rachida Hammad) e Elena Serra (Agnes Pertuis).

Per la prima volta presentata in Italia, l’opera di Watkins è costituita da un testo duro, gelido, incalzante che affronta il tema della violenza sulle donne mettendo sotto la lente di ingrandimento i processi mentali e comportamentali di vittima e carnefice.
La regista Elena Serra realizza per il testo di Watkins una regia immersiva nello spazio fisico di un vero appartamento, a cui è ammesso un ridotto numero di spettatori, e ciò che accade sotto gli occhi di chi guarda è la costruzione metaforica di una gabbia all’interno della quale ci si ritrova inconsapevolmente prigionieri.

Protagonisti quattro personaggi appartenenti a mondi e ceti, culture e religioni differenti:
Liam fugge da un’adolescenza tormentata nella provincia per stabilirsi a Parigi e incontra Rachida, che cerca di sfuggire al clima soffocante della sua famiglia. Annie sta cercando lavoro a Parigi, sperando di poter così riavere con sé le figlie che vivono coi nonni in campagna e incontra Pascal, fotografo molto tormentato e affascinante. Le due coppie, che si incrociano una sola volta nel corso della visita ad un appartamento al cui affitto sono entrambe interessate, finiranno poi col trovare ciascuna un appartamento arredato in cui cominceranno la convivenza a due.
A partire da questo momento la violenza si insinuerà nei rapporti fino deflagrare in gesti di assoluta brutalità.

Il testo nasce dal desiderio di Gérard Watkins di lavorare sul tema della violenza contro le donne; una pratica ereditata dal diritto del più forte che si ripresenta con frequenza drammatica quando la donna afferma il suo ruolo in una società dove la dominazione maschile continua, tuttavia, ad essere la regola. La scrittura si immerge nel cuore del soggetto con tutti i mezzi del teatro per definirlo e comprenderlo senza censure, descrivendo con sconcertante lucidità l’evoluzione del pensiero e del comportamento dei personaggi.

La scrittura propone uno spaccato di quotidianità dove i personaggi, totalmente verosimili, e la ricerca minuziosa del contesto in cui questi si muovono, fornisce l’opportunità di confrontarsi con un testo che affonda le sue radici nella vita che si stratifica nelle nostre città dove convergono, accanto al tema principale, istanze sociali, economiche e razziali sempre più violente.

Grazie all’impegno del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale, SCENE DI VIOLENZA CONIUGALE. ATTO FINALE debutta nel gennaio 2020, all’interno dei locali della Galleria Franco Noero nella sua forma compiuta.

La regia si è concentrata soprattutto sugli aspetti inespressi del testo, ovvero quelli che coinvolgono il ruolo e le reazioni del pubblico, perché se è forse scontato il comportamento delle vittime e dei carnefici lo è assai meno quello dei testimoni. La domanda fondamentale diventa quindi “che cosa faccio io di fronte a tutto questo?” In un contesto culturale che fa della violenza domestica show televisivo e che tende a consolidare l’iconografia della donna-vittima sacrificale, Elena Serra si interroga su come scardinare un meccanismo di spettacolo che rischia di alimentare la spirale del sopruso e riconosce nello spettatore la potenziale risorsa di salvezza.

 

Maria La Barbera

Grandi prove di Pierobon e Marescotti con spericolate intromissioni nel dramma di Cecov

“Zio Vanja” in scena sino al 26 gennaio al Carignano per la stagione dello Stabile torinese

Al termine “adattamento” (come rivisitazione o riscrittura), coniato per i palcoscenici di oggi, c’è sempre da guardare con un certo sospetto.

Ovvero fiutare con mille cautele l’operato e la piena libertà di questo o quel drammaturgo, di questo o quel regista, che s’avventano su di un testo, più o meno vicino a noi nel tempo, per modificarlo e allinearlo alla nostra epoca, per piegarlo alle proprie esigenze. Sino a sconvolgerlo. Snaturando quel che sinora è stato dalla sua stesura, giocando freneticamente con accadimenti e personaggi, costruendo strade nuove che poco (quando a volte nulla del tutto) hanno a che fare con ll pensiero antico dell’autore. Detto questo, non è che si intenda rimanere abbarbicati, in occasioni che lo consentano, ad un ferreo passato e nella memoria c’è posto per esempi che hanno saputo conservare una certa classicità pur collegata ad uno sguardo rivolto al presente.

Chi scrive – alla chiusura del sipario su questo Zio Vanja messo in scena per il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale dalla giovane regista ungherese Kriszta Székely, aiutata nel fragoroso sconquasso da Ármin Szabò-Székely, quasi quarantenne, nome di punta del teatro europeo e una delle anime del teatro Katona di Budapest – ha conservato dei forti sospetti. Non certo su quell’acquario (una semplice cucina con tavolo e sei sedie, un frigorifero e un pianoforte, ci entreranno tante bottiglie e un pc), su quella camera della tortura, su quel trasparente parallelepipedo (la scena porta la firma di Renàtò Cseh) che imprigiona e soffoca più che significativamente i vari personaggi (e quella boccata d’aria, negli intervalli al termine di una scena, che si godono sulle sedie messe a lato del palcoscenico, accresce quel senso di ricercata e ritrovata libertà) o sull’eccellente gioco di luci ed acustico (metallico, innaturale, sghembo) proposto rispettivamente da Pasquale Mari e Claudio Tortorici come non certo sui costumi moderni. I sospetti nascono dallo svolgimento fuorviato dell’impalcatura drammaturgica, dalle intromissioni, dalle esasperazioni e dagli accanimenti di alcuni comportamenti, dal linguaggio e dall’erotismo messa in bella mostra, dalla nuova costruzione di dialoghi capaci persino di mettere in ombra o di cancellare quello spinoso tappeto di mala esistenza che percorre tutto quanto il testo cecoviano.

Che mantiene, per carità di dio, il proprio svolgimento, racchiuso tra i rumori della campagna nella calura estiva e l’infelice e rassegnato – ma allo stesso tempo detto da chi guarda ad un certo futuro – monologo finale di Sonia (“Bisogna vivere! Noi vivremo, zio Vanja, vivremo una lunga sequela di giorni, di interminabili sere”), abituata da sempre ad amministrare la tenuta con l’aiuto dello zio, nell’opaco della propria esistenza (“lo spazio dei desideri è occupato dalla meschinità spietata del quotidiano e dalla memoria delle occasioni perdute”, spiega la regista e vale per tutti): allineando momento dopo momento l’arrivo di Serebrjakov, professore in pensione ed emblema di mediocrità, con la sua seconda moglie, Elena, affascinante agli occhi di ogni maschio che circoli per casa, la passione di Vanja e le sue speranze ormai da tempo crollate, la notte di lui e di Astrov, il medico di famiglia, tra cameratismo e forti ubriacature, il bacio di Astrov a Elena e Vanja che li scorge, la decisione di vendere la tenuta ed i colpi di pistola, la vita che si riassesta nel torpore e nell’infelicità di sempre.

Che ha fatto allora la giovane, ardita Székely? Ha fatto di Serebrjakov un presuntuoso e vuoto regista di film votati al fallimento, e la disfatta personale che si riversa sulla famiglia e i dialoghi sono derivati dal mondo della celluloide; ha fatto di Vanja non soltanto un avvilito e un vinto ma un molestatore seriale ai danni della malmaritata Elena, di Astrov un bellimbusto dichiarato, anche lui con i suoi inarrestabili pruriti, che se già Cecov ne faceva un campione d’ecologia adesso s’avvicina allo spettatore per (Greta docet) intrattenerlo assai più del dovuto sul riscaldamento globale, sul depauperamento delle coste nei decenni a venire, con quelle di Malta che perderanno il 24% e con le greche che saranno assottigliate del 16%; ha annacquato la notte di bisboccia con il vecchio Teleghin a sbraitare in un ridotto slip e ha fatto di una riunione di famiglia per chiarirsi le idee una furiosa riunione di condominio dove si fronteggiano quelli che mai hanno pagato gli affitti e quanti da sempre si sobbarcano ogni spesa. Incursioni spropositate, stravolgimenti fuori misura. Ad inseguire debordanti personalismi, riletture del tutto in bilico. Allora l’attenzione va pressoché completa agli attori, a Paolo Pierobon soprattutto e a Ivano Marescotti, legati a nodo doppio con le direttive della Székely ma capaci di rendere robustamente e in prima persona i loro personaggi, di Vanja e di Serebrjakov. Come da sempre mi è piaciuta Beatrice Vecchione, con la sua Sonia più abituata a fare e a dirigere che non a guardarsi vivere. Con loro Lucrezia Guidone, Ivan Alovisio, Ariella Reggio che nemmeno le tempeste riuscirebbero a smuovere dalla venerazione per il genero fallito, Franco Ravera e Federica Fabiani, per gli applausi di un pubblico tra l’attento e il disorientato.

Elio Rabbione

 

(foto Andrea Macchia)