Fino all’8 maggio prossimo con Maria Luisa Abate e Paolo Oricco
Venticinque anni fa il debutto dei Marcido Marcidoris segnò una tappa storica nell’avanguardia teatrale italiana. A distanza di venticinque anni la compagnia dei Marcido riporta in scena uno degli spettacoli simbolo del loro repertorio, dal titolo “Happy days in Marcido’s field”, una riscrittura di Marco Isidori tratta dalla piece teatrale “Giorni felici” di Samuel Beckett, uno tra i drammi più celebri e rappresentati dello scrittore irlandese.
Questo riallestimento vedrà alternarsi di sera in sera nella parte di Winnie due interpreti Maria Luisa Abate, protagonista titolare della piece, e Paolo Oricco, in un effettivo passaggio di testimone.
Sul palcoscenico sarà possibile gustare una versione ripensata per le dimensioni di Marcidofilm del Grande Girello di Daniela Dal Cin, già premio Ubu nel lontano ’97 per la miglior scenografia.
Lo spettacolo, in scena fino all’8 maggio prossimo, include anche come interpreti Valentina Battistone, Ottavia della Porta e Alessio Arbustini. La direzione è di Marco Isidori.
Dopo più di tre lustri i Marcido riprendono con un progetto del tutto rinnovato e con una delle rappresentazioni centrali del percorso artistico della Compagnia, vale a dire “Giorni Felici”. Si tratta di un percorso che ha in Samuel Beckett un autore di sicuro riferimento teatrale.
Nel 2004 era stato rappresentato “Non io, Dondolo e Quella volta”, ovvero “Marcido in Beckett’s love” e, soprattutto la piece “L’innominabile”, reintitolata “Ma bisogna che il discorso si faccia”, che fu nominata al Premio Ubu per la scenografia nel 1997 e il Premio della Critica. Si tratta di uno spettacolo che la critica italiana considerò alla stregua di una magistrale messa in scena della parabola più acre dello stesso Beckett.
L’ultima rappresentazione di Happy Days in Marcido’s Field, che debuttò nel 1997, inaugurava nel 2006 l’esposizione del lavoro scenografico di Daniela Dal Cin, con i Marcido in mostra alla Promotrice di Belle Arti di Torino.
Nell’anno 2022, quello della maturità, i Marcido si cimentano nuovamente in un’operazione che troverà in questa nuova edizione dello spettacolo un suo preciso e puntuale compimento scenico, consentendo di concludere una ricerca che vede nella coniugazione di suono e senso, ovvero cantabilità e interpretazione, un traguardo da cui il teatro dell’arte non può prescindere.
Tutto ciò all’interno di una soluzione che vede alternarsi due personalità attoriali, per dar voce corpo alla protagonista della piece, Winnie. La prima a dare voce a Winnie sarà la storica interprete Maria Luisa Abate che, all’epoca, dette dell’eroina di “Giorni felici” un ritratto carnale, nel senso del raggiungimento di una consapevolezza vocale straordinaria per temperamento e misura stilistica.
La seconda persona a interpretare Winnie sarà Paolo Oricco, che ne fu interprete durante la stagione 2006, ottenendo un risultato di grande valore emotivo e attribuendone un’intensità davvero rara.
L’alternanza nella parte di Winnie, nel corso delle repliche, di questi due interpreti di età e esperienza così diverse, starà a certificare la sincerità teorica della linea artigianale sviluppata dai Marcido, che ritengono fondamentale che non si dia verticalità senza basicalità .
Daniela Dal Cin inaugurò per la piece Happy days in Marcido’s field” una costruzione definita Grande girello, una sorta di piramide lignea traforata che sosteneva le evoluzioni del coro, costituito da sette attori.
In questo riallestimento questa scultura scenografica verrà rielaborata per esigenze legate a nuovi sviluppi della coreografia, che potrà avvolgere e sommergere la protagonista in un abbraccio di corpi, che faranno la funzione del classico monticello di terra previsto dalle didascalie originali.
Cercandolo, un teatro siffatto si dovranno sondare d’obbligo territori di ricerca inesplorati, in cui l’Utopia è destinata a rimanere tale. La strada, che si deve percorrere per illuminare l’Utopia, sarà una via Maestra ricca di scoperte, capace di accedere a un’arte antica come quella del teatro, arricchendo ulteriormente la comunicazione umana con il più umano degli strumenti, l’uomo vivo e vero.
Mara Martellotta
Teatro MARCIDOFILM Torino. Corso Brescia 4 bis/-int 2
Orario spettacoli. Da martedì a sabato ore 20.45, domenica ore 16
Biglietti intero 20 euro/ridotto 15 euro
Info e prenotazioni 3393926887, 3287023604
Segreteria 0118193522
info.marcido@gmail.com



Dalla “Jathilan”, danza-trance praticata nell’isola di Giava (Indonesia) dai tempi dei tempi, in cui i partecipanti si dice vengano posseduti da spiriti ancestrali che consentono loro di manifestare una sorprendente invulnerabilità fisica, alla “Puja Pantai”, cerinonia annuale tenuta dai “Mah Meri”, un popolo indigeno della Malesia peninsulare, per placare gli spiriti del mare; fino al “Thaipusam”, festival della comunità “Hindu Tamil” sempre in Malesia, al “Festival vegetariano di Phuket”, durante il quale i medium vengono posseduti dagli spiriti e trafiggono i loro volti con oggetti di vario genere e al “Sak Yant Wai Kru”, cerimonia annuale praticata nella Thailandia centrale, durante la quale i portatori di tatuaggi sacri si riuniscono per ricaricare il loro potere. Sacralità, magia, visionarietà, immaginazione. Fuga dal reale per guadagnare spazi non intelligibili. Sono cinque più che suggestivi i casi di “interazioni fisiche con mondi invisibili” raccontati attraverso venti scatti fotografici dalla ricercatrice e fotografa Eva Rapoport e ospitati al “MAO-Museo d’Arte Orientale” di Torino, in occasione della seconda edizione del “TOASEAN Culture Days 2021”, appuntamento unico destinato attraverso varie iniziative a far conoscere in modo approfondito sotto l’aspetto economico e culturale i dieci Paesi del Sud-est asiatico che compongono l’Asean, promosso dalla Camera di Commercio e dall’Università di Torino insieme a “T.wai Torino World Affairs Institute” e ad Intesa San Paolo.
Nativa di Mosca (ai tempi dell’Unione Sovietica) la Rapoport ha vissuto a lungo nel Sud-est asiatico, ricercando credenze e pratiche di possessione spiritica soprattutto nell’odierna Giava e seguendo rituali e feste in tutta la regione documentate con quella forte curiosità e coinvolgente passione che troviamo ben chiare nelle sue opere e che l’hanno portata ad esporre in varie mostre internazionali, da Berlino a Bangkok a Chiang Mai, in Thalilandia. “La prospettiva – sottolineano gli organizzatori della rassegna – di trasformare la religione in un ricordo del passato, tracciata dall’Illuminismo europeo e sostenuta per buona parte del XX secolo, non si è realizzata. Il Sud-est asiatico ce ne offre molte vivide manifestazioni: nei paesi dell’Asia orientale varie forme di credenze popolari e dottrinali, marginali o riconosciute dallo Stato, svolgono infatti un ruolo importante nella politica, nella cultura e nella vita quotidiana”. “E se la secolarizzazione – concludono – non si è dimostrata una tendenza duratura, anche la parola scritta, che pure ha giocato un ruolo centrale nella trasmissione del sapere, viene ora messa da parte dalle nuove tecnologie, che hanno riportato in primo piano forme di comunicazione prettamente visive”. In questo contesto, dove l’oggetto delle credenze religiose e delle varie forme di misticismo è una “forza invisibile”, le forme di interazione con queste forze sono invece estremamente tangibili e si rivelano attraverso i corpi dei medium ai quali lo stato di possessione o trance consente di spingere sempre più lontano i confini di ciò che un corpo può sopportare: i piercing rituali, infatti, e l’automutilazione lasciano tracce profonde sui corpi dei fedeli, e al contempo segnano ( ed anche perseguitano) i ricordi di chi assiste a questi fenomeni. I devoti portano i segni della propria fede non solo nel loro cuore, ma anche sui loro corpi: teste rasate, tatuaggi sacri, cicatrici dei piercing rituali. La fede come sacrificio e trauma corporale. Segni e ferite che avvicinano al divino. Per arrivare a toccare i benefici dell’anima e dello spirito.
“Beh, a me Molinaro piace. Mi piace la sua capacità di concentrarsi sulla “cattura” dei colori nella loro intensità. Mi piace perché sa alterare i colori smaglianti in forte contrasto fra loro, ai bianchi che dominano soffici, pressoché incontrastati, su tutta l’estensione del quadro. Mi piace per la sua tecnica sempre sofisticata, anche quando sembra voler dipingere schizzi approssimativi. Mi piace per le sue pennellate che condensano – nella forma visiva più semplice e per ciò stesso fortemente comunicativa – immagini, sensazioni e sentimenti sempre suggestivi.” Così scriveva Gian Carlo Caselli nel catalogo che accompagnava la grande personale, a palazzo Barolo, nel settembre del 2015, per i cinquant’anni artistici del pittore, sull’onda non critica ma dettata dalla forte amicizia che da anni lega due esseri umani. Da domani Bruno Molinaro (classe 1935, origini friulane prepotentemente affermate) è presente, con sedici opere, negli spazi della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino di piazza Carlo Alberto, in occasione del 300mo anno di fondazione, all’interno di “Maestri Reali”, una mostra organizzata da Guido Folco, presidente del Museo Miit di corso Cairoli 4. Una piccola personale, come lui sei altri artisti, a corona tutt’intorno una trentina di pittori.

Opere cicliche. Dopo “Love ad Peace” e “United Colors” (titoli volutamente echeggianti alle battaglie pacifiste anni Sessanta e alla celebre campagna pubblicitaria di Oliviero Toscani per Benetton) l’artista di origini giapponesi Shinya Sakurai porta a Torino, negli spazi della Galleria “metroquadro”, fino al prossimo 14 maggio, la sua ultima produzione – 13 dipinti a olio, acrilici e resine – presentata (con la curatela di Roberto Mastroianni) sotto il titolo “ambiguo” di “Terrific Colors”. “Ambiguo” se non recepito nell’accezione inglese di “terrific” come “eccezionale”. “Colori eccezionali”. In quanto “capaci di “esorcizzare il lato terrifico nascosto nella realtà”. Nato a Hiroshima nell’‘81 e laureato ad Osaka in Belle Arti (attratto dai Maestri “concreti” del “Gutai”) Shinya Sakurai si divide da anni fra l’isola di Honshu e Torino, dove studia “scenografia” all’“Accademia Albertina” e dove opera indifferentemente legando la sua ricerca artistica a soluzioni di intensa attualità stilistica riuscendo a coniugare, con suggestivi e originali risultati, un perfetto sincretismo fra oriente e occidente, tradizione e contemporaneità. Tradizione. Nel preparare le sue tele intingendo, ad esempio, nel colore il tessuto annodato con l’antica tecnica dello “shibori” (in auge nel periodo Edo) creando una sorta di fantasia astratta e “rituale” al replicarsi del suo segno che si concretizza – in una sorta di marea fluttuante – in cuori, bottoni, teschi, croci, lacrime e celle di colore. Contemporaneità. Nella reiterazione e moltiplicazione del gesto, in una spiccata tensione neo-pop e minimalista “anche se da intendersi – ebbe modo di scrivere Francesco Poli – in chiave non freddamente rigorosa ma pudicamente post-moderna”. Il colore per Sakurai è voce dell’anima. Mai fragoroso, ma morbido, accattivante. Poesia che scorre liquida sul piano della tela. In modo, per certi versi , molto simile a quella “tecnica a pois” che caratterizza la pittura della connazionale Yaoy Kusama, nell’obiettivo di “veicolare – scrive Roberto Mastroianni – messaggi di speranza e serenità che si contrappongono alla pesante eredità culturale propria di un artista che appartiene a una nazione segnata dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki”.