CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 36

Il castello di Montecristo: il rifugio violato di Alexandre Dumas padre

Nel 2002, non senza qualche polemica da parte dei critici che mai erano stati molto teneri con la sua prolifica produzione, Alexandre Dumas padre entrava nel Pantheon di Parigi

Il senso della scelta di seppellire l’autore dei “Tre Moschettieri” accanto ad Émile Zola e Victor Hugo si evince chiaramente dalle parole che il Presidente francese Chirac pronunciò in quell’occasione, rivolgendosi direttamente a Dumas: “Con lei entrano nel Panthéon l’infanzia, le sue ore di lettura assaporate in segreto, l’emozione, la passione, l’avventura. Con lei abbiamo sognato e sogniamo ancora”.


Le pagine di Alexandre Dumas, i suoi personaggi, le sue storie sono stati protagonisti delle letture di intere generazioni e quando accanto al libro si sono imposte altre forme di comunicazione D’Artagnan, Edmond Dantès, la Regina Margot si sono soltanto trasferiti nel mondo della celluloide, continuando a perpetrare la propria immortalità.
Alexandre Dumas, dal canto suo, aveva voluto realizzare, almeno in parte, le proprie fantasie letterarie, decidendo nel 1844 di creare un “buen ritiro” che sembrasse uscito dai suoi romanzi.
Dalle sue idee stravaganti certo, ma sicuramente geniali e originali, nacque la proprietà situata a Port Marly poco distante da Parigi.
Dumas affidò all’architetto Hyppolite Duran la creazione, all’interno di un grande parco di un castello rinascimentale, le Chateau de Montecristo, la sua dimora, e proprio di fronte fece costruire un altro castello neogotico circondato da un fossato, le Chateau d’If, per farne il proprio studio, un edificio appartato e interamente ricoperto dai nomi dei suoi personaggi.
L’abitazione del celebre scrittore, salvata oggi dalla rovina grazie all’intervento dei privati, si presenta come la trasposizione architettonica delle pagine dei suoi romanzi, rievocando molte delle descrizioni del Conte di Montecristo sia attraverso la rigogliosa vegetazione e le grotte, sia con “le salon maresque” che richiama alla mente le immagini dei misteriosi appartamenti della principessa di Giannina Haydée.
Le Chateau de Montecristo, la trasposizione nella pietra delle fantasie di Dumas, una “bomboniera” secondo Honoré de Balzac, rimase per poco tempo proprietà dello scrittore che, rovinato dai debiti, fu costretto a svendere per 31.000 franchi una proprietà che a lui era costata parecchie centinaia.
Nel 1851 Dumas abbandonerà definitivamente il suo castello per rifugiarsi in Belgio, inseguito da centinaia di creditori.
Soltanto nel 1854 lo scrittore potrà fare ritorno a Parigi, ma ormai il suo rifugio era diventato proprietà di altri, era stato violato da presenze estranee e di quel periodo restava soltanto il ricordo.
Accade, in letteratura, che il racconto diventi un modo per dare vita al proprio desiderio di avventura, di viaggio, di evasione. Basti pensare a Emily Brontë che fece vivere ai personaggi del suo romanzo i grandi amori e i tormenti che la sua anima bramava o a Salgari che viaggiò in continenti lontani solo con la scrittura.
A Dumas fu concessa, invece, una vita frenetica e avventurosa come le sue opere.
Figlio di un generale della Rivoluzione francese che combatté anche al fianco di Napoleone, nipote di un marchese francese e di una schiava africana originaria di Haiti, orfano a 3 anni e mezzo, dopo un’infanzia difficile, a soli 21 anni entrò al servizio del re Luigi Filippo d’Orleans come copista, trovando presto l’ispirazione per scrivere opere teatrali e, successivamente, per creare i capolavori che l’avrebbero incoronato come padre del “feuilleton”.
In pochi anni raggiunse fama e ricchezza, costruì un castello e un teatro e in un tempo ancora più breve perse tutto. Iniziò a viaggiare, in Belgio, in Germania, in Russia, in Italia.
Nel 1860 finanziò e prese parte alla Spedizione dei Mille, fu testimone oculare della battaglia di Calatafimi e fu a fianco di Garibaldi quando entrò a Napoli, diventando così uno dei protagonisti del Risorgimento italiano.


Nel 1870 una malattia vascolare lo costrinse a trasferirsi a Puys, vicino a Dieppe, nella casa del figlio dove si spense il 5 dicembre.
Lo scrittore venne sepolto a Neuville-les-Dieppe e, poi, successivamente, come aveva disposto in vita, venne traslato a Villers Cotterêts, la sua città natale, accanto ai genitori.
Il trasferimento al Pantheon rappresenta l’ultimo capitolo, quello inaspettato, dell’esistenza di uno scrittore che aveva fatto dei colpi di scena il leitmotiv delle sue opere, il riconoscimento della sua grandezza giunto tardivo, esattamente come tardivo arrivato a D’Artagnan il bastone da maresciallo, mentre la morte lo coglieva.
Del resto era proprio Edmond Dantès divenuto il Conte di Montecristo ad affermare che “Tutta l’umana saggezza è racchiusa in queste due parole: attendere e sperare”.

Barbara Castellaro

Tre incontri con sette autori al Castello di Miradolo

Pensieri in Piazza

27-29 settembre 2024

 

 

La vita, il cambio di rotta e la storia della GKN sono i temi del festival “Pensieri in Piazza”, curato dall’associazione Pensieri in Piazza in collaborazione con la Fondazione Cosso, che porta al Castello di Miradolo (TO), dal 27 al 29 settembre, gli autori di tre libri per alimentare riflessioni, stimolare il dialogo e il confronto.

Il primo appuntamento, venerdì 27 settembre alle ore 17, è con gli autori Federico Cramer e Claudio Villiot di “Vita. Dialogo filosofico scientifico intorno al più straordinario fenomeno dell’universo” (Edizione ETS 2024) in dialogo con Paola Molino, direttrice de L’Eco del Chisone. Che cos’è la vita? Gli autori hanno affrontato la complessità e profondità del tema attraverso un dialogo interdisciplinare che, intrecciando conoscenze scientifiche e riflessioni filosofiche, permette di cogliere, almeno in parte, la natura profonda della vita e la rappresentazione che l’uomo ne dà e su cui si fonda la percezione che ha di sé stesso e i rapporti che instaura con gli altri esseri viventi.
In un tempo in cui dilaga nel mondo la distruzione della vita, dei suoi ecosistemi e degli esseri viventi che in essi abitano e l’estinzione di migliaia di specie ogni anno passa del tutto inosservata, questo libro vuole essere un contributo allo sviluppo di un modo diverso di guardare, pensare e interagire con il più straordinario fenomeno dell’universo, di cui siamo parte.

Sabato 28 settembre alle ore 17, l’incontro è con Guido Viale, Adriano Sella ed Elisabetta Ribet, autori con Serge Latouche e Carlo Petrini del libro “Cambiare rotta. Oltre la società della crescita” (Edizione Panerose 2024) che raccoglie in un solo testo un insieme di analisi e riflessioni che da prospettive diverse ma comunicanti individuano i limiti sempre più evidenti della “società della crescita”. Gli autori mostrano come sia sempre più urgente e necessario mettere in discussione questo modello economico, sociale, culturale e vedono nella scelta di nuovi atteggiamenti, valori e stili di vita, nella costruzione dal basso di iniziative e pratiche comunitarie, nella ridefinizione del rapporto tra esseri umani e le altre forme del vivente, le premesse per un possibile “cambio di rotta”.

Protagonista dell’ultimo appuntamento di domenica 29 settembre alle ore 17, è Silvia Giagnoni, autrice di “GKN. Cronistoria personale di un innamoramento collettivo” (Edizioni Panerose, in uscita). Il 9 luglio del 2021 la Gkn, gruppo britannico acquisito nel 2018 dal fondo finanziario Melrose, chiude il sito di Campi Bisenzio: licenzia via e-mail 422 lavoratori approfittando dello sblocco dei licenziamenti dopo l’emergenza Covid. Gli operai e la comunità solidale non ci stanno, scavalcano i cancelli e danno avvio all’assemblea permanente più lunga della storia sindacale italiana. Da metalmeccanici produttori di semiassi portano il racconto della loro incredibile vertenza in giro per l’Italia e l’Europa, in nome della convergenza delle lotte, studiano recitazione, organizzano festival letterari, ma soprattutto elaborano piani di riconversione industriale per ridare una vita all’insegna della transizione ecologica alla loro fabbrica, che nel corso dei mesi è diventata anche la nostra.

Erminia Caudana e Amerigo Bruna. Pionieri del restauro per la Biblioteca Nazionale

In occasione delle Giornate Europee del Patrimonio 2024sabato 28 settembre la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino ospita presso la Sala storica l’incontro dal titolo:

 Erminia Caudana e Amerigo Bruna. Pionieri del restauro per la Biblioteca Nazionale,  28 settembre 2024 ore 10.30 presso  Biblioteca Nazionale Universitaria, Sala storica – Piazza Carlo Alberto 3, Torino

Evento è dedicato alla restauratrice Caudana e al suo allievo Bruna, a cui si deve il recupero di centinaia di volumi gravemente danneggiati dall’incendio che colpì l’antica sede della Biblioteca, in via Po, nella notte tra il 25 e il 26 gennaio 1904.

All’indomani dell’incendio, la necessità di salvare il patrimonio librario scampato alla distruzione portò la Biblioteca Nazionale a contribuire fattivamente all’evoluzione delle tecniche di conservazione e restauro.

L’antico laboratorio, il primo istituito in una biblioteca pubblica statale, è oggi parzialmente ricostruito con arredi e attrezzi originali nello spazio espositivo della Sala storica.

In questa occasione la sala verrà intitolata alla memoria di Erminia Caudana, per il ruolo decisivo della restauratrice nella storia novecentesca dell’Istituto e per la preziosa eredità che ci ha consegnato.

PROGRAMMA

Saluti istituzionali

Guglielmo Bartoletti, Direttore Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino

Fabrizio Antonielli d’Oulx, Presidente Associazione Amici Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (ABNUT)

Intervengono

Giovanni Saccani, Presidente Società Dante Alighieri – Comitato di Torino, già funzionario bibliotecario BNU Torino

Andrea Maria Ludovici, archivista e Amministratore delegato CulturAlpe s.c.

Paola Boffula Alimeni, papirologa e tecnica del restauro

Monica Bruna, donatrice ed erede di Erminia Caudana e Amerigo Bruna

Riccardo Lorenzino, Direttore editoriale e progetti museali Hapax Editore

A seguire visite guidate alla Sala storica condotte da Chiara Clemente e Vera Favro, archiviste e bibliotecarie CulturAlpe s.c.

Ingresso gratuito fino a esaurimento posti.

in allegato locandina.

Per informazioni:

bnuto.cultura.gov.it

bu-to.eventi@cultura.gov.it

www.abnut.it/

info@abnut.it

“Dovunque tu vada, lì ti seguirò“

MUSIC TALES LA RUBRICA MUSICALE 

Dovunque tu vada, lì ti seguirò

Nessuno ha promesso un domani

Quindi ti amerò ogni notte come se fosse l’ultima

Come se fosse l’ultima notte”

Lady Gaga in stile Dolly Parton per il suo ritorno: ecco il nuovo singolo “Die with a smile” con Bruno Mars, voce inconfondibile e meravigliosa, almeno per me.

È arrivata in piena estate una delle collaborazioni più inattese e, forse anche per questo, più interessanti. Lady Gaga e Bruno Mars hanno pubblicato il loro singolo Die with a smile, una ballata soul romantica e un po’ malinconica.

Per Lady Gaga, fresca di esibizione alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi, si tratta del primo inedito negli ultimi due anni, dopo aver rilasciato “Hold my hand” per la colonna sonora del nuovo capitolo di Top gun: che sia il preludio del nuovo, attesissimo album della star?

Intanto Die with a smile, un progetto nato mentre Bruno Mars stava lavorando su alcuni sound per il nuovo album, si candida a essere una delle canzoni più ascoltate di agosto e dell’autunno.

Come non crederci? Brano meraviglioso su due bocche ineccepibili.

Ma oggi voglio dirvi qualcosa che magari non sapete su uno dei cantanti più quotati dei nostri tempi.

Il suo vero nome è Peter Gene Hernandez Bayot ed Il suo nome d’arte “Bruno Mars” è stato ispirato dal wrestler paffuto Bruno Samartino proprio perché Bruno era un ragazzino paffuto. E Mars è arrivato perché aveva bisogno di un po’ di brio da aggiungere al suo nome e le ragazze dicevano che era uno “fuori dal mondo”. Ed ecco, quindi, Mars!

I suoi genitori si sono conosciuti a una mostra: sua mamma era una ballerina di hula hoop e suo padre un percussionista e da bambino il suo soprannome era “Little Elvis” (piccolo Elvis).

Grande talento, grande dedizione ed ecco uno dei molteplici risultati di questi piccolo grande Elvis venuto da Marte.

La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità.”

Adoro questo brano, sia per la musica che per il testo e spero piaccia anche a voi

CHIARA DE CARLO

https://www.youtube.com/watch?v=kPa7bsKwL-c

Chiara vi segnala i prossimi eventi …mancare sarebbe un sacrilegio!

“Vivere a colori” di Bruno Casetta al Con/Temporray Spaces

Inaugura martedì primo ottobre in via Santa Teresa

 

Inaugura martedì primo ottobre 2024, alle ore 18.30, presso Con/Temporary Spaces di via Santa Teresa ( ex teatro Macario) la mostra intitolata “Vivere a colori” di Bruno Casetta, curata da Ermanno Tedeschi, visitabile fino al 15 ottobre prossimo.

L’esposizione, composta da una ventina di opere, racconta il favoloso immaginario dell’artista che in ogni dipinto, tra colori sgargianti e ambientazioni iconiche, ha dato forma alla gioia di vivere e all’energia creativa che da sempre lo caratterizzano.

“Autenticità, semplicità, solarità e gentilezza sono le caratteristiche che contraddistinguono Bruno Casetta – spiega Ermanno Tedeschi, curatore della mostra – l’artista è protagonista di un’arte mai banale ed è un pittore sempre attento alla realtà che lo circonda”.

Si tratta di una pittura figurativa e immaginaria, che ritrae natura e luoghi familiari, quali il mercato di Porta Palazzo, i paesaggi torinesi, i tram, dettagli come i grappoli d’uva, fabbriche dismesse, elefanti e panorami marini, esprimendo emozioni di felicità e tristezza”.

Bruno Casetta nasce a Torino nel 1959, compie gli studi artistici da autodidatta e inizia nel 1979 a frequentare corsi per giovani pittori presso il Museo Jeau Des Pommes di Parigi e in seguito frequentando gli studi di amici pittori torinesi. Partito dagli impressionisti a Parigi, si è poi dedicato alla pittura espressionista e fauvista, studiando Delonnay e elaborando una pittura vorticistica che caratterizzerà le sue prime opere. È continua la sua ricerca sul colore, sul suo movimento e linguaggio, che lo hanno portato a elaborare una pittura figurativa molto personale.

 

Mara Martellotta

La lezione di Olmi tra le montagne del Trentino

Da Venezia sugli schermi “Vermiglio” di Maura Delpero

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Il risveglio nella grande stanza piena di letti dove ci si dorme in due, in tre; il secchio del latte riempito dalla mungitura della vacca, là nella stalla; il padre, un vecchio maestro, che ama Chopin e Vivaldi e che mette i suoi piccoli (e grandi) allievi dinanzi alle suggestioni della parola e della poesia, forte come una torre di difesa e da sempre ancorato a una educazione che non ammette repliche, una madre che ha messo al mondo una decina di figli, quelle rimasti e quelli che ha dovuto seppellire, ogni giorno ad affannarsi nella cucina per non far mancare nulla a quelle bocche, la zia sentenziosa, anche un giovane disertore di quell’ultimo anno della guerra del ’40, che qualcuno in paese tratta da vigliacco ma che in quella famiglia ha trovato rifugio e protezione, lui lontanissimo da quella sua Sicilia che dal nordico Trentino, dallo sperduto paese di Vermiglio, si distanzia di parecchie spanne: tutti attorno al tavolo, un pezzo di pane e una scodella di quel latte caldo. Fuori il bianco della neve e la sua faticosa compattezza (ma ci sarà lungo l’arco della vicenda l’avvicendarsi delle stagioni) e le montagne alte, sovrastanti tutti e tutto, protettive ma anche separazione dal resto dell’umanità, in mezzo alle quali la guerra con gli eccidi e le bombe e le battaglie appare tranquillamente lontana. Ma sempre la grande Storia a raccogliere le piccole storie, di ogni giorno e di ogni anno.

Maura Delpero, nata a Bolzano, pressoché cinquantenne, se n’è andata alla Mostra di Venezia circondata da nomi d’autori altisonanti e dal macigno delle grandi produzioni e se ne è tornata con il Leone d’Argento Gran premio della Giuria. Cinque anni fa, dopo un passato di corto e mediometraggi, il primo importante successo con il premiatissimo “Maternal” a Locarno, selezionato in seguito per un centinaio di festival, carico di riconoscimenti, acquistato al di qua come al di là dell’Atlantico. Oggi con “Vermiglio” continua il proprio cammino guardando principalmente alla figura della donna, alla maternità e alla sessualità, alle rivoluzioni che coltiva e che le stanno intorno, ai sensi colpa che in qualche caso la devastano, ai tradimenti subiti. Un cammino condotto con grande grazia, con pacatezza, con una ricchezza di soffici particolari come raramente s’incrociano sullo schermo, in un racconto che non mostra mai attimi di stanchezza, guardando al passato con occhio critico ma anche facendo inevitabilmente sua la quotidianità del presente, in un panorama cinematografico che ha nel cinema di Ermanno Olmi il proprio sicuro punto d’attracco e la sua indimenticabile lezione. Delpero costruisce momenti che possono nascere quasi dal nulla ma che hanno in sé una invidiabile robustezza, regala la bellezza dell’ambientazione del fuori e dell’interno, riempie le immagini di luci e di ombre anche grazie all’ottima fotografia di Michail Kričman, di oggetti, di facce che restano nella memoria, di innocenti complicità, di ribellioni verso l’autorità dei padri e verso le filosofie antiche, di fatica e di sentimenti, di situazioni d’affetto e di egoismi (la moglie, che ha nuovamente partorito, rinfaccia al suo uomo di non averle mai offerto un mazzo di fiori al termine delle tante gravidanze, mentre lui è pronto a rimproverare il figlio maggiore d’aver “rubato” dal cortile dei vicini quei fiori per portarli a sua madre).

All’interno della forza e della musicalità del dialetto – e non poteva essere diversamente -, in quello che Delpero ha definito “un paesaggio dell’anima, un ‘lessico famigliare’ – momenti fatti di un presente che coltiva felicità momentanee (l’incontro tra il ragazzo di Sicilia e la maggiore delle figlie del maestro, la stretta di mano e i bigliettini con il cuore disegnato, la promessa e il matrimonio e la festa di nozze sul grande prato) e di dolore (il ritorno di lui a guerra finita e la scoperta di come sia già sposato); di futuro, con la più piccola delle sorelle che potrà felicemente continuare gli studi; mentre l’altra sceglierà la strada del convento, nella volontà di cancellare quegli istinti e quel peccato che da sempre la inseguono. Emozioni nette, precise, ben delineate, uno sguardo, una confessione, un sorriso e una lacrima, tutto disseminato in un racconto che lascia conoscere e apprezzare senza mezzi termini una autentica autrice. Sempre coadiuvata da un manipolo di interpreti eccellenti, la maggior parte visi sconosciuti al grande pubblico, ma da tenere a mente: non il granitico Tommaso Ragno e Orietta Notari, che piace sempre di più ritrovare sullo schermo al di là dei palcoscenici teatrali, ma le efficaci sorprese che sono Martina Scrinzi (la sposa abbandonata) e Roberta Rovelli e Anna Thaler e Rachele Potrich. Una autentico successo, che a Torino un unico esercente cinematografico sta ospitando in una delle proprie sale: a significare che per l’occasione il coraggio è davvero mancato.

La leggerezza della scultura contemporanea

A Costigliole Saluzzo, si rilancia la prestigiosa location di “Palazzo Sarriod de La Tour”,  con le sculture di tre artisti di respiro internazionale

Fino al 27 ottobre

Costigliole Saluzzo (Cuneo)

Ecco i nomi: Enzo BersezioToshiro Yamaguchi e Carlo D’Oria. Tre artisti, scultori soprattutto, che da anni s’arrovellano, giocano, faticano e gioiscono rincorrendo, ognuno a modo suo (ma con la tenacia di chi sa di ben conoscere il mestiere) le strade più innovative, e a loro più congeniali, dell’idea di un’arte contemporanea pienamente di casa nell’ambito dei processi indefiniti dell’“astratto-concettuale” o dell’“informale”. Passando per un tema comune a tutti e tre: l’“uomo” nelle sue molteplici implicazioni esistenziali e nel suo relazionarsi con il mondo “altro” e con le leggi spesso inascoltate della natura. In linea con questo comune “fil rouge” , ai tre scultori di cui sopra, Costigliole Saluzzo (il paese dei tre castelli, all’imbocco della Valle Varaita) dedica, fino a domenica 27 ottobre, nelle ampie stanze – dagli stupendi soffitti affrescati – del settecentesco “Palazzo Sarriod de La Tour”, antica residenza dei “Saluzzo – Paesana”, una rassegna curata da Cinzia Tesio e resa possibile grazie all’impegno dell’Associazione giovanile “AttivaMente” con l’aiuto, oltreché della civica amministrazione, di numerosi sponsor pubblici e privati (Orari: sab. 15,30/19, dom. 9,30/12,30 e 15/19)

“La scultura – annotano gli organizzatori – dona un’anima ai materiali”. Ecco il perché del titolo “La leggerezza della scultura contemporanea”, laddove per “leggerezza” s’intende quel concetto di “poetica fascinazione” capace di trasformare la “solidità” delle opere realizzate (con materiale vario, dal legno al ferro all’acciaio alle carte e alle argille) in trasparente “involucro” di sensazioni e liriche emozioni in grado di farci riflettere, senza troppo imbrigliarci in terrene banali “verità”, sui “temi di attualità del quotidiano sociale e dei loro intrecci con il mondo nella sua complessità”.

Gli scultori presenti in mostra “formano – spiega Cinzia Tesio – un gruppo eterogeneo per i personalissimi linguaggi espressivi, ma uniti dalla loro passione per l’arte e la materia che li ha portati ad una produzione di forme uniche e affascinanti. Uno spettacolo da vivere con passione. Quella “passione” che ci trasmette, per primo, Carlo D’Oria (Torino, 1970), attraverso opere, prevalentemente realizzate in ferro e in acciaio concentrate sul tema per lui nodale dell’“uomo” e di quel peccato di “egolatria” così imperante ed imperversante ai giorni nostri da fargli scegliere di “abrogare il soggetto – com’ è stato scritto –  di ‘svuotarlo’ e di renderlo appena una sagoma”. Informe nel suo commisurarsi con altre “creature vive, stanche, gobbe, simili nel loro anonimato e paradossalmente uniche”.

Decisamente più rilassanti gli universi plastici del giapponese Toshiro Yamaguchi (Okayama, 1956), che a Costigliole espone una scenografica e originalissima installazione dal titolo “Infinite Butterfly”. La sua produzione, fatta di lavori essenziali e “minimal”, vogliono evocare l’idea del giardino, l’immagine rasserenante di un mondo naturale cromaticamente interpretato attraverso la contaminazione delle antiche monocromatiche “tradizioni zen”, a lui tramandate dagli antichi maestri del Sol Levante, con “mosaici di pietra” dai vividi colori mediterranei maturati nel corso degli ultimi anni, dopo il suo trasferimento in Spagna, a Madrid. Il risultato è un amalgama perfetto di segni e colori di immediata comprensione e di una regolarità compositiva che qualcuno , forse un po’ troppo avventatamente, ha inteso accostare al “neoplasticismo” (“De Stijl”) mondriano.

Allievo alla torinese “Accademia Albertina di Belle Arti” di Torino del grande Sandro Cherchi e lui stesso docente di “Discipline Plastiche” al “Liceo Artistico Statale” della città, Enzo Bersezio (Lesegno – Cuneo, 1943) si muove ancora oggi in una landa operativa non del tutto sgravata dalle lezioni di quell’ “Arte Povera” al cui interno ebbe a muovere i primi passi e che il critico Germano Celant (storico “guru” del movimento) dichiarava manifestarsi essenzialmente “nel ridurre ai minimi termini, nell’impoverire i segni per ridurli ai loro archetipi”. E proprio su questa strada si muovono tuttora, pur seguendo linee compositive del tutto personali, le “installazioni” prevalentemente lignee di Bersezio (che bello quell’“Occhio dei Ciclopi” del 2010!), incentrate anch’esse su diafani giochi di forme arcaiche ed essenziali, “corpi plastici mistilinei … leggeri, aerei e snelli nel loro disporsi nello spazio che li circonda”.

La mostra sarà accompagnata da  una serie di eventi collaterali (musica, incontri, teatro) tesi a promuovere il territorio e le sue eccellenze. Comprese quelle, non poche e di assoluto pregio, di carattere enogastronomico.

Gianni Milani

Per info: Palazzo “Sarriod de La Tour”, via Vittorio Emanuele 103, Costigliole Saluzzo (Cuneo); tel. 0175/230121, info attivamente12024@gmail.com

Nelle foto: “Palazzo Sarriod de La Tour”; Carlo D’Oria “Interferenze misurabili”, acciaio; Toshiro Yamaguchi “Infinite Butterfly”, carte; Enzo Bersezio “L’occhio dei Ciclopi”, legno trattato, 2010

Fondazione Sandretto, le mostre a Guarene

Nel comune piemontese di Guarene, in provincia di Cuneo, che ospita la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, quella del 21 settembre è stata una giornata all’insegna dell’arte, con l’inaugurazione di due mostre, entrambe aperte fino al 10 novembre, e il disvelamento di una nuova opera per il Parco d’arte “Sulla collina di San Licerio”. Alle ore 17 del 21 settembre si è tenuto un laboratorio per famiglie al palazzo Re Rebaudengo curato dal dipartimento educativo della Fondazione e seguito dalla mostra collettiva “Truly rural”, curata da Bernardo Follini, che interroga gli immaginari connessi al mondo rurale da una prospettiva storica e contemporanea. Concepita a partire dalle ambientazioni di palazzo Re Rebaudengo, sulle colline del Roero, la mostra propone un dialogo tra opere della collezione Sandretto Re Rebaudengo e alcuni contributi di artisti e artiste di differenti generazioni. I protagonisti dell’esposizione sono Noor Abed, Massimo Bartolini, Sarah Ciraci, Mario Giacomelli, Helena Hladilová, Mauro Ledru, Marko Lehanka, Jumana Manna, Carol Rama, Athi-Pathra Ruga, Eoghan Ryan e Wilhelm von Gloeden.

Sono loro gli artisti selezionati da Bernardo Follini, che prende le mosse dall’idea romantica di paesaggio e dal concetto di autenticità per riflettere sull’idea di rurale nel senso comune e sulle sue origini. Il titolo della mostra nasce dalla videoinstallazione del 2019 ‘Truly rural” dell’artista irlandese Eoghan Ryan (1987). Posta all’inizio del percorso espositivo, è costituita da sedute in fieno e da un video che descrive la tradizione trasgressiva del carnevale in una località rurale tedesca. Esplorando i diversi fattori che costituiscono l’ecosistema agricolo (agricoltura, allevamento, vita comunitaria e turismo) , le opere si propongono di far luce sulle infrastrutture visibili e invisibili, sulle attività sociali e sui sistemi di produzione realizzati su determinati valori e economie. Attraverso i lavori esposti, la mostra offre un’analisi dei fenomeni sociopolitici che influenzano la campagna e il comportamento collettivo degli abitanti, indagando la relazione tra comunità, discendenza e appartenenza, e facendo anche emergere delle inquietudini private. Sempre a palazzo Re Rebaudengo è presente un secondo percorso espositivo, la personale di Tin Ayala (1998) dal titolo “There is no conquist without celebration”, a cura di Follini. Questa mostra segna il dodicesimo anno di collaborazione della Fondazione con Ensba Lion, l’Ecole Nationale Supérieure des Beaux Arts della città francese. Tin Ayala é artista originario delle ande equatoriane, ha partecipato all’edizione nel 2023 del programma “Post diplôme”, aperto ogni anno a cinque artisti. Ayala prende come punto di partenza del suo lavoro l’identità Cholo, termine di origine indigena che designava, nel periodo della colonizzazione andina, i discendenti degli indigeni spagnoli. Per l’artista questa identità postcoloniale è in grado di ridefinire le nozioni di razza attraverso un potenziale generativo transculturale. Il suo lavoro è concepito come un collage scenografico che integra immagini precoloniali, rappresentazioni contemporanee, simboli indigeni e personaggi della cultura pop. Ayala, contemporaneamente, realizza azioni dirette in collaborazionorigini collettivi locali delle Ande intorno all’identità Cholo.

La mostra a Guarene rappresenta un’ulteriore tappa del progetto di ricerca Cholonizacion, con cui da due anni l’artista vuole definire il potenziale delle produzioni Cholo-Andine, creando uno spazio ibrido in cui possono coesistere elementi di una cultura egemonica internazionale e sopravvivere dinamiche culturali locali legate a gruppi sociali storicamente oppressi. Il Parco d’Arte della Fondazione Re Rebaudengo è stato il secondo scenario della giornata di inaugurazioni, con un attraversamento della città dal palazzo della Fondazione, insieme a un concerto itinerante di Bandakadraba. È stato presentato nel Parco d’Arte il mosaico rurale dell’artista statunitense Tauba Auerbach, che si aggiungerà alle sculture presenti sul luogo. Si tratta di un mosaico che nasce da una serie di dipinti con lo stesso titolo e si basa su fotografie microscopiche della schiuma, rappresentate da migliaia di puntini dipinti a mano. La schiuma, ingrandita nei punti d’incontro con le bolle, si rivela una rete, un intreccio che emerge da un campo di particelle. Collaborando con un team di artigiani con sede in Italia e un programmatore per creare software, Auerbach ha adattato la serie dipinta a un mosaico murale all’aperto in un’opera lunga undici metri, dal titolo “Foam”.

 

Mara Martellotta