“Molto rumore per nulla” sino all’8 agosto al Carignano

Terzo appuntamento con “Prato inglese”, felice area estiva dello Stabile torinese, occasione teatrale che s’allunga sino all’8 agosto, la cornice storica della sala del Carignano che si fonde con un testo shakespeariano. Quest’anno “Molto rumore per nulla”, nella traduzione e nell’adattamento di Emanuele Aldrovandi, opera ambientata a Messina – qualcuno per il piacere di una simile collocazione arrivò ad azzardare una nascita dell’autore nella città dello stretto – e scritta a cavallo tra il il 1598 e il ’99, una fusione di elementi tragici e farseschi per i quali già si rintracciano influenze nella classicità di Caritone, nato in Caria presumibilmente tra il primo e il secondo secolo (sue “Le avventure di Cherea e Calliroe”) e nel nostro cinquecentesco Matteo Bandello, non dimenticando né l’Ariosto né “Il Cortegiano” del Castiglione. Vecchia materia quindi le baruffe amorose che qui coinvolgono Benedetto e Beatrice, schermaglie amorose condite in maniera sulfurea da anni con parole acide e battibecchi, pronte a riesplodere al primo incontro tra i due, sguardi in cagnesco che continuano a guerreggiare l’uno contro l’altro. L’occasione è lo sbarco nella città siciliana del principe Pedro d’Aragona e del suo seguito, di cui fanno parte il fratello Don Juan, il giovane Claudio e lo stesso Benedetto, nell’ospitalità nella casa del vecchio amico Leonato, nell’innamoramento che coglie Claudio per Ero, cugina di Beatrice, esempio di virtù. Quanto poi a contorno vi sia di sgherri troppo impiccioni, di inganni e di equivoci, di malvagità tramate più o meno nell’ombra, di balli mascherati che confondono i tanti personaggi, di confessioni rivelate alla persona sbagliata, di ambigui appuntamenti orchestrati nel cuore della notte, di presunte morti subite da cuori troppo sensibili, di rappacificazioni e di felici matrimoni, questo e molto altro, in un’opera che gioca, quanto più è possibile, a rimescolare le acque ad ogni istante, è la bulimica ossatura di “Molto rumore per nulla”.
Giocano nel testo l’apparenza e la realtà, l’eterno ritorno del doppio, la lunga strada che conduce dagli inganni alla limpida linearità: e il regista Silvio Peroni – non ci saremmo d’altronde aspettati diversamente, con il modernismo (logico per lui rintracciare anche le fake news che popolano “Molto rumore”) che invade oggi, nel bene e nel male, le nostre sale teatrali – ambienta ogni cosa in un tempo che non prevede steccati stretti e riconoscibili, che poggia su di un impianto scenografico (di Gregorio Zurla, decisamente bello e suggestivo, dove le pareti in policarbonato fanno al caso nostro, validamente aiutato dalle luci di Valerio Tiberi) che spinge lo spettatore a “vedere” quanto succede dentro e fuori scena. Se ancora ce ne fosse bisogno, collaborano al successo visivo dello spettacolo i costumi firmati da Veronica Pattuelli, un défilé, è chiaro, per le signore attrici soprattutto, come raramente s’è visto su di un palcoscenico. Alla regia di Peroni al contrario si rimproverano quegli eccessi, in troppi momenti, di svolgimento caotico, di spingersi oltre nella confusione, di voler a tutti i costi affastellare movimenti e azioni e voci, di rinunciare a mettere un capo e una coda a tutto quel disordine e ad appianare tutto quel “rumore” che l’opera porta con sé. Il che non vorrebbe significare snaturarla bensì sfrondarla dei suoi eccessi e “ragionarla” maggiormente, renderla più fruibile allo spettatore, risparmiata altresì dei troppi intermezzi musicali affidati ad una voce femminile che qui la invadono e immersi in una accattivante quanto “facile” luce rossastra.
Tra gli interpreti, da sottolineare le prove di Jacopo Venturiero (Benedetto), di Lorenzo Bartoli (Leonato), di Vittorio Camarota (militaresco Dogberry) e di Sara Putignano (pungente quanto combattiva Beatrice), accolti con i loro compagni da un pubblico più che prodigo d’applausi.
Elio Rabbione
Foto, durante le prove dello spettacolo, di Luigi Di Palma
Sarà “Casa di bambola” di Ibsen ad aprire al Carignano il 4 ottobre prossimo (repliche per l’intero mese) la nuova stagione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, regia e interpretazione di Filippo Dini con Deniz Özdogan nel ruolo di Nora, in una lettura curiosa nella sua novità, non legata soltanto al tema del femminismo e della rivolta familiare – ritroveremo il regista genovese tra marzo e aprile al Gobetti con “Ghiaccio” dell’inglese Bryony Lavery, un dramma pluripremiato, un thriller psicologico, un testo di rimorso, punizione e redenzione, un’opera che dolorosamente affronta un tema scabroso della società di oggi, come è quello della pedofilia.
nostra nell’autunno 2022), lo shakespeariano “Antonio e Cleopatra” firmato per il Teatro Nacional D. Maria II di Lisbona da Tiago Rodrigues (da pochi giorni nominato nuovo direttore del Festival di Avignone), ancora alle Fonderie il 27 marzo, e infine “Come tu mi vuoi” di Pirandello, dall’Odéon parigino al Carignano il 27 maggio, con la regia di Stéphane Braunsschweig.
Restando sempre in casa Stabile, il nome emergente di Emanuele Aldrovandi, “talentuoso drammaturgo”, con “L’estinzione della razza umana”, dove un virus trasforma le persone in tacchini, protagoniste due coppie divorate dalle loro contraddizioni; in ultimo, attesissimo, dopo il planetario successo di “Macbettu”, premio UBU come “migliore spettacolo dell’anno”, Alessandro Serra con “La tempesta”, ancora Shakespeare, uno spettacolo fatto intimamente di amore e di odio, di perdono umanamente abbracciato, di magia in cui è bello perdersi.
votato alla leggerezza, “Museo Pasolini” di e con Ascanio Celestini, “Il silenzio grande” scritto da Maurizio De Giovanni con la regia di Alessandro Gassmann, Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon con “Eichman. Dove inizia la notte”, testo di Stefano Massini, i due attori nei ruoli di Hannah Arendt e del boia incriminato, processato e condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità nel 1962.




Per scoprirne di più e “toccarne con mano” la validità, l’appuntamento è per il prossimo sabato 17 luglio, alle ore 15, presso il “Museo del Tessile” di Chieri (Sala della Porta del Tessile in via Santa Chiara, 5) che, proprio in quella data, inaugurerà la personale dell’artista giapponese Liku Maria Takahashi, presidente della “World Diversity Art Society” e lodevole e sensibile ideatrice nel 2009 dello stesso Metodo. Pittrice, scultrice, teorica dell’arte, docente, nonché maestra di arti marziali, la Takahashi verrà anche premiata, nell’occasione, con la “Navetta Arcobaleno” (medaglia fusa in bronzo dallo scultore lucano Antonio Saluzzi) “per essersi distinta nel coniugare un linguaggio multisensoriale di inedito conio con l’arte tessile, le sue suggestioni e i suoi intrecci culturali così da stimolare creatività e realizzare una comunione d’intenti fra persone di ogni dove”. Perché “in termini filosofici – sostiene l’artista di origini nipponiche – il ‘Metodo Maris’ crea incontri facendo sì che l’arte getti i semi della comprensione”. Una “visione”, un modo condivisibile e personale di approcciarsi all’arte, che meglio si potrà comprendere visitando la mostra di Chieri. Ad iniziare da due delle sue famose “Zebre”, per proseguire con una selezione delle “Bandiere del Maris National Flag Project” (2012-2019) realizzate da bambini e adulti di tutto il mondo, fino alla “Maris World Standard Table” (2014), una vera e propria tavola di regole pittoriche che mostra la corrispondenza fra diverse granulometrie di sabbia, essenze e “nuances” di colore. Pittura multisensoriale, appunto. Mezzi utilizzati: grani di sabbia disponibili in dieci granulometrie corrispondenti ad altrettanti colori e fragranze con dieci valori di luminosità cromatica e intensità olfattiva. Più è grande la granulometria della sabbia, più scura è la tonalità del colore ad essa associata.
Inoltre, ciascuna tonalità è abbinata ad una fragranza specifica. Così, una volta apprese le semplici regole della “Maris World Standard Table”, chiunque può iniziare a cimentarsi nella pittura con questa tecnica, “superando – sottolinea Takahashi – le barriere fisiche che impediscono o inficiano il coinvolgimento di persone con disabilità visiva nel processo creativo e cognitivo, e permettendo di superare anche le barriere culturali che impediscono, in tutto o in parte, l’apprezzamento dell’arte di tradizione diversa”. L’arte al servizio della socialità. Con forti connotazioni simboliche. Testimoniate per altro dalla piantumazione di un gelso (“Bombyx mori”), l’albero dei bachi da seta, che si terrà, a seguito dell’inaugurazione della mostra, nell’Orto botanico del “Museo del Tessile” e che, in chiusura, vedrà anche servita al pubblico una profumata granita al gelso. Un gesto ispirato alla “scultura sociale” di Joseph Beuys e delle sue “7000 querce”, opera realizzata dallo scultore tedesco con pietre di basalto per “Documenta” a Kassel, “un gesto che rinnoviamo con l’intento di legare idealmente – dice Melanie Zefferino, presidente del Museo chierese – Chieri e il quartiere Satagaya di Tokyo, dove ha sede la Scuola di Belle Arti in cui sono stati preparati materiali e supporti per il ‘workshop’ dell’artista”. Nei tre giorni successivi all’inaugurazione della mostra (18, 19 e 20 luglio), Takahashi condurrà infatti laboratori con l’impiego della tecnica “Maris”, riservati a bambini e adulti con disabilità visiva. I partecipanti saranno chiamati a riprodurre un disegno tessile creato negli anni Venti dallo “Studio Serra & Carli” di Chieri, un motivo vegetale stilizzato, per la precisione un “Trifoglio blu”, di cui il “Museo del Tessile” conserva la messa in carta millimetrata nel suo archivio storico. Saranno, inoltre, organizzate visite esperienziali gratuite all’Orto botanico, a cura di Giulia Perin, mentre all’interno del Museo saranno previste alcune stazioni tattili, a cura dell’artista Lisa Fontana, anch’esse riservate a persone non vedenti o ipovedenti.
Allinea particolari chiarificatori, dalla posa ai gesti delle mani allo spazio che li circonda, scavando nel terreno psicologico, dalle iscrizioni agli elementi araldici – dove l’inganno è sempre in agguato, a causa dell’aggiunta di aggiornamenti, di ridimensionamenti, del cambio di cornici di diversa epoca, di accostamenti errati, di reinterpretazioni che si discostano più o meno infedelmente dai soggetti originali e di problemi attributivi che con insuperabili difficoltà tentano di far luce -, dagli abiti ai gioielli, tutti a testimoniare lo status, l’affermazione del prestigio, il potere, la ricchezza raggiunti. Anche alcuni animali, posti accanto al personaggio ad evocare innanzitutto le sue virtù, indizi in qualche occasione di difficile o controversa interpretazione. Tre secoli di storia, studi, metodi, approfondimenti, azzardi, intuizioni, certezze affrontati in occasione della mostra “Come parla un ritratto. Dipinti poco noti dalle collezioni reali” da quaranta studenti del Corso di Laurea magistrale in Storia dell’Arte, un continuo confronto con docenti, studiosi, conservatori e restauratori, la conclusione di un progetto didattico-formativo avviato tre anni fa con il Dipartimento Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino.
Quattro le sezioni tematiche. “L’immagine del potere” racchiude il periodo che va dal trasferimento della capitale del ducato a Torino (1563) alla nomina di Vittorio Amedeo II a re di Sicilia prima (1713) e di Sardegna poi (1720) e che allinea la suggestiva sequenza dei “ritratti di Stato”, dove è esaltato il carattere pubblico degli effigiati, ponendo in risalto la posa, la fisionomia idealizzata, gli abiti e altri segnali come la croce dell’ordine dei santi Maurizio e Lazzaro o il collare dell’Annunziata; dove una celebrazione particolare è riservata al ritratto equestre, un esempio tra tutti “Il giovane dignitario” che dovrebbe essere letto con probabilità come Carlo Emanuele II, opera di un pittore attivo alla corte, databile 1640, un sovrano preziosamente vestito, un ampio cappello piumato nella mano destra e mosso in segno di saluto, in sella ad un destriero bianco, sullo sfondo, sul lato sinistro, la silhouette dell’antico palazzo Madama. Alla “corte femminile” (qui le attribuzioni si sprecano, i punti interrogativi si leggono con rigore quasi su ogni etichetta che accompagni il quadro) è dedicato il passo successivo, volto a dare tutta l’importanza che la donna ebbe nelle principali monarchie europee, con lo sguardo principale alla corte sabauda, da Caterina d’Asburgo, andata sposa a Carlo Emanuele I alle due Madame Reali, Cristina di Francia e Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours: interessanti i quattordici ritratti di duchesse, marchese e baronesse, consorti di conti e gentiluomini di camera, dovuti ancora ad artisti di corte (dal 1655 al 1664). Opera pregevole il “Ritratto di coniugi” di un anonimo pittore bergamasco sul finire del XVI secolo (che forse ha guardato al Moretto o al Romanino, azzardiamo), forse dovuta a Sofonisba Anguissola una probabile “Margherita di Savoia” (qualcuno la dice Caterina Micaela, figlia di Filippo II di Spagna; inizio del XVII), posta all’interno di una camera, un sontuoso abito color oro e avorio, secondo i dettami della moda in auge presso la corte spagnola dell’epoca, il diadema a falce lunare che allude alla purezza della giovane, nell’atto di posare la destra sulla testa di un leone posto accanto a lei, suggerito simbolo di fedeltà coniugale.
gioielli. I loro ritratti preannunciano già l’excursus all’interno del ruolo istituzionale come pure la rappresentazione della prolifica discendenza dei duchi: e nella sontuosità della vita di corte non mancano altresì i momenti affettivi, gli oggetti della vita quotidiana, gli animali domestici, i semplici giochi. Si fanno (nascondendoli al riparo del solito “pittore attivo alla corte sabauda), come ad esempio per i (ancora una volta) probabili ”Francesco Giacinto e Carlo Emanuele II” – i figli di Vittorio Amedeo I, il primo morto a sei anni) -, i nomi del fiammingo Giovanni Caracca o di Antoon van Dyck (così Roberto d’Azeglio) o di Francesco Cairo (così tra gli altri Angela Griseri e Federico Zeri), operante durante due soggiorni torinesi, in particolare il primo, collocato tra il luglio del 1633 e il 1639. Non meno importanti, in ultimo, “Le alleanze internazionali”, in cui i ritratti esposti sono esempi della fitta rete che i Savoia, in linea con le varie corti europee, tessono per approdare a proficue “presentazioni”, ad unioni politiche, alle trattative matrimoniali. Con l’effigie di principesse e di dignitari e di cortigiani si è contribuito a fare un bel pezzo di strada nella Storia. Tra le opere esposte, di Domenico Duprà (“regio pittore per li ritratti” tra il 1750 e 1770, con il fratello Giuseppe) è il giovanile ritratto di “Maria Giuseppina di Savoia, contessa di Provenza”, primogenita di Vittorio Amedeo III. Nel 1771 sposò Luigi Saverio di Provenza, figlio del delfino di Francia Luigi Ferdinando e fratello minore di Luigi XVI: allo scoppio della rivoluzione, con la morte del re, Luigi Saverio fu costretto a fuggire in esilio, di paese in paese, durato più di ventitré anni sino al tramonto napoleonico, con la moglie. Maria Giuseppina morì durante il periodo inglese del confino, quattro anni prima che il marito salisse al trono francese con il nome di Luigi XVIII. Una Savoia mancata alla corte di Francia.
“Guardare al domani con uno spirito nuovo”. Migliore e improntato alla speranza e alla fiducia. E il buon Dio sa di quanto, in questo periodo più che mai, ce ne sia davvero bisogno. Di speranza e di fiducia. E’ questo l’obiettivo cui mira la rassegna“Bellezza tra le righe”, nata un anno fa con la precisa volontà di condurre il pubblico in luoghi di rara bellezza, fra gli antichi vialetti e gli alberi secolari di due dimore storiche della provincia di Torino, il Castello di Miradolo a San Secondo di Pinerolo (via Cardonata, 2) e Casa Lajolo a Piossasco (via San Vito, 23), dove andranno in scena, sempre di domenica e fino al 17 ottobre, conversazioni con alcuni importanti protagonisti del presente più vario, in grado di “veicolare messaggi catalizzanti e forti, che siano sprone per affrontare il futuro con ragionevole fiducia”. Firmata da “Fondazione Cosso” e “Fondazione Casa Lajolo”, con il contributo della Regione Piemonte e la collaborazione di “Legambiente Pinerolo” e Associazione “Pensieri in Piazza”, questa seconda edizione (già avviata domenica 27 giugno) ha come tema quello della “gentilezza”, parolona importante e salvifica, declinata in più ambiti.
(“UTET”), un inno alla straordinaria quotidianità di una natura finalmente libera da controlli. Di grande interesse sarà anche l’incontro, domenica 26 settembre (ore 16), a “Casa Lajolo” con Irene Borgna, laurea in filosofia e dottorato di ricerca in antropologia alpina, che racconterà del suo straordinario viaggio dei “Cieli Neri” (“Ponte alle Grazie”): partita con una mappa dei “cieli neri” europei tra le mani, la scrittrice è andata infatti alla ricerca di quei luoghi che ancora resistono all’inquinamento luminoso, dalle Alpi Marittime al Mare del Nord, a bordo di un camper. “Perché anche l’oscurità, quella più profonda, che ci permette di alzare gli occhi e osservare sulla volta celeste un universo intero, è gentilezza vera”. A chiudere la rassegna, domenica 17 ottobre (ore 16) saranno Andrea Colamedici e Maura Gancitano, filosofi e scrittori, gli ideatori di “Tlon”, scuola di filosofia, casa editrice e libreria teatro, che racconteranno di una filosofia “calata nella lettura” e nel confronto con la società contemporanea Una filosofia che può diventare “manuale e strumento per vivere”.