CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 488

Coronavirus, sospeso Seeyousound Festival

A tre giorni dall’inizio della VI edizione di SEEYOUSOUND International Music Film Festival, l’Associazione Seeyousound, organizzatrice del festival, è costretta a comunicare la sospensione della manifestazione, inizialmente prevista al Cinema Massimo MNC di Torino fino a domenica 1 marzo 2020.

L’“Ordinanza contingibile e urgente n. 1” emessa in data 23 febbraio 2020 dal Ministro della Salute di intesa con il Presidente della Regione Piemonte in materia di “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019” impone la “Sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi, in luogo pubblico o privato, sia in luoghi chiusi che aperti al pubblico, anche di natura culturale, ludico, sportiva e religiosa”.

Aggiornamenti su eventuali riprese della programmazione saranno rese note non appena disponibili.

Tutto lo staff di Seeyousound ringrazia ogni singolo spettatore che ha aspettato l’inizio del festival e ha partecipato in questi giorni alle proiezioni.

 

SEEYOUSOUND Torino è organizzato da Associazione Seeyousound, con il patrocinio di Museo Nazionale del Cinema e Città di Torino, con il contributo di Regione Piemonte e Fondazione CRT.

 

INFO // www.seeyousound.org // info@seeyousound.org // facebook.com/SEEYOUSOUND

Angelo Morbelli nella mostra del Divisionismo a Novara

La bella mostra “Divisionismo-Rivoluzione della luce” al Castello Visconteo di Novara, curata da Annie Paule Quinsac a cui si deve il grande merito di essersi per prima interessata al Neo Impressionismo scientifico, mette a confronto i vari esponenti di quello che fu denominato per comodità “Movimento” anche se al nascere non vi fu un manifesto degli artisti, concordi tutti nella tecnica del colore diviso ma non nello spirito

Per noi monferrini, che riteniamo “Nostro” Angelo Morbelli, che nei mesi estivi viveva alla Colma di Rosignano dove esistono ancora intatti l’ atelier di Villa Maria e il giardino tante volte ritratto, trovare esposti ben sette dipinti è un motivo in più per invogliare alla visita.

Decantate le mode, trascorso il tempo necessario per arrivare ad una definitiva valutazione, egli, oltre ad essere ritenuto il più osservante nell’applicazione alla pittura delle teorie dell’ottica, senza dubbio è riconosciuto grande artista dallo stile personalissimo dimenticando i giudizi penalizzanti di Grubicy che lo riteneva irritante per la troppa precisione e persino della stessa Quinsac che lo definiva scolaretto di modesto talento benché ne riconoscesse il ruolo di attento ricercatore e sperimentatore. Il confronto tra i vari artisti esposti evidenzia affinità e discordanze, il decorativismo onirico e allucinato di Gaetano Previati, il misticismo proletario e la coscienza politica di Giuseppe Pellizza, la visione panteistica di Giovanni Segantini, l’accanita denuncia sociale di Emilio Longoni, l’adesione al vero di Morbelli che lo avvicina ai modelli letterari di Verga e Capuana nel cogliere ciò che vede con un certo distacco e fatalismo.


Pur con interesse e commozione ai problemi sociali, nel clima del socialismo umanitario del suo tempo, Morbelli ha un atteggiamento tiepido, distante dalla adesione alle lotte progressiste di classe di un Longoni (In mostra “l’oratore dello sciopero”), di un Pellizza e di altri pittori divisionisti. Nella prima sala troviamo uno dei suoi temi preferiti riguardo la semplice quotidianità della vita agreste, espressa nella “Partita alle bocce” contrapposta a “Fumatrici di hashish” di Previati intriso di maledettismo baudelairiano, differenziandosi anche da “Dopo il temporale” di Segantini più inquietante e vibrante già improntato alla rivoluzione della luce.Il “Consiglio del nonno – parlatorio luogo del Pio Albergo Trivulzio”, facente parte della serie sulla poetica della vecchiaia, è trattato da Morbelli senza toni tragici, con la consapevolezza che essa è qualcosa di ineluttabile, tristezza, malinconia, rimpianto ma non dramma.

I suoi vecchi sono accuditi, puliti, vestiti dignitosamente, non descritti in scene strappalacrime; in questo caso il vecchio è non come al solito rassegnato e inattivo, anzi assume il ruolo gratificante di elargire saggezza alla nipote facendo tornare alla mente le “Vecchine curiose” vivaci e motivate nell’osservare un quadro dell’artista sul cavalletto.Nella terza sala il trittico “Sogno e realtà” diventa metafora del trascorrere del tempo, della dialettica vita – morte, giovinezza-vecchiaia, attraverso un simbolismo di facile comprensione avulso da oscuri intellettualismi mentre nella sala successiva “Neve”, realtà fotografica di purezza cristallina con sfoggio di padronanza tecnica, si differenzia dalle nevicate più liriche di Previati e di Pellizza oltre che dal simbolismo segantiniano che in “Savognino sotto la neve” allude al significato pregnante della coltre bianca come morte di tutte le cose.

L’ultima sala fa ritrovare il tema del paesaggio con “Alba domenicale” del 1915 che, come spesso usa Morbelli, ritorna su iconografie precedentemente trattate, in questo caso nel 1890 quando dipinse una stradina collinare che scende alla Cappelletta verso Terruggia, sullo sfondo, percorsa da alcuni devoti monferrini con il vestito della festa, mentre si recano alla Santa Messa domenicale.Infine la splendida “Meditazione” presenta uno dei più alti momenti della sua arte portando l’artista ad una dimensione di purezza assoluta nel ritrarre ragazze adolescenti, immobili, immerse in pensieri segreti, estraniate e inconsapevoli della presenza del pittore che non pretende di penetrare nel loro mondo interiore.

Ne esce un’atmosfera di silenzio, mistero e atemporalità quasi metafisica dove tutto si ferma, niente a che spartire con le figure femminili di Degas, spiate per cogliere voyeuristicamente la gestualità dei corpi nelle azioni quotidiane.Una mostra imperdibile che, come le precedenti alla Galleria Bottega Antica, alla GAM di Milano e al Museo Civico di Casale Monferrato, durante il 2019, contribuisce a celebrare il centenario della morte del nostro grande artista.

Giuliana Romano Bussola

Enrico Massimino, un simpatico monello per una nuova umanità

“Panni stesi al vento” nelle sale della Galleria “Arte per Voi” di Avigliana

 

Strano titolo – Panni stesi al vento, a cura di Luigi Castagna e Giuliana Cusinoquello scelto da Enrico Massimino, oggi sessantacinquenne, musicista e pittore che si divide tra la frenesia torinese e la calma di Coazze, che è innamorato del Novecento e dei suoi protagonisti Picasso Mirò e Chagall, che strizza l’occhio al pop e al mondo del fumetto (tantissimo), per la sua mostra ospitata sino al 15 marzo negli spazi della galleria “Arte per Voi” di Avigliana (piazza Conte Rosso 3). Strano già nell’allestimento, ovvero le opere appese alle pareti della galleria con fili per stendere e fissati da mollette: per cui quelle “carte da recupero” su cui Massimino ospita pennarelli e pastelli a cera ci vogliono ricordare – ma prepotente si fa largo la memoria dell’autore – quei bucati che “le nostre nonne stendevano all’ultimo piano delle loro case in città oppure nelle aie delle cascine delle nostre campagne e li lasciavano lì a purificarsi al sole ed al vento”, reclamando oggi al caldo immobilismo del sole un più ravvivante fluttuare del vento, in tutto il proprio dinamismo. Un’atmosfera di allegri ricordi che balza improvvisa e inaspettata alla dedica al popolo tibetano “che subisce con dignità ed in silenzio l’esilio e l’esproprio della propria cultura ed è un piccolo omaggio al coraggio di un resistere senza ricorrere alla violenza. Come le preghiere tibetane sventolanti al vento freddo delle alte montagne diffondono da sempre il loro carico di speranze così i miei umili disegni vogliono omaggiare il dignitoso dolore di chiunque lotti per la propria libertà e per quella dei suoi simili”. Voli pindarici con un pizzico d’azzardo, che non ti immagini, che prendono strade assurde e lontane. Strade troppo personali. Strade che cercano una scusa nell’esser lì, nel fare e forse persino nell’amare quel tipo di pittura, strade che sperimentano con ansia una propria direzione, qualunque essa sia.

E allora dove va Massimino? Può anche voler addentrarsi tra i capolavori del Quattrocento, magari chiedendo a prestito a Masaccio l’Adamo ed Eva della Cappella Brancacci del Carmine fiorentino (e non importa se il primo uomo ha la sua bella pelle scura!), i protagonisti al riparo di un albero e insidiati dal rosso serpente, tra un contorno di un sole e di piccole nuvole, di una gallinella e di un omino dalla sana espressione fanciullesca. Questo è Massimino, che “gioca” con i colori e con questi personaggini “bambinescamente” divertenti che riempiono giorno dopo giorno le sue opere. Provate a immaginare il Nudo rosa di Modigliani del 1917, certo liberato della comodità dei cuscini ma appieno circondato da barchette e campanili, nuvole e omini, trenini e comete, topi e ancora gallinelle e cani che abbaiano forse ferocemente, castelli e montagnole e fiori, serpenti e stelline e razzi in partenza verso altri mondi sconosciuti, pesci buttati alla rinfusa in acque o sulla superficie di piccole colline verdi, chi più ne ha più ne metta, l’importante è occupare l’intera superficie, con il terrore dell’horror vacui ma con divertimento, quello del fanciullino, quello della serenità ritrovata. O ancora “cinque poveri umani” multicolori – sono i protagonisti di una vicenda tutta da scrivere che per ora s’intitola Contaminazioni (2011), ancora i tratti di simpatica ingenuità, ancora il corredo di comprimari che ormai abbiamo imparato a conoscere e con qualche fatica ad accettare.

 

L’attesa infine (rivista sette anni fa ad Alba alla Fondazione Ferrero) che Carlo Carrà compose nel 1926 in Versilia, con un bellissimo quanto morbido paesaggio toscano che circonda il cane nero e l’uscio da cui compare la donna, entrambi immobili, nella ricerca sull’orizzonte di un accadimento o di una venuta, nelle mani spensierate di Massimino diventa un richiamo teatrale beckettiano, un Godot che s’aspetta (forse quel triangolo con tanto d’occhio al centro, immerso nel tappeto intensamente blu che è divenuto l’antico terreno, specifica con sicurezza la radice di quel nome su cui l’autore irlandese non volle mai pronunciarsi?), ancora immobili ma tra la calma e la rabbia, mantenendo ogni cosa al loro posto, nel ricordo ossequioso dell’originale, ma allo stesso tempo stravolgendo il percorso man mano che s’avanza, nei colori accecanti e in quegli elementi aggiunti, soprattutto, dall’omino in primo piano al calvario sullo sfondo alla strada bianca che piattamente sale alla casa sul colle. Questo è Massimino: e non sai se prenderlo come il portatore sano di uno sberleffo o un simpatico monello che si diverte a dipingere pro domo sua un’umanità e un futuro che lui ama e che ha una voglia matta e sacrosanta di far conoscere a chi avrà il piacere di guardarlo.

 

Elio Rabbione

 

“En attendant Godot”, 2018, pennarelli e pastelli a cera su carta di recupero, cm. 62 x 75

“Adamo ed Eva”, 2018, pennarelli e pastelli a cera su carta di recupero, cm 115 x 60

“Great italian nude (Nudo rosa di Amedeo Modigliani)”, 2018, pennarelli e pastelli a cera su carta di recupero, cm 76 x 137

 

Il Carnevale di Bardonecchia Scena1312

Il Carnevale di Bardonecchia Scena1312 è all’insegna di masche, tradizioni e leggende piemontesi.

 

Una notte tra musica, storia, mitologia e folklore.

Sabato 22 febbraio – Racconti in una notte di luna piena”, con Marisa e Manuel Torello ed Estemporanea Ensemble.  Ingresso gratuito.

Il Piemonte è una terra antica, piena di vicende e tradizioni; ogni paese ha la sua leggenda su fantasmi e fantasie, e in Val di Susa si tramandano alcune di quelle più suggestive.

Gli studi sulle masche e sui racconti della Val di Susa sono frutto di preziose ricerche fatte da Marisa e Manuel Torello, che da sempre si dedicano alla valorizzazione delle culture popolari, facendo emergere aspetti inusuali della nostra storia a cavallo tra l’800 e il ‘900.

Sabato 22 febbraio, alle 21, in occasione del Carnevale, queste grandi storie piemontesi, in bilico tra mito e realtà, sono protagoniste al Palazzo delle Feste dello spettacolo “Racconti in una notte di luna piena”, nell’ambito di Scena 1312, stagione di musica-teatro della città di Bardonecchia.

A dare voce a queste leggende sono Marisa Torello e l’attrice Alessia Donadio, accompagnate sul palco dall’Estemporanea Ensemble, formata da Lucia Marino (clarinetto), Massimo Bairo (violino), Tamara Bairo (viola), Fiorenzo Pereno (sassofono), con la partecipazione di Manuel Torello (chitarra e hang).

Lo spettacolo è un grande viaggio nelle piaghe del passato, tra miti, folklore e leggende piemontesi.

Per rivisitare qualche frammento di quel mondo fiabesco tramandato per secoli, di generazione in generazione, vengono raccontate alcune storie trovate in una vecchia stalla abbandonata in Val di Susa. Qui spesso storia e leggenda si fondono, s’intersecano e si confondono, e diventa difficile scoprire dove comincia l’una e dove finisce l’altra.

Quando il gelo avvolgeva le case e le nebbie della Dora ovattavano i rumori, la notte scendeva presto e la gente si ritrovava nel tepore delle stalle, per le vijà, le tradizionali veglie.

Nel caldo riparo, gli innamorati si occhieggiavano da lontano, le donne filavano o ricamavano il corredo. Gli uomini aggiustavano zappe e rastrelli e si scambiavano notizie sui raccolti.

Momenti di aggregazione operosa, mentre si raccontava di diavoli in cerca di anime da dannare, di massi danzanti e, soprattutto delle masche. Le figlie della notte in volo nell’oscurità per compiere sortilegi, con la capacità di trasformarsi in animali e praticare la “fisica”, che oggi chiameremmo semplicemente magia nera.

La masca, in molti casi, era una solo una donna profonda conoscitrice della farmacologia arcaica, che sapeva raccogliere le erbe giuste nei periodi più idonei, in modo da non vanificare le potenzialità di certi vegetali.

Altra cosa erano le cunte, leggende ascoltate nella semioscurità tra le ombre che il lume a petrolio proiettava sulle pareti della stalla.

Le origini celtiche di Bardonecchia, terra di canto e musica

Originariamente la conca dell’antica Bardonisca era occupata da un lago alimentato dai torrenti alpini e avente come emissario la Dora. Ne è testimone l’antica denominazione della chiesa “Santa Maria ad lacum” eretta dov’è ora la Chiesa parrocchiale. Il lago era chiuso da una barriera rocciosa nei pressi dell’attuale Rocca Tagliata, che sarebbe stata demolita dai Saraceni.

Qui avrebbe trovato ospitalità uno dei principali collegi di cantori Bardi, ritenuti più sacerdoti che poeti. Studiavano per tramandare in poesia e in musica tradizioni e miti, e compivano i loro sacrifici, anche umani, per trarne auspici. La pietra sacrificale si trovava un tempo nella chiesa di Sant’ Ippolito. Si credeva avessero anche poteri magici, ed era noto che ucciderne uno portasse sfortuna.

Allietavano le feste dei Druidi, i sacerdoti Celti, con il loro canto e la loro musica, ed alcuni studiosi affermano infatti che il nome di Bardonecchia in lingua celtica significa “luogo del canto o musica“.

Le veglie a Bardonecchia iniziavano subito dopo i Santi e si concludevano all’Annunziata, il 25 marzo. Di qui il detto: “A la Anuncià, adieu à la veglià”. Sotto il Colomion, sul Pianoro del Prasserins, in certe notti di luna piena, aveva luogo il Bal dj Sursié, con gli stregoni che a volte assumevano l’aspetto di folletti.

La Masca di Giaveno e la Torre delle Streghe

Una delle cronache più antiche, che risale al Trecento, racconta della Masca Clerionessa di Giaveno, esperta in filtri e sortilegi d’amore alla quale si rivolgevano gli innamorati; peccato che spesso le ragazze che bevevano le sue pozioni morissero tra atroci tormenti. Venne condannata ad essere murata viva nella torre del paese, ma il suo corpo non fu mai ritrovato: era diventata un fantasma. Il luogo in cui scomparve venne considerato maledetto e gli è rimasto il nome di Torre delle Streghe.

Dal Musinè a Borgone, da Caprie a Cesana, fino alla misteriosa città d’oro

Sulle pendici del Monte Musinè, c’è il Pian d’le Masche, in borgata Cresto presso Sant’Antonino, si trova la “Pera d’le faje”, a Caprie c’è un imponente dolmen chiamato “La tavola della strega “, a Borgone c’è la Roccia dei fuochi dove si racconta che le crudeli adoratrici del sole accendevano i falò per il sabba, il ballo delle Masche. Il Castello della Forca è il nome di una delle due fortezze della Cesana medievale e che, secondo una diceria popolare, sarebbero state a quel tempo in comunicazione tra di loro grazie ad una galleria sotterranea che passava sotto il letto del fiume. E ancora l’antica città di Rama, che pare non sia più un mito dal 2007 quando l’archeologo torinese Mario Salomone ha reperito delle lamine d’oro incise. E la misteriosa città d’oro, che si favoleggia si trovasse sulle pendici del Roc Mahol, antico nome del Rocciamelone e che scomparve durante un furioso nubifragio. In Valle si parla ancora oggi di ritrovamenti di piastre di metallo prezioso e dei resti delle megalitiche mura.

Scena1312 è la rassegna di musica-teatro promossa dal Comune di Bardonecchia e curata da Estemporanea, diretta da Lucia Marino, per la parte musicale, e dall’Accademia dei Folli, diretta da Carlo Roncaglia, per il teatro. Nell’inverno 2019-2020 è giunta alla terza edizione.

Racconti in una notte di luna piena
Masche, tradizioni e leggende a Bardonecchia e nella Val di Susa tra Storia, Mitologia e folklore raccontate da Marisa Torello

Sabato 22 febbraio – ore 21

Palazzo delle Feste | piazza Valle Stretta 1, Bardonecchia

INGRESSO GRATUITO

con

Alessia Donadio – attrice

e con

Estemporanea Ensemble

Lucia Margherita Marino

clarinetto e clarinetto basso

Massimo Bairo – violino

Tamara Bairo – viola

Fiorenzo Pereno – sassofono

Manuel Torello – chitarra e hang

www.bardonecchia-scena1312.it

 

 

“Il mare oscuro della verità”, non solo noir

Lo scrittore di origini calabresi, ma torinese di adozione, Luisio Luciano Badolisani, classe ‘63 e sette libri pubblicati alle spalle, è uscito a dicembre con un nuovo romanzo pubblicato da Linea Edizioni, casa editrice padovana diretta da Lisa Marra.

Il mare oscuro della verità, a un primo approccio, potrebbe sembrare un normale romanzo, forse un noir (nella sua accezione più ampia) considerati i luoghi di ambientazione narrativa alquanto peculiari sotto l’aspetto criminale e di degrado.

Potrebbe, ma non è così. «Non voglio essere etichettato come giallista», chiarisce al riguardo Badolisani, «Scrivere gialli è divertente e continuerò a farlo sicuramente, ma vorrei avere la possibilità di esplorare altri ambiti: intimisti, sociali, esistenziali e sentimentali, perché no?».

Difatti, a una seconda e più attenta lettura, analizzando particolari passaggi, si appalesa come un testo polivalente, in cui trovano spazio diverse tematiche di natura letteraria, economica, sociologica, criminologica, financo giuridica. Di alcune se ne discute da diversi decenni, altre sono di recente attualità.


In altri termini, si può affermare che questo libro consente molteplici interpretazioni del  testo stesso da parte del lettore. Per tali motivi lo potremmo definire “un’opera aperta”, secondo la famosa definizione che fu data da Umberto Eco nell’omonimo saggio del 1962. Ecco perché l’autore intende sfuggire alle definizioni nette, preordinate, come quella di “genere letterario”, analogamente al protagonista di questo suo ultimo lavoro, il professore Adriano Terranova, che in fondo difficilmente saprà darsi un’identità di luogo precisa, dopo molti anni di lontananza dalla propria terra di origine.

Compiuta la maggiore età, a fine anni Sessanta, il protagonista viene infatti  spedito dai nonni paterni, che l’hanno adottato, a condurre la sua vita nella metropoli subalpina. Senza possibilità di scelta.

“Qui non torni nemmeno per i nostri funerali”, gli diranno, perché non vogliono che sia contaminato dalla cultura omertosa e criminale imperante nella Calabria di quegli anni,  ossia quella della ’ndrangheta. Una piaga sociale, profonda, che affligge storicamente il nostro Paese e non solo, atteso che tale organizzazione mafiosa rappresenta uno dei network criminali più potenti al mondo.

Una descrizione precisa della realtà storica e socio-economico di un territorio e delle dinamiche psicologiche dei suo abitanti, che consente, anche ai non addetti ai lavori, di comprendere perché in quella parte d’Italia alligna la “mala pianta” (metafora efficace utilizzata da Antonio Nicaso, storico delle organizzazioni criminali, tra i massimi esperti di mafia calabrese nel mondo, n.d.r.). In particolare, con forza e incisività narrativa l’autore riesce a descrivere quello che il sociologo Edward C. Banfield definisce “familismo amorale”, inteso quale contesto socialmente ed economicamente arretrato, potenzialmente criminogeno, soprattutto quando impone come norma sociale l’omertà. Atteggiamento deviante che ricorre nel corso della narrazione, da cui non rimane indenne neanche il protagonista, a testimoniare la pervasività del problema.

Unica soluzione per sottrarsi all’influenza nefasta di detto condizionamento risulterà l’emigrazione forzata al Nord, scelta a lui imposta, proprio allo scopo di proteggerlo Rispetterà l’impegno di non tornare e di laurearsi, diventando un rispettabile docente liceale, ma a quale costo? Una vita, la sua, sospesa su un filo trasparente a precipizio nel vuoto: pure essendo stato amato, sente di aver vissuto senza amore. «Ho cercato di scrivere una storia di sentimenti per capire se questi possano prescindere dalle condizioni di appartenenza a un luogo, a una famiglia, a un ceto sociale», racconta l’autore, «Quello che noi proviamo, il nostro bagaglio emozionale è
strettamente correlato alla nostra storia personale».

Adriano che tornerà in Calabria dopo quarant’anni non la troverà così cambiata, ma soprattutto scoprirà delle amare verità rispetto alle sue vicende, dopo l’incontro clandestino con il suo compagno di giochi infantili, diventato un boss della criminalità organizzata, un latitante imprendibile.

Inoltre, il protagonista, dovrà fare i conti con la morte dei suoi genitori avvenuta a seguito di uno strano e alquanto misterioso incidente stradale. Lui un bimbetto in fasce fu tratto in salvo, ma il mistero dell’affidamento ai nonni sarà una delle tante questioni irrisolte della sua esistenza.

Alla fine congederà i lettori un vibrante proclama dell’autore: il contrasto alla mafia deve essere effettuato anche sul versante della cultura della legalità, diffondendola soprattutto tra le nuove generazioni. In siffatto modo Badolisani dimostra di aver interiorizzato l’insegnamento impartito dagli eroi della lotta alla mafia, tanto da inserirlo nel romanzo stesso come condizione di un possibile cambiamento della situazione in cui versa la sua terra d’origine e di aperto rifiuto alla rassegnazione.

 

Romanzo: IL MARE OSCURO DELLA VERITÀ
Autore: Luisio Luciano Badolisani
Editore: Linea Edizioni
Uscita: dicembre 2019
Pagine: 144, 15,00 euro
Prefazione: Pierluigi Granata

L’Oriente pittorico di Arnold Henry Savage Landor

“Dipingere l’Asia dal vero”. Fino al 14 giugno in mostra al MAO / Famoso in vita. Inspiegabilmente ed ingiustamente dimenticato dopo la morte

Strano destino (non di rado per gli artisti accade esattamente il contrario) quello occorso ad Arnold Henry Savage Landor (Firenze, 1865 – 1924), ricordato con la suggestiva mostra monografica “Dipingere l’Asia dal vero”, curata da Francesco Morena e ospitata negli spazi del MAO- Museo d’Arte Orientale di via San Domenico 11 a Torino, fino al 14 giugno prossimo.

Figura perfino esageratamente poliedrica, ma estremamente interessante. Artista, antropologo, esploratore, avventuriero, scrittore, fotografo, giornalista e pur anche inventore: Savage Landor fu tutto questo. Troppo, forse, per poterne ritagliare un profilo ben definito e chiaro da trasmettere con successo ai posteri. Nato a Firenze, in un ambiente colto e raffinato, da padre inglese e madre italiana (nonno, lo scrittore Walter Savage Landor, da cui probabilmente ereditò il focoso temperamento rivoluzionario che portò l’avo paterno a partecipare alla guerra d’indipendenza spagnola contro Napoleone Bonaparte), ancora adolescente, s’invaghì della pittura e segui, in particolare, gli insegnamenti del celebre Stefano Ussi, docente all’Accademia di Belle Arti di Firenze e allora fra i maggiori esponenti della pittura orientalista in Italia. Ma alla passione per l’arte s’affiancò ben presto la smania del viaggio e dell’esplorazione, ovunque e comunque, alimentata forse dall’intensa attrazione per i romanzi di Jules Verne. Ancora giovanissimo – per bagaglio, scrisse lui stesso, solo pennelli, colori, taccuini vari e una pistola – gira il mondo in lungo e in largo, visitando prima alcuni paesi dell’Africa settentrionale e dell’America, per poi muoversi verso l’Asia: Cina, Giappone (nell’isola di Hokkaido, fu il primo occidentale ad entrare in contatto con il popolo allora del tutto sconosciuto degli Ainu), Corea, Tibet e Nepal. Ovunque dipinge. Annota. Documenta. Con uno sguardo da eccentrico “colonialista” come lo definisce il curatore della mostra. In quei luoghi misteriosi e, ai più, privi di connotazioni geografiche e culturali, dipinge con buona tecnica centinaia di opere “dal vero” in uno stile rapido, immediato e piacevolmente materico d’impronta decisamente impressionistico-macchiaiola. Le sue avventure, non poche e non da poco (in Tibet fu catturato e torturato a lungo, in Brasile si trovò faccia a faccia con un boa constrictor e sopravvisse a 16 giorni di assoluto digiuno) gli fornirono anche materiale di prima mano per i suoi 11 libri, tutti di gran successo e illustrati con le riproduzioni dei quadri dipinti in viaggio o con le fotografie da lui stesso scattate.   L’esposizione al MAO (che segue quella realizzata sei anni fa alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze) raduna il corpus più consistente e a noi noto della sua produzione artistica: circa 130 dipinti ad olio, 10 acquerelli e 5 disegni. Il tutto proveniente da più collezioni private e capace di rendere la meritata gloria a un pittore ancora tutto da rivalutare dopo decenni d’immeritato oblio, a un artista decisamente “moderno” con i suoi soggetti “en plein air”, ben lontani “dallo stile minuziosamente classico della pittura di genere orientalista allora in voga”. Dalla realistica “Ragazza Ainu con bambino sulle spalle” alle poetiche “Figure sotto i ciliegi in fiore” fino alla coreografica “Danza delle donne Ainu”, ma anche nei soggetti paesistici come lo “Scorcio con il portale principale del Palazzo Reale a Seoul”, appare del tutto evidente la singolarità documentaristica di una pittura capace di “fotografare” con immediatezza “luoghi e persone che di lì a qualche decennio sarebbero completamente cambiati per effetto dell’incipiente globalizzazione”.   Oltre ai dipinti realizzati in Asia, in mostra sono presenti anche alcune opere eseguite da Savage Landor durante l’adolescenza a Firenze, nel corso dei suoi viaggi in Europa e nella sua prima esperienza oltre confine, in Egitto, oltreché tutti i volumi da lui stesso pubblicati. Per l’occasione è stato anche realizzato un catalogo bilingue italiano/inglese, edito da SAGEP, con saggi di Francesco Morena e Silvestra Bietoletti.

Gianni Milani

“Dipingere l’Asia dal vero”

MAO-Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436932 o www.maotorino.it

Fino al 14 giugno

Orari: dal mart. alla dom. 10/18; lun. chiuso

 

Nelle foto

– “La danza delle donne Ainu”, olio su tavola, 1890
– “Ragazza Ainu con bambino sulle spalle”, olio su tavola, 1890
– “La Piattaforma delle Nuvole a Juyongguan”, olio su tavola, 1891
– “Figure sotto i ciliegi in fiore”, olio su tavola, 1889 – ’90
– “Scorcio con il portale principale del Palazzo Reale a Seoul”, olio su tavola, 1891

Il cinema che esalta la musica. Torna il Seeyousound

 Dal 21 febbraio al 1 marzo / Venerdì 21 al Cinema Massimo si accendono i riflettori sul Seeyousound Torino Music Film Festival, l’unico festival di cinema italiano a tematica musicale giunto alla sua sesta edizione dopo aver allargato i propri orizzonti nell’ultimo anno in altre sei città italiane

Dieci giorni in cui spaziare tra i più disparati generi musicali in un ricco programma di ospiti da tutto il mondo, anteprime assolute ed eventi live irripetibili. Nell’anno di Torino città del Cinema 2020 è il primo festival in ordine di apparizione ad aprire le danze ai festeggiamenti.

Ospite d’onore Julien Temple, leggendario regista britannico che ha dedicato la sua intera carriera allo speciale legame che unisce il cinema e la musica, firmando film culto come La grande truffa del rock’n’roll, Absolute Beginners e realizzando videoclip per le piú grandi rock star del pianeta tra cui Rolling Stones, David Bowie, Sex Pistols, Paul McCartney, Depeche Mode, Blur. E sarà proprio Temple ad inaugurare la manifestazione il 21 con l’ultimo lavoro Ibiza – The silent movie realizzato con l’aiuto del dj e produttore Fatboy Slim per ripercorrere la storia della iconica isola, capitale del clubbing internazionale. E il regista britannico sarà protagonista anche sabato 22 febbraio, per la proiezione di tre titoli della sua filmografia accomunati dalla relazione tra luoghi e musica, due dei quali per la prima volta in Italia.

Ma gli ospiti non finiscono qui. Ce n’è per tutti i gusti. Salirà sul palco del Cinema Massimo il compositore e musicista Christophe Chassol che sonorizzerà Ludi, film da lui scritto e composto. Chassol, compositore unico nel suo genere, utilizza il metodo ultrascoring, combinazione di film-documentario, animazione ed effetti speciali in cui lo spettatore diventa protagonista della performance. I Marlene Kuntz propongono in anteprima assolutala sonorizzazione del muto anni ’30 Menschen am Sonntag; Massimo Zamboni dei CCCP e CSI, regalerà al pubblico alcuni brani live per la proiezione de La macchia mongolica; Patrizio Fariselli degli Area sarà protagonista della serata Gioia e rivoluzione che celebrerà Demetrio Stratos, durante la quale suonerà alcuni pezzi; mentre la giornalista e modella Benedetta Barzini, sarà protagonista della masterclass organizzata con IAAD ispirata alla serie Stili ribelli prodotta da Sky Arte.

Tra gli altri anche la regista Lily Rinae che presenta in anteprima internazionale il documentario Born Balearic Jon Sa Trinxa and The Spirit of Ibiza in cui racconta la scena musicale di Ibiza e la vita del “leggendario DJ di Ibiza”; il regista Simon Bird che presenterà Days of the Bagnold Summer, commedia indie con Earl Cave, figlio di Nick; A.J. Eaton autore di David Crosby: Remember My Name, prodotto da Cameron Crowe (autore di Almoust Famous); Gio Arlotta presenta per la prima volta in Italia il suo We Intend To Cause Havoc, tributo agli WITCH, rock band anni ’70 dello Zambia; Marco Porsia porta a SYS Where Does a Body End? sugli SWANS. Infine, un piccolo omaggio a Marco Mathieu, indimenticato giornalista di Repubblica e bassista dei Negazione, con il cortometraggio in anteprima assoluta de Lo spirito continua di Claudio Paletto che ripercorre la lavorazione del disco Young Till I Die dedicato a lui.

Rimangono un punto fermo le storiche rassegne: Rising Sound che ci trasporterà in Africa per scoprire dove nasce il ritmo che fa ballare il mondo, Into the groove, ogni proiezione un evento unico e irripetibile; e le quattro sezioni competitive che offriranno 44 titoli di cui 18 in anteprima italiana: i lungometraggi di finzione e documentari per Long Play Feature e Long Play Doc, i corti di 7Inch e i videoclip di Soundies. La novità di questa edizione è Frequencies, contest di sonorizzazione live lanciato nel 2019 che mostrerà i suoi primi risultati al pubblico.

Così racconta il festival il direttore Carlo Griseri: “Seeyousound numero 6, nuove date e nuovo programma. Quando si lavora con intensità a un progetto come questo, che si sviluppa quasi quotidianamente e che nell’ultimo anno ha visto un’espansione in sei città italiane, oltre a svariati altri progetti e al lavoro internazionale del network di festival tematici nato lo scorso anno proprio durante il nostro, si rischia di non accorgersi del tempo che passa. Poi metti insieme i pezzi di tutto ciò su cui hai lavorato e guardi il programma completo che siamo riusciti a costruire quest’anno: un po’ di orgoglio, inutile nasconderlo, c’è. Bentornati a Seeyousound!”

Giuliana Prestipino

Biglietti e abbonamenti su www.seeyousound.org e alla biglietteria del Cinema Massimo MNC.

facebook.com/SEEYOUSOUND // instagram.com/seeyousoundfestival // twitter.com/seeyousound

 

SYS è organizzato da Associazione Seeyousound. In collaborazione con Museo Nazionale del Cinema, Torino Città del Cinema 2020 // Regione Piemonte. Con il patrocinio di Città di Torino // Con il contributo di Fondazione CRT. L’iniziativa fa parte di ‘Torino Città del Cinema 2020. Un film lungo un anno’, un progetto di Città di Torino, Museo Nazionale del Cinema e Film Commission Torino Piemonte, con il sostegno di Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, in collaborazione con Regione Piemonte, Fondazione per la Cultura Torino. 

www.torinocittadelcinema2020.it

 

 

Nuova veste per il camino di Bernardino Quadri

L’intervento del gruppo Palazzetti. Nel Salone delle Guardie Svizzere a Palazzo Reale

Si erano già incontrati, poco più di una decina di anni fa, di fronte al restauro di quattro piccoli camini all’interno di Palazzo Ducale a Venezia e la perfezione del risultato li aveva spinti alla promessa di una nuova collaborazione: Fondaco Italia, che ama collegare le realtà museali al mondo dell’imprenditoria, e il gruppo Palazzetti di Pordenone, un lungo quanto efficiente percorso nella produzione di stufe e camini.

La nuova, recente collaborazione – unita all’apporto dei Musei Reali torinesi -, “una scommessa cui non si poteva dire di no”, è il restauro del Camino della Sala delle Guardie Svizzere, punto d’ingresso obbligatorio di Palazzo Reale, accesso per secoli di re e ambasciatori, possibile ancor oggi ad immaginarsi come inaccessibile corpo di guardia, il vociare dei soldati, i giacigli agli angoli del grande spazio, il fuoco costantemente acceso. Dal 1661, anno in cui l’architetto Bernardino Quadri (del Canton Ticino, attivo anche nella Basilica di San Pietro a fianco di Bernini e Borromini, le cronache ci dicono che gli screzi continui con quest’ultimo lo avrebbero spinto a raggiungere la nuova corte) lo posizionò, il camino campeggia sulla lunga parete a fronte della importante tela di Jacopo Palma il Giovane, lì a rappresentare la battaglia di San Quintino come il successivo trasporto della capitale sabauda a Torino, posizionato a ridosso dell’alta fascia di marmo verde ottocentesca dovuta a Palagio Palagi (1843) e sottostante le barocche Glorie Sassoni di due secoli prima.

“Restituito alla sua dignità originaria”, ha sottolineato la direttrice dei Musei Enrica Pagella, presentandolo alla stampa nei giorni scorsi e offrendolo al pubblico che lo incrocerà nel percorso attraverso le sale del palazzo. Una dignità che, finalmente, torna a parlarci del nostro territorio e della sua ricchezza, rimettendo a vista, dopo un restauro durato tre mesi e per cui sono occorse 774 ore di lavoro, la bellezza dei marmi usati (di “musicalità di colori” parla ancora Pagella), taluni oggi scomparsi. Dieci persone all’opera, sotto la guida di Annarosa Nicola, le radici ad Aramengo, la competenza e la passione riunite in una sola famiglia ed in un gruppo vincente, un accanito lavoro di pulizia, una webcam a riprendere giorno dopo giorno le tante tappe dei risultati raggiunti, la salvaguardia di questo piccolo gioiello ma imponente e prezioso, l’alternarsi di marmi policromi e di pietre dure, una struttura nobilitata da colonne binate, dai putti di Quadri (forse un riciclo di epoca più antica) e dai busti antichi di imperatori romani (Giulio Cesare al centro, di sapore ellenistico quello a destra di chi guarda), in marmo bianco di Carrara, l’eleganza e il gusto modernamente legati alla corte da Carlo Emanuele II, sovrano mecenate pronto a riunire a Torino quelle opere antiche che andava acquistando durante i suoi viaggi a Roma.

Molti gli interventi eseguiti, anche a cancellare d’obbligo quelli maldestri eseguiti in passato e necessari di una completa revisione. Si è quindi proceduto alla verifica e in taluni casi al preconsolidamento degli elementi lapidei, al riposizionamento e fissaggio delle parti distaccate e instabili, alla cancellazione generale di quanto potesse essere polvere ossidazione e invecchiamento, alla pulitura dei depositi superficiali, vale a dire stuccature vecchie, strati di mastice e cera debordanti, colature corrosive, sporcizia penetrata nelle imperfezioni della pietra, alla rimozione delle ridipinture localizzate ad imitazione del marmo in corrispondenza di rifacimenti e alla reintegrazione pittorica ed all’adeguamento cromatico di eventuali aloni residui. Un lavoro che offre nuovamente al pubblico un piccolo capolavoro, nella sua piena ricercatezza di elementi. Durante i lavori, è stata pure riscoperta e restaurata la piastra all’interno del camino: si può nuovamente rileggere il nome dei fabbricatori, sono i fratelli Colla, torinesi, la data è quella del 1884.

Elio Rabbione

“Forbidden, l’offerta proibita”, arte e finanza si tingono di giallo

L’economista torinese Paolo Turati presenta al Centro Studi Sereno Regis il suo nuovo romanzo, uno spaccato sul boom dei mercati dell’arte e della finanza

“Forbidden, l’offerta proibita”. Un titolo efficace per un‘opera narrativa che si delinea come un thriller, di cui è autore l’economista torinese Paolo Turati. In questo ambito lo scrittore, docente a Torino di Economia degli Investimenti, si era già cimentato, dando alle stampe il romanzo Codice To2K6-Inferno sul Circo Bianco (Edizioni Ananke 2006). Questo suo ultimo romanzo verrà presentato dall’autore nel corso di un incontro in programma giovedì 21 febbraio alle 18, presso il Centro Studi Sereno Regis, sala Poli, in via Garibaldi 13. Saranno presenti con l’economista Paolo Turati il sindaco di Torino Chiara Appendino e Massimo Sterpi, avvocato esperto di Art Law e IP internazionale.

Con questa nuova opera, edita da Italia Arte Edizioni, che è anche editrice di una rivista mensile sull‘arte, sia a livello italiano, sia intenzionale, curata da Guido Folco, Paolo Turati ritorna a concentrarsi sul tema dell’art market di respiro internazionale, a dieci anni di distanza dall’uscita del suo libro intitolato “Arte in vendita-Arte moderna e contemporanea occidentale. Guida al collezionismo consapevole(Ananke edizioni,  2009), che vantava la prefazione dell’artista Ugo Nespolo. In questo suo ultimo romanzo sono presenti anche riferimenti tecnici precisi, capaci di rendere alcune pagine delle vere e proprie appendici tecnico-saggistiche, che completano le nozioni sviluppate dall’autore nella precedente opera del 2009.

Nel romanzo intitolato “Forbidden-L’offerta proibita”, quest’ultima riguarda Sepp Frea, piccolo ma stimato Art market Dealer & Advisor italiano, attivo tra Milano e Londra, che si ritrova beneficiario di una speculazione di tipo internazionale, spesso agevolata dai grandi operatori, al fine di ritrovare moltiplicati per dieci o cento volte i valori delle opere di alcuni artisti sul mercato secondario. Protagonisti del romanzo sono persone appartenenti all‘alta società ed a potenti realtà economico-finanzarie, che si occupano di contenuti culturali elevati, assumendo, però, spesso comportamenti anche censurabili.

Con questo thriller Paolo Turati, che vanta alle spalle una vastaproduzione saggistica non soltanto incentrata sulle materie economiche, ma anche sull”arte ( ha dato alle stampe, in passato, per la casa editrice Ananke, libri incentrati su alcuni grandi maestri quali Caravaggio e Vermeer, rispettivamente intitolati “NotturnoBaroccoe “Luce d’Orange), indaga il complesso mondo delmercato dell’arte, dove spesso il business prevale sugli altri aspetti. Questa nuova opera risulta, così, un compendio di alcuni temi che l’autore aveva trattato nella sua opera edita nel 2009.

Mara Martellotta 

Centro Studi Sereno Regis, via Garibaldi 13. Ore 18

Tel 011532824. Ingresso libero

Il silenzio dei Corti, l’eredità di Nino Chiovini

Il 14 e 15 febbraio scorsi Verbania ha ospitato “Il Silenzio dei Corti”, iniziativa ispirata alla memoria di Nino Chiovini promossa dalla municipalità verbanese e dal Parco Nazionale Val Grande con Casa della Resistenza, Anpi e Tararà Edizioni

Nino Chiovini (Biganzolo, 1923 – Verbania, maggio 1991) è stato un partigiano, scrittore e storico italiano, studioso della Resistenza e della cultura contadina di montagna delle valli tra il Verbano, l’Ossola e la Val Vigezzo. Dopo l’azione teatrale del Teatrino al Forno del Pane “Giorgio Budidan” ispirata al libro di Chiovini su Cleonice Tomassetti, unica donna tra i 42 martiri fucilati a Fondotoce nel giugno del ’44, a Villa Giulia si è svolto il convegno sulla figura di Chiovini e sulla prospettiva di un parco letterario a lui intitolato, imperniato sul binomio natura-cultura. Al convegno sono intervenuti Giovanni Antonio Cerutti, direttore dell’Istituo stroicod ella Resistenza di Novara e Vco (“Capire dove e come sbagliammo. La lunga riflessione del partigiano Chiovini sull’eredità della Resistenza”), i giornalisti e scrittori Erminio Ferrari (“I fogli della semina”), Giuseppe Mendicino (“I sentieri della libertà di Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli e Nino Chiovini”), Marco Travaglini ( “Sostenibilità delle aree alpine, dalle intuizioni di Nino Chiovini alle esperienze odierne”) e, infine, il direttore del Parco nazionale della Val Grande Tullio Bagnati (“Il silenzio dei Corti e l’esercizio della memoria: nuovi profili della Val Grande”).

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Riportiamo qui una sintesi dell’intervento di Marco Travaglini, collaboratore della nostra testata

E’ praticamente impossibile inquadrare la personalità di Nino Chiovini in una sola definizione. Le sue passioni e l’impegno di narratore, storico, antropologo, appassionato di sociologia rappresentano un tutt’uno.E il collante di tutto, capace di generare un fermento emotivo, era la sua forte e determinata etica civile, la passione per la storia, l’abilità nello scrivere, la capacità di intuire e comprendere i fenomeni sociali, e – non certamente secondario –   un’ideale politico tendente al riscatto degli ultimi, degli umili. La traccia più evidente si trova nei suoi libri dove le fatiche contadine entrano nella narrazione delle storie, rendendo omaggio e offrendo risarcimento a un mondo ormai scomparso. Il ritmo dei cambiamenti ha fatto sprofondare luoghi e persone in un niente, in un oblio al quale la caparbia determinazione di ricercatori come Nino Chiovini hanno saputo opporre l’ostinata volontà della memoria, la forza della narrazione, il racconto del tempo vissuto. Gli stessi paesaggi montani, aspri e carichi di memorie e di senso, racchiudono come una cornice le esili vite dei protagonisti. Nei suoi libri sulla civiltà rurale montana – “Cronache di terra lepontina”, “A piedi nudi”, “Mal di Valgrande” e “Le ceneri della fatica”, uscito postumo -, così come nei volumi dedicati alla lotta partigiana – “I giorni della semina”, “Classe IIIa B. Cleonice Tomassetti. Vita e morte”e i due volumi pubblicati postumi “Fuori legge??” e “Piccola storia partigiana” – il suo impegno di ricerca emerge con grande forza e nitidezza. In questo importante lavoro culturale che ci ha lasciato in eredità il passato ritorna attraverso i volti e le parole di quelle persone, uomini e donne. Un mondo arcaico, retto da pratiche e valori ancestrali, per certi versi poco moderni, secondo i canoni odierni, ma quanto mai importanti, necessari, utili per l’oggi e il domani.

 

Nelle sue opere Nino rende giustizia agli abitanti del territorio, al lavoro duro, alla fatica che schianta, al rispetto del tempo, del ritmo delle stagioni e della terra, all’impegno spesso obbligato che genera sudore mischiato a un grumo di rabbie e speranze, di tradizioni e fame, di poche gioie e tanti, troppi dolori. Mi è venuta in mente un’intervista a Francesco Guccini dove, ricordando quel prozio emigrato oltreoceano al quale dedicò la canzone “Amerigo”, raccontava come – ritornato in Appennino – al saluto della gente rispondeva con un “Buongiorno e vita lesta, mangiar poco e lavorar da bestia”.Quello indagato e descritto da Chiovini è un mondo che ci insegna ad essere umili, a riconoscere che una parte importante della cultura accumulata da generazioni di montanari risiede in quei luoghi aspri, spesso percorsi su sentieri ripidi sotto il peso di una gerla. Posti dove le frontiere dei crinali sono stati più un punto d’incontro che una linea di demarcazione e separazione. Se c’è una eredità che Nino Chiovini ci ha lasciato credo si possa individuare nell’assillo di una riorganizzazione della cultura in grado di aiutare una sintesi su storia, radici, saperi. Si riconosce lì il messaggio di chi, pur tra speranze e illusioni, ha sempre pensato ad una società nuova e più giusta. Un messaggio che sottende la volontà di ricerca, di un approfondimento più che mai necessari per salvare noi e il paese in questo tempo segnato da superficialità, dalla riduzione e impoverimento del linguaggio. E’ la rivalutazione di quella parte del paese che non sta sotto i riflettori e che rappresenta buona parte della montagna più povera, dell’area prealpina, dell’entroterra appenninico e pedemontano, dei piccoli borghi abbandonati,ai margini del commercio, dell’industria, della cultura. Negli incontri con Nino Chiovini e nella lettura dei suoi libri avvertivo l’urgenza, il bisogno di testimoniare e in qualche modo risarcire la memoria degli ultimi, narrando la civiltà contadina, le radici e le origini. Un pensiero antico e al tempo stesso moderno che, in parallelo, ricordava le ricerche di Nuto Revelli o – più tardi – quelle di Marco Aime sui pendii ruvidi della Val Grana o tra i pastori transumanti di Roaschia, in Valle Gesso. La difesa e il riscatto quantomeno culturale del “mondo dei vinti” fa emergere un’attenzione, una forza nella denuncia dell’abbandono della montagna, dei coltivi, degli alpeggi, delle borgate che ha portato ad un depauperamento dell’ambiente, alla perdita di capacità, conoscenze, competenze. Quando l’antico edificio agromontano si sgretolò, iniziò l’abbandono della montagna. Raccontando il disboscamento della Val Grande con l’Ibai, la cura del bestiame, i lavori precari nel fondovalle nello “spartano” secondo dopoguerra, Chiovini raccolse ,tra confessioni e reticenze, la testimonianza del collorese Settimio Pella sul tema delle “disobbedienze” – il   bracconaggio, la pesca di frodo, il contrabbando con le bricolle –chiedendosi quale processo si dovesse fare a questi uomini che, al netto di queste “disobbedienze”, furono “corretti servitori di uno stato diretto da un ceto dirigente che tanto non meritava”. Siamo nel 1983 e così scrive Chiovini: “Gente che non evade il fiscoche non spreca, che non inquina, che produce fino alla fine dei suoi giorni, che non intrallazza con il potere, che non impoverisce l’azienda Italia; gente che, chiamata alle armi, mandata su ogni fronte, pagò i prezzi che conosciamo; gente che quando fu il momento ospitò i partigiani e fu dalla loro parte più che in altri luoghi, mentre anche i suoi giovani si facevano combattenti per la libertà; in cambio, dal nemico, ebbe devastazioni, spoliazioni, morte; dallo Stato nato dopo la Resistenza, che ancora oggi pretende e in parte ottiene il loro consenso politico, quasi nulla”. E si domandava ( e chiedeva) quale processo potesse essere fatto a queste persone e se non fosse il caso di conceder loro un’amnistia precisando però che non si trattava di “quella che periodicamente premia evasori, speculatori, trafugatori di pubblico denaro e via sottraendo… Un’amnistia culturale, di costume: quella che passando attraverso il territorio, possa giungere ai suoi antichi utenti”.

 

 Aggiungeva: “Forse il Settimio e la sua gente comprenderebbe il valore e il senso di quell’amnistia, di quel messaggio: giungerebbero, forse, alla conclusione che il rapporto stabilito da sempre con l’ambiente, non tollera più antiche devianze, remote e recenti contraddizioni. Quell’amnistia, poetico e politico ripianamento di colpe nei riguardi dell’ambiente, se sorretta dall’assenso delle giovani generazioni, dei ragazzi che oggi frequentano le sopravvissute scuole di quei villaggi – che dovrebbero fungere anche da sedi di rifondazione della cultura montana e da fonte della sua memoria – potrebbe diventare più efficace dei guardacaccia e dei finanzieri. Forse, un esperimento da ripetere in settori molto più importanti e decisivi del pianeta”. Una grande lezione morale. La stessa lezione che si trova nella conclusione di “A piedi nudi” quando scrive : “ Quello scomparso era un mondo imperfetto e crudele in cui tuttavia erano ravvisabili e riconosciuti vivi gli obiettivi, il senso della vita, il suo fine:l’obiettivo della sopravvivenza e quello della continuità della stirpe; il senso della vita sorretto dalla memoria della specie; il fine del bene operare che faceva perno sulla speranza. Quel mondo scomparso rappresentava la riconosciuta e accettata civiltà della fatica quotidiana, del lavoro realizzato da mani con le palme di cuoio; la civiltà dei sentieri e delle mulattiere selciate e lastricate, dei geometrici terrazzamenti e, in fondo, dell’ottimismo collettivo, simboleggiato dal rituale saluto di congedo – alégher, allegri – che si scambiavano i suoi abitanti”. Qui si coglie, nel saluto, l’importanza della lingua e del linguaggio. Un caro amico mi ha fatto rilevare come la lingua si fondi sul significante, sull’immagine acustica della parola che la distingue dal significato. La nostra cultura ha dato la preminenza assoluta al significato mentre nel dialetto è il significante che pesa e conta. Alégher non è traducibile con un “ciao”. Il significato è più o meno lo stesso ma il saluto è più denso e più ricco, parla e suona diversamente perché è la lingua il significante. La parola risuona diversamente e ha effetti differenti su di noi e questa è l’identità della lingua. Tutto ciò racchiude quell’insieme che è la storia delle ceneri della fatica, di quella civiltà alpina sulla quale calò, come scrisse, “ un sipario di fogliame”.