CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 39

“La donna della domenica” uno spaccato tutto torinese

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La mostra al Circolo del Design, sino al 9 maggio

Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte.” Ricordate? E poi si andava (era il 1972, all’uscita del libro) a toccare con mano i luoghi in cui la premiatissima ditta Fruttero&Lucentini (classe 1926 e classe 1920, torinesissimo il primo, romano trapiantato con moglie francese il secondo, un’amicizia forte ed eterna) aveva ambientato i tanti episodi del romanzo, scoprendo magari che lo studio – “quella chiavica della sua stanza”, dove si infierì sul poveretto con quel “coso”, “una scultura oscena in pietra”, un’altezza di 29 cm circa e un peso di chilogrammi due e mezzo – del famigerato architetto (“un fallito, un falso invalido di guerra, uno scroccone mantenuto dalla madre e dalla sorella” nell’alloggio di via Peyron, lo stigmatizzano gli autori in una sintesi del romanzo, un unico foglio dattiloscritto appena ritrovato, infilato in uno dei bloc-notes che contengono le prime stesure del romanzo, materiale in corso di riordino nell’archivio di Carlo Fruttero), sporcaccione e perenne intrallazzatore, era sì al fondo di via Mazzini ma che il civico 57 era inesistente.

E poi si andava (era il 1975, all’uscita natalizia del film, da noi la sala dello scomparso Cristallo di via Goito) a ri-toccare con mano in che modo, con l’aiuto di un’altra coppia, i navigatissimi Age&Scarpelli, il lombardo/romano Luigi Comencini avesse riscritto – con la carovana popolata di Marcello Mastroianni, Pino Caruso, Claudio Gora, Aldo Reggiani, una impareggiabile Lina Volonghi con il suo lavatoio e il suo “prato” e l’intera proprietà delle “Buone pere”, insomma il suo “Eden di val Pattonera”, allargata con gli stranieri Jean-Louis Trintignant e Jacqueline Bisset – per il cinema quelle 503 pagine dell’edizione Mondadori, parte interna di quella sovracoperta rossa di mattoni disegnata da Ferenc Pintér. “La donna della domenica” ci regalava, nella doppia veste, escursioni prima di tutto al Balôn (“This is Balôn”, avrebbe sentenziato il mattino insanguinato del sabato l’americanista Bonetto, e altresì guida più o meno da seguire per il proprio guardaroba, “uno dice: “Ha dei calzini alla Bonetto” e l’altro capisce subito come sono”, un Franco Nebbia dietro cui si nascondeva lo studioso Claudio Gorlier, prof d’Università e un tempo compagno di scuola di Fruttero), allo stabile che sta alle spalle di palazzo Lascaris ed era gli uffici del commissario e soci, a quel sedile in riva al Po su cui pensosa siede la prima vittima e a quella balconata della galleria Subalpina in cui trova ancora il tempo di mostrare ad una signora la sua lingua oscena, alle strisce pedonali di via Pietro Micca sulle quali ginocchioni Lello dichiara dinanzi ai passanti tutta le sua passione all’amante Massimo Campi, a quel cubo modernissimo d’acciaio progettato nel 1969 da Sergio Hutter e Toni Cordero che affaccia su corso Stati Uniti (dove le lettere appallottolate e buttate nel cestino lasciano trasparire quella parola “Boost’n” che avrebbe dato il via alle indagini), ben diverso dalla villa sulla collina di Mongreno che Carlo Emanuele I volle per sua figlia Margherita, una selva d’ippocastani e tigli ambientati in un progetto curato dal paesaggista britannico Russell Page, sulla metà del secolo scorso, e ai tempi di Massimo Campi luogo ideale e molto glamour per colazioni e pettegolezzi, ambiente buona e alta borghesia tutta torinese, con Anna Carla Dosio e il commissario Santamaria: per finire, nella dissoluzione dell’enigma della “cativa lavandèra”, balza in tutta fretta giù dal letto del Santamaria, nell’appartamento di corso Galileo Ferraris 75, vista monumento a re Vittorio, la bella signora (ma il lato B, assicurarono, non era quello della Bisset, per evidenti clausole di contratto) al grido di “oh, mipovradona”: e “mipovradona” si sarebbe dovuto intitolare il romanzo – “titolo che per un po’ circolò” dice oggi Carlotta Fruttero, recente autrice di “Alice ancora non lo sa”, mentre per qualche attimo chiacchiera simpaticamente in questa sera di fine marzo e cerca in una valigia piena di ricordi – se l’editore non lo avesse animosamente rifiutato, troppo torinese, troppo invendibile.

Sarà visitabile sino al 9 maggio al Circolo del Design di via San Francesco da Paola 17 (orari lunedi/venerdì dalle 14 alle 19) la mostra, che attorno al romanzo e attorno al film è costruita, “La donna della domenica: una signora città”, in collaborazione con la Fondazione Mondadori, quarto appuntamento di “Archivi d’Affetto”, dedicato “all’amore incondizionato di F&L per Torino”, progetto curato da Maurizio Cilli e Stefano Mirti. La mostra è curata da Domenico Scarpa, grande conoscitore del duo, uno sguardo a due scrittori “visionari e artigiani” e certamente “visivi”, capace di approfondire e scandagliare e trascrivere la realtà di quegli anni, una visuale viva e precisa su vizi privati e pubbliche virtù, i primi “ad affrontare uno spaccato di una città e a farne grande letteratura”. I sette anni di gestazione del romanzo, cresciuta tra Fruttero che scrive rigorosamente a biro e il collega che lo segue o lo anticipa con la macchina da scrivere (se chiedete a Carlotta se sia una favola o no che i due autori si alternassero nella scrittura dei dieci capitoli vi risponderà “sì, non sempre ma tante volte sì, poi discutevano, correggevano, anche si infervoravano, ma mai bisticci, erano piuttosto confronti”), la fila dei cinque foglietti di F. scritti in un alternarsi di biro blu e rossa, una grafia concitata, “tutto viene eseguito in velocità e con parecchie abbreviazioni, a colpi di elenchi e promemoria più che con frasi compiute”, appunti e brevi stesure che si discostano spesso da quello che poi il lettore avrà sotto gli occhi. C’era una impalcatura da costruire, c’era da dare uno sviluppo ai singoli episodi: era lì che interveniva L., “dotato di grande talento per le architetture narrative, a stendere le scalette”: in un suo foglio manoscritto, con tanto di numerazione delle pagine, il visitatore vedrà la struttura e le progressive ristrutturazioni dal secondo al sesto capitolo.

C’è qualcosa di marcio a Taurinopoli”, titolò Marialivia Serini il suo lungo articolo sull’Espresso, 23 gennaio 1972, per sole lire 250 (“Torino – riportando parole della ‘Donna’ – è pronta a captare il male da ogni angolo della terra e la sua funzione è quella di spargerlo in giro per tutto il resto della penisola. Se uno ci fa caso, in ognuno dei flagelli che opprimono la patria ci trova sempre sotto la mano torinese. A cominciare dall’Unità Nazionale”, e via elencando, l’automobile, la radio, la televisione, gli intellettuali di sinistra…), raccogliendo saggiamente personaggi curiosità situazioni impressioni, arrivando a quella data che vedeva la parola fine alla stesura: “il romanzo è venuto su con una scaletta spietata che prevedeva fin dall’inizio come, dove, quando e perché; e il 26 agosto del ’71 sul prato vicino al canale di Loin, gli è stata messa di prepotenza la parola…”. La fine dei personaggi, della protagonista Torino fatta di poche luci e troppe ombre, delle vagonate d’ironia che sono state usate per raccontarcela, la città “lugubre e folle” con le sue piazze alla De Chirico e i suoi viali ampi e ripetitivi, “una città travestita” nelle parole di Anna Carla. L’elenco dei 17 titoli pensati prima che s’arrivasse al definitivo (“Morte per/da scultura”, poteva avere forse un certo suo sapore artistico, ma non tutta la più o meno percettibile ambiguità della “Donna della domenica”), riportato sulla controcopertina di un bloc-notes che contiene svariati episodi dei capitoli VI e VII, tentativi a penna di Fruttero sotto appunti personali e frettolose addizioni e moltiplicazioni, copertine di edizioni straniere – gli spagnoli molto prude che in luogo del fallo di pietra si trincerano dietro un indifferente pestello macchiato di sangue o l’editore di Zagabria che mostra in copertina chissà perché un signore a torso nudo e calvo che occhieggia attraverso un binocolo, pistolone infilato nella cintola -, immagini di una Torino di cinquant’anni fa, con via Garibaldi soffocata da tram e vetture, con piazza Bodoni o piazzetta Reale che rigurgitavano automobili. Una vetrina antica, come quella a cui s’affacciava lo sfacciato architetto Garrone, nella giornata di quell’ultimo martedì.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Jacquiline Bisset nella “Donna della domenica” di Luigi Comencini; alcune pagine dei taccuini di Fruttero e Lucentini; i due scrittori con l’attrice.

“Baby tu mi circondi tocchi ogni angolo del mio cuore”

Music Tales, la rubrica musicale 
“l’odore della tua pelle
il sapore dei tuoi baci
il modo in cui sussurri nel buio
i tuoi capelli tutto intorno a me, baby tu mi circondi
tocchi ogni angolo del mio cuore
oh, sembra come la prima volta ogni volta
voglio passare tutta la notte nei tuoi”
I Lonestar sono un gruppo musicale statunitense di musica country, composto da Cody Collins (cantante principale, chitarra acustica), Michael Britt (chitarra, cori), Keech Rainwater (batteria), Dean Sams (tastiera, melodica, cori) e Michael Hill (basso). Collins, che in precedenza aveva fatto parte di un altro gruppo country chiamato McAlyster, ha rimpiazzato il precedente cantante Richie McDonald, che ha lasciato il gruppo nel novembre 2007 per intraprendere la carriera da solista. John Rich era anche il bassista e secondo cantante del gruppo sino al 1998, anno in cui è stato allontanato dal gruppo. In seguito Rich si è unito a
Big Kenny nel duo Big & Rich nel 2003.
Loro  nascono nel 1992 con il nome Texassee, che però fu presto modificato nell’attuale Lonestar. Il loro primo concerto si tenne a Nashville nel 1993, ma è solo nel 1995 che il gruppo ottiene un contratto con l’etichetta discografica BNA Records. Con l’etichetta il gruppo pubblica il primo album intitolato proprio Lonestar.
La canzone che ho scelto, una ballade, l’ho scelta per la pace che mi mette e per ricordare a tutti noi quanto importante sia il rispetto e l’amore per una donna, ma anche per un uomo, per se stessi.
Un brano semplice, a voler sottolineare l’importanza di ciò che vive nelle cose semplici, quelle che stanno alla base.
“La vita di ogni persona è sacra e il rispetto è l’essenza di tutto.”.
Buon ascolto
CHIARA DE CARLO
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Ecco l’Appartamento del Principe, mai visitabile a Palazzo Reale

Persiane spalancate e luci accese a Palazzo Reale a Torino. Non solo al primo piano, visitabile ogni giorno, ma anche al secondo piano, aperto in via eccezionale per le Giornate FAI di primavera organizzate dal Fondo Ambiente Italiano. Lunghe code per entrare nell’Appartamento del Principe ma l’attesa viene subito ripagata dallo splendore degli arredi, degli arazzi, dei dipinti e dei mobili della dimora dell’ultimo Re d’Italia. Code tutto sommato abbastanza scorrevoli e ben gestite dai volontari del Fai.
Grazie a loro siamo entrati nei saloni dove vivevano i Principi ereditari, un luogo che viene aperto solo in occasioni molto particolari. Il secondo piano di Palazzo Reale è infatti sempre chiuso al pubblico per mancanza di personale. Con il Fai si entra, non accadeva da quindici anni. Mentre il primo piano, sempre aperto alle visite del pubblico, era riservato al sovrano e alla sua famiglia, il secondo piano di Palazzo Reale, un tempo cuore politico e artistico di Torino dal Seicento alla metà del Novecento, era destinato ai principi ereditari e alle loro consorti. Naturalmente i saloni hanno subito radicali cambiamenti nei secoli decisi dai vari architetti chiamati a Palazzo.
Molto sfarzosa appare infatti la scenografia allestita per le nozze del futuro Carlo Emanuele III con Anna Cristina di Baviera Sultzbach celebrate nel 1722 dal messinese Filippo Juvarra, il celebre l’architetto che ha cambiato il volto di Torino e che operò per tanti anni alla corte dei Savoia. Per il matrimonio Juvarra realizzò la Scala delle Forbici, capolavoro assoluto della residenza. L’appartamento del Principe fu in seguito riallestito da Benedetto Alfieri a metà Settecento per Vittorio Amedeo III e nella prima metà dell’Ottocento toccò a Pelagio Palagi ridisegnare in termini neoclassici gli spazi interni per Vittorio Emanuele, il futuro primo Re dell’Italia unita, e Maria Adelaide d’Asburgo.
I tempi cambiano, i secoli passano, le mode anche. Infine sarà il principe ereditario Umberto, trasferitosi a Torino nel 1925 per seguire le manovre del suo reggimento, a rinnovare le trenta sale di Palazzo Reale con arredi del Settecento e strutture moderne. Verrà installato un impianto di riscaldamento con termosifoni nascosti nelle bocche dei camini e ogni sala verrà attrezzata con ascensori e montacarichi. Si può vedere lo studio di Umberto in cui il principe leggeva la corrispondenza e riceveva ospiti importanti. L’allestimento di Palagi verrà mantenuto solo nell’alloggio occupato nel 1930 dalla moglie Maria Josè del Belgio. Dopo la guerra e la fine della monarchia l’Appartamento del Principe venne dimenticato per almeno 50 anni.
Di recente è stato restaurato seguendo le scelte di Umberto II. L’appartamento dei Principi è uno dei 105 beni che il Fai ha aperto nel weekend in 51 città tra Piemonte e Valle d’Aosta nelle tradizionali Giornate di Primavera giunte alla 33esima edizione.
 Filippo Re
Nelle foto alcuni saloni dell’Appartamento del Principe a Palazzo Reale e le code in Piazzetta Reale

Le lettere salveranno il mondo

Litteris servabitur orbis è una frase latina di grande importanza. In lingua italiana equivale a “il mondo sarà salvato dalle lettere”.

Durante il periodo oscuro delle leggi razziali l’acronimo di questa frase, ovvero L.S.O, venne usato dall’editore fiorentino ebreo Leone Samuele Olschki per poter stampare i suoi libri. Una lunga storia quella della casa editrice che fondò nel 1886 e tutt’ora attiva con migliaia di titoli in catalogo e molti periodici tra i quali l’Archivio storico italiano, la più antica rivista italiana ancora edita. Leo Samuele Olschki, figlio di un tipografo della Prussia orientale, si era trasferito in Italia seguendo il percorso dei tanti personaggi come Rosenberg & Sellier, Sperling & Kupfer, Hoepli, Le Monnier, Loescher, Scheiwiller, attratti dal sogno di  realizzare nel nostro paese un’attività editoriale. Dopo aver vissuto e lavorato a Verona, Venezia e per tanti anni a Firenze l’emanazione delle leggi razziali del ’38 lo costrinse  all’esilio a Ginevra, dove morì il 17 giugno del 1940. Quell’acronimo, oltre a rimarcare una grande verità e rivendicare il proprio diritto d’autore evitando d’incorrere nella repressione antiebraica che rappresentò una delle pagine più vili della storia italiana, era un grido di libertà e d’avvertimento. ” Dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli esseri umani “, scriveva nella prima metà dell’800 il poeta tedesco Heinrich Heine. Un monito tragicamente anticipatore di quei “roghi di libri” organizzati nel 1933 nella Germania nazista durante i quali vennero bruciati tutti i volumi che non corrispondevano ai canoni imposti dall’ideologia del regime dalla croce uncinata. Quei roghi, pensati per distruggere “lo spirito non tedesco”, vennero organizzati dalla Deutsche Studentenschaft, associazione degli studenti tedeschi. Una follia negazionista che venne salutata da Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich come un ottimo modo “per eliminare con le fiamme lo spirito maligno del passato”. Quale fu la logica conseguenza nemmeno la pur pessimistica profezia di Heine poteva lontanamente immaginarlo e tutto il mondo scoprì l’orrore delle persecuzioni, delle deportazioni nei lager e dell’olocausto. Eppure sono in molti ad aver dimenticato la storia, minimizzandola o relegandola negli angoli polverosi della memoria. “Chi nega la ragion delle cose, pubblica la sua ignoranza”, scriveva Leonardo da Vinci mezzo millennio fa. In un tempo cupo e difficile dove si legge sempre meno, dove la cultura viene presentata come un peso e l’ignoranza si accompagna quasi sempre all’arroganza, c’è poco da stare allegri. Un antidoto ci sarebbe ed è racchiuso in quella frase piena di speranza: “il mondo sarà salvato dalle lettere”. A patto che non rimanga solo una frase.

Marco Travaglini

Torino e i primi cinquant’anni della donna della domenica

 

Cinquant’anni fa usciva nelle sale cinematografiche La donna della domenica, film diretto da Luigi Comencini e sceneggiato da Age e Scarpelli con Marcello Mastroianni (nei panni del commissario Santamaria), Jacqueline Bisset (Anna Carla Dosio), Jean-Louis Trintignant (Massimo Campi), Lina Volonghi (Ines Tabusso), Claudio Gora (Garrone), Aldo Reggiani, Pino Caruso, Omero Antonutti. La pellicola era tratta dall’omonimo romanzo edito tre anni prima da Mondadori, il primo e il più popolare dei libri di Fruttero & Lucentini, considerato dagli esperti del genere come il capostipite del giallo italiano. Il celebre critico e storico del cinema Gianni Rondolino commentò che il film raccolse un successo pari a quello del romanzo, aggiungendo che “non poteva essere diversamente con un regista come Comencini e due sceneggiatori come Age e Scarpelli a confezionare un prodotto filmico corrispondente.

Il film mantiene in sostanza quello che promette, e l’ingarbugliata vicenda gialla, un poco sfrondata di episodi collaterali, e di motivi secondari, si scioglie progressivamente secondo le regole di tal genere di prodotti. C’è da osservare che nel film manca quella torinesità che invece costituiva il fascino del romanzo”. La donna della domenica, ambientata da Fruttero e Lucentini nella Torino degli anni Settanta, vedeva la città come vera protagonista del racconto con tutte le sue luci e le ombre, descritta nei dettagli, resa reale in ogni sua piega quasi fosse una sintesi in grado di rappresentare la vita italiana di quegli anni. La trama è nota. Nella calda estate torinese del 1973 viene assassinato nel suo pied-à-terre l’architetto Garrone, un personaggio sordido e scontroso che vive di espedienti, piccoli imbrogli e ricatti. Il brutale omicidio viene consumato con un’arma originale dalla vena artistica: un fallo di pietra. La vittima, a causa del suo carattere e della tendenza a molestare il prossimo, aveva parecchi nemici e molti di loro lo avevano minacciato di morte. Così il tenebroso e affascinante commissario Santamaria si trova a indagare su una vasta lista di persone sospette che si trovano a vivere in modo trasversale tra tutti i ceti sociali della città. Tra queste vi sono Anna Carla Dosio, moglie di un ricco industriale, e Massimo Campi, giovane omosessuale della buona borghesia, che con Garrone deploravano vizi, ostentazioni e volgarità dei loro conoscenti. Santamaria ( con il volto di Marcello Mastroianni nel film) si trova così a indagare tra l’ipocrisia, le assurde velleità e i chiacchiericci che animano il mondo della borghesia piemontese, tra professionisti dalla doppia vita, dame dell’alta società dal fascino snob e industriali privi di scrupoli. Pagina dopo pagina si scopre che la vera indagine non è tanto quella tesa a scovare il colpevole quanto il desiderio di svelare vizi e difetti di una società dove regna la doppiezza. Si passa così dalla noia di ricchi imprenditori e agiati borghesi, alla stanca relazione omosessuale che trascina avanti Massimo Campi fino al disprezzo di quell’ambiente di parvenu per i meridionali immigrati e per i ceti popolari che vivono nei quartieri della città della Fiat. Si intuisce così che Torino, in apparenza ordinata e precisa fino ad essere noiosa, nasconde un cuore nero, cattivo e folle. Sono gli stessi Fruttero e Lucentini a far riflettere nel libro il commissario Santamaria, sostenendo come “altre città regalavano al primo venuto splendori e incantamenti, esaltanti proiezioni verso il passato o l’avvenire, febbrili pulsazioni, squisiti stimoli e diversivi; altre ancora offrivano riparo, consolazione, convivialità immediate. Ma per chi, come lui, preferiva vivere senza montarsi la testa, Torino, doveva riconoscerlo, era tagliata e squadrata su misura. A nessuno, qui, era consentito farsi illusioni: ci si ritrovava sempre, secondo la feroce immagine dei nativi, al pian dii babi, al livello di rospi”.

Marco Travaglini

 

Quando Bard fermò Napoleone

E’ sempre stato un baluardo inespugnabile il forte valdostano di Bard, una fortezza di sbarramento resa famosa dall’assedio di Napoleone e ricostruita dai Savoia. Si arrese solo alle truppe di Napoleone ma quanta fatica, quante perdite umane, che onta per il grande Napoleone Bonaparte che quel giorno rischiò perfino di essere catturato. Andò su tutte le furie per non essere riuscito ad impadronirsi velocemente del forte a causa della valorosa resistenza dei soldati italiani e austriaci e alla fine decise di raderlo al suolo. Con una curiosità: nel maggio del 1800 Napoleone varcò il Gran San Bernardo non su un maestoso cavallo bianco come si vede nel celebre dipinto del David ma a dorso di mulo accompagnato da una giovane guida che trainava l’animale con sopra Napoleone il quale chiese poi a David di essere ritratto su un cavallo focoso. Ma il fatto straordinario di questa vicenda è che Bard, l’avamposto difensivo dell’esercito austro-piemontese, bloccò la Campagna d’Italia di Napoleone. Bard tenne testa ai francesi alla perfezione. Ma come si svolsero questi fatti storici? Per saperne di più è assai utile leggere il libro “La fortezza inespugnabile di Bard: storia dello sbarramento tra Valle d’Aosta e Pianura Padana” dello storico Mauro Minola, edizioni Susalibri. Fu un’incredibile battuta d’arresto per Napoleone, autoproclamatosi Primo Console con il colpo di Stato del 1799, un tale disonore che lo costrinse a reagire in seguito con la distruzione totale del Castel de Bard. Ma torniamo un po’ indietro. L’unico ostacolo imprevisto che si opponeva alla veloce avanzata dei francesi verso la pianura era appunto il forte di Bard, un bastione imprendibile che controllava e difendeva la Valle d’Aosta. Napoleone lo sottovalutò rischiando di far fallire i suoi piani. Eppure la fortezza era difesa da meno di 400 persone contando anche magazzinieri, cuochi e tamburini. All’esterno premeva una forza soverchiante di 40.000 francesi dell’Armée de Réserve. Come si presentava il forte di Bard nel maggio 1800? Aveva ancora la fisionomia di una fortezza medievale ed erano state realizzate nuove batterie per consolidare le difese in vista dell’attacco. Le scorte di viveri e d’acqua erano sufficienti per oltre due mesi ma dai documenti ufficiali dell’epoca trapela che gli ufficiali francesi non avevano nessun timore del forte e dei suoi difensori a tal punto che la fortificazione non era stata tenuta in nessun conto. Minola spiega che “la causa della sottovalutazione di Bard da parte dei generali di Napoleone fu dovuta alla mancanza di informazioni precise e alla carenza di una cartografia aggiornata della Valle d’Aosta. Secondo recenti ricerche dei cartografi Aliprandi è da cercare proprio in questi fattori il motivo per cui Bard non fu considerato un ostacolo così importante”. Nella notte tra il 21 e il 22 maggio un gruppo di soldati francesi camminando curvi dietro i parapetti che costeggiano la strada si avvicinarono alle postazioni difensive degli austro-piemontesi mentre un secondo gruppo di zappatori e granatieri scese lungo i dirupi della montagna impadronendosi della borgata. Occupato il paese di Bard che contava 246 abitanti cominciò l’assedio al forte con “un audace stratagemma” ideato dai francesi. Far passare i cannoni attraverso l’unica strada che lambiva il borgo appena preso dagli assedianti non era impresa facile. Vari tentativi fallirono per la pioggia di fuoco che arrivava dal forte sovrastante e investiva soldati e mezzi militari. Allora si decise di agire di notte ricoprendo le ruote dei cannoni con paglia e fieno per contenere al massimo i rumori del movimento e ingannare la sorveglianza dei difensori sulla strada del paese. La strada lastricata fu ricoperta di letame, paglia e materassi presi nelle case. I cavalli da tiro vennero sostituiti da squadre di 50 uomini adibiti al traino. Tutto perfetto ma non funzionò come era previsto nei piani. Alcuni cannoni passarono integri sotto le difese della fortezza ma ben presto gli austro-piemontesi scoprirono il traffico in corso nella via del paese e scatenarono un inferno di fuoco sui francesi che nonostante le perdite di uomini e mezzi riuscirono a far passare nell’arco di alcune notti una quarantina di cannoni. Infastidito per i ritardi subiti nella spedizione militare Napoleone lasciò Aosta e si avvicinò a Bard per verificare di persona la situazione ma venne circondato a sorpresa da un drappello di soldati austriaci. Si salvò grazie al pronto intervento delle sue guardie che lo seguivano a breve distanza. Era giunto il momento di farla finita. Sul monte che sovrasta il forte vennero portati con grande fatica diversi cannoni ma la potenza di fuoco anche questa volta non fu sufficiente a costringere i difensori alla resa. Il capitano Stockard von Bernkopf, comandante della guarnigione, rifiutò più volte di arrendersi. Dopo alcuni tentativi falliti che lasciarono sul terreno centinaia di morti e feriti, un cannone da 12 libbre venne posizionato di fronte al portone del forte, fuori dalla portata di tiro degli assediati. Il bombardamento aprì brecce sempre più larghe nella mura del forte ma l’esito non fu decisivo per la conquista della fortezza. Decisiva fu la resa degli assediati, stremati ed esausti: la resistenza della guarnigione era giunta alla fine e il comando austriaco ordinò di cessare il fuoco e di arrendersi. I francesi persero oltre 1500 uomini contro i 13 morti e i 61 feriti tra le fila dei difensori. Il baluardo valdostano fu poi nello stesso anno completamente raso al suolo a colpi di mine. Trent’anni dopo Carlo Felice di Savoia lo farà ricostruire. Tra le fortificazioni alpine sabaude il forte di Bard è l’unico che ha conservato l’aspetto che aveva fin dai tempi della sua riedificazione nel 1838. Abbandonato alla fine dell’Ottocento, il forte divenne un carcere militare e in seguito polveriera dell’Esercito italiano. Oggi è di proprietà della Regione Autonoma Valle d’Aosta. Un libro di storia da leggere tutto d’un fiato.. aspettando “Napoleon”, il kolossal di Ridley Scott, a novembre sul grande schermo.                     Filippo Re
Nelle foto:
Forte di Bard
Copertina libro di Mauro Minola
Napoleone varca le Alpi a cavallo e a dorso di mulo
Napoleone assedia Bard, rievocazione storica

“Risveglio di primavera” debutta al Gobetti

Martedì 1 aprile, alle ore 19.30, debutto al Teatro Gobetti di “Risveglio di primavera” del drammaturgo tedesco Frank Wedekind, nella traduzione di Roberto Cavosi, per la regia di Marco Bernardi. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e dal Teatro Stabile di Bolzano resterà in scena per la stagione in abbonamento fino a domenica 6 aprile prossimo.

“In 19 brevi scene dal ritmo travolgente, con una struttura simile a quella del montaggio cinematografico, Wedekind, appena ventiseienne, ci racconta con una straordinaria forza drammatica l’eterno conflitto tra adolescenti e adulti, e non si fa mancare nulla – commenta il regista Marco Bernardi a l’avere di un testo che è simbolo delle condizioni giovanili di ogni tempo – dalla scoperta del sesso alle difficoltà di comunicazione, dall’importanza dell’amicizia alla struggente speranza di dare un senso alla vita, dallo smarrimento della ricerca della propria identità alla paura del primo amore. Così il grande autore tedesco, padre dell’espressionismo teatrale, ci colpisce ancora oggi per la modernità dei temi trattati e la sensibilità nei confronti dei giovani e delle loro speranze, spesso tradite”.

“Risveglio di primavera”, scritto da Frank Wedekind nell’inverno 1890-91, viene portato in scena, a causa della censura, solo 15 anni dopo. Fu Max Reinhardt a portarlo al debutto a Berlino. Era il 1906 e lo spettacolo scandalizzò i benpensanti, entusiasmò la critica e il pubblico liberale e progressista. Di questa pièce teatrale sono state messe in scena diverse edizioni nei teatri del mondo, riscritture comprese, e ne sono derivati film memorabili come “L’attimo fuggente” di Peter Weir del 1989. La forza dirompente dell’adolescenza e il conflitto generazionale sono i temi centrali della messa in scena di Bernardi, che dirige una compagnia di 14 attori, dieci dei quali sono giovani selezionati in tutta Italia tramite 100 provini. Bernardi li guida attraverso i vertiginosi cambi di registro di Wedekind, nell’alternarsi continuo di scene comiche e drammatiche, nella rapido passaggio tra un quadro e l’altro, da un dialogo a un monologo, da una situazione all’altra, seguendo l’acuta e ostinata ricerca che caratterizza l’autore. Questa rilettura è ispirata a un altro artista contemporaneo di Wedekind, il pittore di Ostenda James Ensor, con le sue maschere misteriose e grottesche. Oltre a una assoluta libertà creativa, li accomuna il bisogno di esprimersi attraverso regimi stilistici apparentemente opposti, da un lato un’intensa vena drammatica, dall’altro una specie di ansia dello sberleffo, una macabra vena farsesca.

Teatro Gobetti – via Rossini 8, Torino

Orari: martedì, giovedì, sabato ore 19.30/mercoledì e venerdì ore 20.45/domenica ore 16

Biglietteria: teatro Carignano – piazza Carignano 6, Torino. Telefono: 011 5169555 – biglietteria@teatrostabiletorino.it

Mara Martellotta

Il nuovo appuntamento del “Circolo dei Cantautori”

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Venerdì 28 marzo Club Arci Circolo Corso Parigi – ore 21

Tante voci e brani per valorizzare la canzone autorale torinese

Venerdì 28 marzo alle ore 21, nel suggestivo Club Arci Circolo Corso Parigi, in corso Dante 28/A, riprende il secondo appuntamento con il “Circolo dei Cantautori“. Un collettivo di artisti fondato da Luigi Antinucci, nato con lo scopo di valorizzare il mondo della canzone attraverso iniziative e una rete territoriale di musicisti. 

Venerdì 28 marzo l’appuntamento è dedicato a “Zucchero”, grazie all’esibizione di Luca “Cipo” Sperindio, il più accreditato fra i cantanti tributo di Fornaciari. Sul palco saliranno anche Luigi Antinucci, direttore artistico del Circolo dei Cantautori e vicepresidente dell’associazione Magica Torino Ets, che porterà alcune sue canzoni e un paio di brani di grandi maestri storici; Maurizio Seren Rosso con un’anteprima del suo nuovo lavoro discografico e Marco Roagna alla chitarra. 

“Il Circolo dei Cantautori vuole essere propulsore e portavoce di un “movimento culturale” vicino alla tradizione cantautorale poetica, quella dei grandi artisti quali i piemontesi Luigi Tenco, Paolo Conte o Gian Maria Testa” – commenta il direttore artistico del Circolo dei Cantautori, Luigi Antinucci – “Anche nella nostra Torino, come ad esempio a Genova, Bologna, Roma, Napoli, è giusto parlare di “scuola torinese”, riguardo la canzone d’autore. Se le voci degli autori piemontesi si uniranno sono sicuro che creeremo un coro potente che non potrà passare inosservato, al fine di tutelare e dare risalto a quella canzone d’autore che come ben sappiamo, oggi non è più adeguatamente valorizzata”.

L’ingresso è riservato ai possessori di tessera Arci, per prenotare è necessario scrivere a corsoparigi2019@gmail.com

OGR: FLASHOVER incontro fra parole, musica e immagini

OGR Torino – Sala Duomo
venerdì 28 marzo 2025, dalle 16 a mezzanotte

Ingresso gratuito

Venerdì 28 marzo, dalle 16 a mezzanotte, la Sala Duomo delle OGR Torino ospiterà FLASHOVER, un incontro fra parole, musica e immagini che accende i riflettori su una stagione irripetibile della cultura underground torinese, quella degli anni Ottanta e Novanta.

Curato da Alessandro Castelletto, Maurizio Cilli e Luca Morino il progetto è nato nell’ambito di Biennale Democrazia dalla collaborazione tra l’Associazione Vox Creola, Biennale Democrazia e OGR Torino con l’obiettivo di ricostruire e rielaborare l’impatto delle subculture giovanili nate tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo millennio.

  
Come un incendio che si propaga senza schemi predefiniti, Torino, nella fase di declino industriale, si affermò come uno dei centri nevralgici della creatività indipendente in Italia. Una città brulicante di sperimentazione, che trovò nella musica, nel teatro, nelle arti visive e nel nightclubbing nuove forme di espressione e identità, tanto da diventare un luogo di riferimento e un approdo per moltissimi.
FLASHOVER non è solo un tributo al passato, ma un ponte tra generazioni: un incontro tra chi ha vissuto quella stagione di fermento e i protagonisti della scena artistica contemporanea.  In un affresco di esperienze e ricordi, moltissimi – inevitabilmente non tutti! – fra i protagonisti di quella straordinaria stagione di teatro, danza, arte contemporanea, musica si ritroveranno per una giornata di incontro, ricordi, slancio verso un futuro che sappia ritrovare l’energia e la creatività di quei giorni.

Il programma della giornata si apre con il panel Creative City dalle 16 alle 17.30: con Chiara Bobbio (Città di Torino), Gian Alberto Farinella (Accademia Albertina di Belle Arti), Sara Fortunati (Circolo del Design), Alberico Guerzoni (Scuola Holden), Marco Rainò (IAAD), Paola Zini (IED Torino). Come mantenere il primato di un ambiente fertile per la creatività e la sperimentazione artistica intessendo reti e connessioni della scena culturale locale?
Dalle 18 alle 20 l’occasione per celebrare il 50° anniversario del Laboratorio Teatro Settimo con un omaggio a una delle realtà teatrali più innovative del panorama nazionale, che ha saputo esplorare le intersezioni tra scuola, città, teatro e mondo del lavoro, con Lucio Diana, Erica Nava e Lorenzo Tombesi (PoEM), Gabriele Vacis, Adriana Zamboni. Seguirà un tributo alla storica compagnia di danza contemporanea Sosta Palmizi, con Natalia Casorati, Daniele Ninarello e Alessandro Pontremoli. a seguire un Tributo a Guido Carbone, gallerista che ha segnato un’epoca dell’arte torinese, creando uno spazio che ha accolto artisti emergenti e sperimentatori con Monica Carocci, Sergio Cascavilla, Guido Costa, Enrico De Paris, Daniele Galliano, Pierluigi Pusole.

VILLEGGIATURA, SMANIE, AVVENTURE E RITORNO 
con Eugenio Allegri, Marco Paolini, Lucilla Giagnoni, Laura Curino, Beppe Rosso, Mariella Fabbris, Mirko Artuso, Benedetta Francardo, Massimo Giovara, Paola Rota, regia Gabriele Vacis

Dalle 20 alle 21, Flashover ospita un dj set di Roger Rama, dj e produttore protagonista di quegli anni con serate e set indimenticabili nei club e nei locali più iconici.
Dalle 21 a mezzanotte ancora incontri e musica dal vivo: con la conduzione di Federico Sacchi un Tributo a Carlo U. Rossi, omaggio al leggendario produttore musicale che ha lasciato un segno indelebile nella scena italiana con Andrea Costa, Mauro Tavella, Madaski, Mauro Ermanno Giovanardi, Marco Basso, Luca Morino, Pietro Giay e gli Omini. A seguire Materiali Resistenti – Il Cinema Indipendente, un viaggio nella cinematografia indipendente torinese, con i registi Luca Pastore, Irene Dionisio e Davide Ferrario. Radio Flash – La Voce della Città sarà un confronto generazionale che prende spunto dalle vicende della storica emittente indipendente per esplorare le nuove forme di radiofonia locale, alla ricerca di una nuova comunità di ascoltatori con Cosimo Ammendolia, Paolone Ferrari, Giusi Brunetti, Paolo “Mixo” Damasio, Chiara Pacilli, Stefania Vulpi. Infine, Nightclubbing Heroes: la nightlife torinese ha avuto un impatto determinante sulla cultura underground e no si può che chiudere con un viaggio nei club storici e nelle estetiche del nightclubbing con Johnson Righeira, Lella Lugosi, Ivano Bedendi, Maria Vernetti.

Durante tutta la serata, la resident band Loschi Dezi accompagnerà dal vivo gli incontri, con un’inedita colonna sonora figlia delle famose notti al Tuxedo e allo Studio 2. Proprio ai Loschi Dezi, testimoni e protagonisti di quell’epoca vibrante e seminale, il regista Alessandro Castelletto sta dedicando il documentario “Balla un nuovo passo falso” e nel corso della serata verranno presentati il teaser e la campagna di crowdfunding per sostenerne la realizzazione.

FLASHOVER sarà un’esperienza immersiva fatta di parole, immagini, video e musica, contributi originali di quegli anni, per raccontare e reinterpretare un’epoca in cui Torino ha saputo reinventarsi attraverso la cultura alternativa. Un evento per ricordare da dove veniamo e immaginare il futuro.


Loschi Dezi
CS