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Si terrà domenica 31 luglio alle ore 21.00 presso la Piazza del Comune di Usseaux, una conferenza a tema sul mondo delle fiabe, dal titolo: Dalle fiabe occitane alle fiabe dei Grimm.
Un viaggio magico verso le radici dell’uomo. Ospite dell’evento lo scrittore, saggista e mitologo Paolo Battistel che riprendendo il suo ultimo libro La vera origine delle fiabe. Gli ultimi frammenti di un mondo perduto (Uno Editori), prenderà in esame, analizzandole in chiave mitologica e antropologica, le più note fiabe del folklore
popolare occitano, comparandole con le principali fiabe dei fratelli Grimm come “Hänsel e Gretel” o “Cenerentola”. Verrà posta particolare attenzione alle fiabe e leggende legate al territorio di Usseaux come “La leggenda del colle della vecchia”.
L’evento patrocinato dal Comune di Usseaux sarà moderato dalla vicesindaco, la dottoressa Ester De Donatis.
In caso di pioggia la conferenza avrà luogo presso i locali del Punto Museo Eugenio Brunetta con sede in via Conte Eugenio Brunetta, 53, Usseaux (Torino).
Le fiabe, che la società moderna ha rinchiuso a forza nella stanza dei bambini, sono molto più antiche di quello che possiamo lontanamente immaginare e nascondono un volto segreto: sono ciò che rimane di antichi miti precristiani diffusi in Europa durante l’antichità e il Medioevo. Queste narrazioni sopravvissute agli stessi popoli che le avevano generate vennero censurate ed epurate dalla cultura cristiana trasformandole in seguito in racconti per l’infanzia.
Paolo Battistel, studioso di miti e leggende, metterà in luce l’antico significato delle fiabe immerso in una mitologia ormai perduta ma ancora presente dietro il primo livello di lettura di questi racconti. Sopravvissute agli stessi popoli che le avevano generate, le fiabe vennero infatti censurate ed epurate dalla cultura borghese benpensante trasformandole in “semplici” racconti per l’infanzia. Le fiabe ci incantano perché ritroviamo in esse i frammenti della nostra stessa anima, frammenti che ritenevamo perduti e che si risvegliano appena iniziamo a leggere “C’era una volta…”.
Paolo Battistel, laureato in filosofia con tesi in mitologia, è profondo conoscitore dei miti e delle leggende precristiane. Vanta numerose collaborazioni con testate giornalistiche e trasmissioni televisive nazionali e locali. Ha scritto una raccolta di fiabe dal titolo Lu Barban, il diavolo e le streghe e un saggio di storia dal titolo Il mistero della Roccaforte dei Rosacroce. Ha pubblicato tre saggi d’argomento mitologico Il sangue di Caino, I figli di Lucifero e Il dio cornuto. Ha scritto inoltre il saggio letterario J.R.R. Tolkien, il lungo sentiero tra ombra e luce. La vera origine delle fiabe è la sua ultima pubblicazione. Vive e lavora a Torino come scrittore, docente ed editor.
Ester De Donatis, dal 26/05/2019 è vicesindaco del comune di Usseaux con delega all’Istruzione, ai servizi sociali, alla cultura, all’ambiente e alla promozione del territorio.
Per informazioni:
Comune di Usseaux
E-mail: usseaux.sindaco@gmail.com
E-mail: info@comune.usseaux.to.it
Patricia Engel “Paese infinito” -Fazi- euro 18,50
Patricia Engel è una scrittrice americana nata da genitori colombiani, un’immigrata di prima generazione sospesa tra due mondi: nata su suolo americano ma cresciuta secondo i valori della sua famiglia, spagnolo parlato in casa, inglese fuori.
La sua è una famiglia di artisti molto unita che ha dovuto lasciare il proprio paese e la casa di origine. La nonna era una matriarca con 9 figli, e affidava i suoi pensieri alle parole sciorinate in poesie, diari, racconti e romanzi che scriveva per se stessa.
Forse è da lei che Patricia Engel ha in parte ereditato la sua immensa bravura di scrittrice; tanto che oggi è una delle voci più interessanti della letteratura d’Oltreoceano, capace di mettere il dito sulla piaga della discriminazione, che c’era già prima di Trump, lui l’ha solo accentuata e gridata nei suoi proclami.
La storia che racconta nel romanzo non è autobiografica, ma riflette le traversie di molti consanguinei che sono stati separati da barriere, muri, razzismo.
Narra le vicende travagliate di una famiglia colombiana in seguito alle violenze degli anni 80 e 90, ne segue le sorti lungo una trentina di anni; a partire da quando Elena e Mauro si incontrano, s’ innamorano e hanno 3 figli. Poi decidono di emigrare negli Stati Uniti alla ricerca di una vita e un futuro migliori.
Ma il sogno americano finisce in un incubo: Mario viene deportato in Colombia perché trovato senza documenti e la famiglia si spacca in due.
Elena resta senza documenti in America insieme ai figli Karina e Nado, arrabattandosi come può: vive in tuguri, cerca di stare a galla dalla miseria più nera accettando lavori tra i più umili e sottopagati.
Invece, Mauro in Colombia viene raggiunto dall’altra figlia Talia che cresce con la nonna materna Perla (e l’accudirà con riconoscenza quando la demenza senile ne afferrerà la memoria).
Il romanzo inizia proprio con le vicissitudini della giovane Talia.
Ha alle spalle un’aggressione compiuta per vendicare un torto. Poi la via Crucis dell’arresto in Colombia, il riformatorio, la fuga dal carcere; dapprima verso Bogotà, e da lì negli Stati Uniti, per raggiungere la madre, la sorella e il fratello.
Un’Odissea in cui diventa adulta tra espedienti vari, autostop e squallidi motel; per lo più da sola e senza la protezione di adulti amorevoli. Spesso se la cava ricorrendo ai consigli sgangherati delle ex compagne di riformatorio che la vita ha addestrato con impervi sentieri di guerra.
Sullo sfondo aleggia un dubbio amletico: è peggio la violenza di tutti i giorni in Colombia, oppure la feroce discriminazione e le crudeli politiche sull’immigrazione degli Stati Uniti?
Travalicare un confine è questione di movimento, la storia dell’umanità è un continuo venire e andare, ed è su questo che il romanzo inchioda il lettore e lo spinge a interrogarsi su concetti come empatia, giusto o sbagliato,……
Ann Tyler “La treccia alla francese” -Guanda- euro 18,00
Ann Tyler è tra le scrittrici americane più prolifiche e importanti: ha vinto il Premio Pulitzer nel 1989 con “Lezioni di respiro”, mentre “Turista per caso” è stato finalista al Pulitzer ed ha ottenuto il Premio del National Critics Circle Award.
In questo romanzo la Tyler sonda gli animi dei membri della famiglia Garret; apparentemente un nucleo ben assemblato e in armonia, una famiglia come tante altre. E invece, no. Il tranquillo e banale tran tran di Robyn e Mercy Garret -e dei loro 3 rampolli Alice, Lily e David- nasconde sotterranei inattesi che vengono alla superficie durante la settimana vacanziera che trascorrono in una baita affittata in riva al lago nel 1959. Da un episodio particolare inizia a sgretolarsi la facciata e scopriamo le vite dei vari Garret, anche negli anni che seguono, fino alla Pandemia che ha fermato il mondo.
Leggendo scopriamo le distanze siderali tra i 5 Garret.
A partire da Mercy che si rintana sempre più a lungo nell’atelier dove dipinge, ma che lentamente finisce per diventare la sua casa, lontano dal marito. Una separazione graduale e senza strilli che si realizza in totale armonia con Robyn. All’inizio non afferra la voragine che si sta spalancando ai suoi piedi; poi invece di riconquistare la moglie si butta a capofitto nel lavoro.
Capitoli a parte sono le vite dei figli: Alice è quella che resta ancorata più saldamente al concetto di famiglia, mentre gli altri prenderanno direzioni diverse.
Lily lascia il marito B.J. senza clamore e praticamente di comune accordo; si è innamorata di un altro uomo, Morris, il quale a sua volta divorzia dalla moglie.
I Garret senior non sono certo entusiasti della scelta della figlia, che per giunta si trova a dover affrontare una gravidanza della quale avrebbe fatto a meno.
Poi c’è David che si allontana dalla famiglia sempre di più; inizia con gli studi lontano da casa e non torma indietro. Della sua vita non racconta, i genitori sanno poco-nulla, salvo vederselo arrivare con una sorpresa non da poco.
Ecco a grandi linee il quadro di questa famiglia tutt’altro che infelice, non ci sono epici scontri o fratture insanabili; semplicemente veleggia una distanza dapprima interiore e poi anche fisica tra i vari membri. Una famiglia imperfetta, come lo sono tutte, raccontata magnificamente da questa notevole scrittrice.
Jean Diwo “Le dame del Faubourg” -21Lettere- euro 19,00
E’ un romanzo storico, il primo di una trilogia che in Francia ha venduto milioni di copie, scritto dall’autore francese Jean Divo, nato nel Faubourg Saint -Antoine nel1914 e morto nel 2011 a 96 anni.
Protagonista è proprio il suo luogo natio, uno dei sobborghi più importanti di Parigi.
Attraverso le avventure della famiglia Cottion-Thirion -di professione falegnami- Diwo ripercorre la storia di questa operosa arteria parigina: a partire dal 1471 nella Francia di Luigi XI, tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, e conclude il primo capitolo della trilogia con la presa della Bastiglia.
Jean Cottion arriva a Parigi nel 1471, è accolto dalla famiglia di Pierre Thirion, uno dei falegnami più talentuosi che provvede ai lavori nell’ all’Abbazia di Saint Antoine, intorno alla quale si raccoglie e vive il sobborgo. Pierre intrattiene ottimi rapporti con la badessa che darà protezione e slancio agli abitanti operosi.
Se amate i grandi affreschi storici questa saga familiare promette scene di vita quotidiana, la grande storia narrata attraverso quella più piccola di una famiglia di ebanisti che -tra mecenatismo, tanto lavoro e grandi doti- renderà il mobile francese famoso in tutto il mondo e nei secoli a venire.
Quasi 800 pagine che scorrono veloci e intense raccontando scene di vita quotidiana della Francia: i rapporti non sempre facili tra politica e clero, l’importanza della abazie e delle badesse che le dirigono e diventano grandi committenti degli artigiani del luogo. Scontri e alleanze tra nobili, usi e costumi dei vari ceti sociali e le vicende private di una famiglia di artigiani di alto livello, alle prese con innamoramenti, matrimoni, nascite e lutti.
Vedrete le primitive case del Faubourg trasformarsi da umili officine a dimore eleganti, compariranno personaggi famosi -tra i quali Caterina De Medici, Voltaire, e artisti come Vasari e Pinturicchio-, ci saranno guerre, epidemie, carestie, ma anche momenti di pace e maggior benessere. Tutto raccontato intercalando le piccole storie degli uomini semplici con i continui ribaltamenti delle vicende storiche.
Francesco Casolo “La salita dei giganti” -Feltrinelli- euro 19,00
Questa saga familiare è la storia di una scommessa vincente, del successo di chi ha saputo guardare oltre l’ostacolo, ed è la narrazione dei Menabrea, maestri birrai partiti da un altro paese e dal nulla. Un’avventura imprenditoriale tra seconda metà dell’Ottocento e giorni nostri, tra Biella e Val d’Aosta; iniziata grazie alla geniale intuizione di Giuseppe, walser di Gressoney che commerciava oltreconfine in lana e prodotti artigianali.
Gli avi dei Menabrea discendevano dal popolo germanico che nei secoli passati aveva valicato le Alpi per arrivare nella valle del Lys. Nel loro paese di origine si beveva parecchio e in Italia la nostalgia della birra a cui erano abituati si faceva sentire: a Gressoney la compravano, ma non era la stessa cosa. Erano abili commercianti sempre in movimento a vendere stoffe come si faceva a Biella. Poi Giuseppe (in walser Joseph) nato tra le cime di Gressoney, decise di farsela da solo quella spettacolare birra e puntò tutto sulla sua produzione.
Alla sua morte il timone del comando passa al figlio Carlo: è intraprendente, innovatore, sogna in grande, ed è l’artefice della dimensione imprenditoriale e della fabbrica che avvia con successo. Compra il castello di Gaglianico dove vive con la moglie Eugenia e le tre figlie: Albertina, Genia e Maria.
Ma la salute purtroppo non lo sostiene e a soli 39 anni muore lasciando un vuoto immenso nelle donne di casa. Sono magnifiche e intense le pagine che narrano la malattia ai polmoni che lo porterà nella tomba, assistito con amore, dedizione e apprensione dalla moglie e dalle tre bambine. Genia ha solo 9 anni quando il padre viene sotterrato e quello sarà il momento che decreta la fine della sua infanzia e l’affacciarsi di una grande donna.
E’ proprio Genia la prescelta, quella che il padre portava in montagna mentre il nonno Joseph le aveva spiegato che la birra era stata inventata in Egitto, lungo il Nilo; per caso, da una donna che aveva lasciato dell’orzo in una cesta, bagnata poi dagli scrosci del temporale.
Genia, memore della frase paterna «Non avere paura», si butta a capofitto nella vita, curiosa, ribelle e fuori dagli schemi della sua epoca.
Dopo la morte di Carlo, la moglie era riuscita a stare a galla e a mantenere in piedi l’azienda; ma è con i matrimoni delle figlie e l’ingresso dei generi nella fabbrica -i mariti di Albertina ed Eugenia- che l’impresa, diventa sempre più grande ed importante.
Genia si unisce a Emilio Thedy che caratterialmente assomiglia parecchio all’amato padre Carlo; stessa irruenza ed esuberanza, sempre in viaggio per affari. Il loro sarà un amore travolgente, ma destinato ad essere troncato dalla morte prematura di lui, che la lascia giovane vedova a soli 35 anni con 5 figli maschi da crescere.
Casolo ha ricostruito la complessa storia di questa dinastia consultando archivi, documenti e tutto quello che è riuscito a trovare sui Menabrea e i banchieri Sella, con i quali Carlo aveva unito le forze per costruire la strada che avrebbe spalancato le porte del mondo e di nuovi mercati, mettendo fine all’isolamento della valle.
Una grande avventura in cui si alternano: coraggio, rischi, successi, gelosie, amori, nascite, malattie e morti, ovvero la trama di mille fili che compone la vita.
GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA
Martedì. A Ricaldone (Al) suona Goran Bregovic’. Al Magazzino sul Po si esibisce il gruppo punk Cro-Mags. Al Pala Alpitour è di scena Harry Styles preceduto dai Wolf Alice.
Mercoledì. Ai Giardini della Rocca di Bra suona il trio del polistrumentista statuninense Louis Cole con la voce di Genevieve Artadi.
Giovedì. Al Blah Blah si esibiscono gli Eyehategod. Per “Monfortinjazz” suona Benjamin Clementine. A Vercelli arriva Gianna Nannini. Al Forte di Bard suona Al Di Meola.
Venerdì. Ad Avigliana per il “Due Laghi Jazz Festival “ ad Almese, suona il “Nex Quartet” del sassofonista Claudio Fasoli. Per due sere consecutive al Tecnoparco di Verbania si esibisce Patti Smith. A Venaus parte “Alta Felicità” con Pop X e Bianco.
Sabato. Per il “Due Laghi Jazz Festival” a Rubiana, omaggio a Charlie Mingus con il quintetto di Aldo Zunino. Per “Alta Felicità” suonano gli Africa Unite e Alborosie. Per “Occit’amo” a Saluzzo lo spettacolo “Viaggio al termine della notte” con Teho Teardo e Elio Germano.
Domenica. A Ricaldone recital di Elio con l’omaggio a Jannacci “Ci vuole orecchio”. Al Forte di Bard si esibisce Toquinho.
Pier Luigi Fuggetta
Quando si parla di campi di sterminio, frutto dell’abominio dell’idea nazista, il pensiero corre immediatamente ai milioni di Ebrei di ogni parte d’Europa che persero la vita in quell’inferno in terra, soprattutto (ma non solo) durante la seconda guerra mondiale.
Ma non bisogna dimenticare che ‘ospiti’ e vittime della barbarie furono anche russi, polacchi, zingari, Testimoni di Geova, ‘asociali’ (come venivano chiamate persone ai margini della società bruna), omosessuali, prigionieri di guerra, oppositori politici, resistente.
Terenzio Magliano, nato a Torino nel 1912 e scomparso nel 1989, dottore commercialista, capitano paracadutista, combattente della guerra mondiale e, successivamente, partigiano ispettore delle formazioni Matteotti, fu uno di questi.
Catturato a Torino dai tedeschi, in seguito alla delazione di una donna che aveva un negozio vicino alla sede di un grande giornale, venne inviato a Mauthausen, in Austria, nel tristemente famoso ‘campo di lavoro’ (la distinzione tra campo di sterminio e di lavoro è piuttosto eufemistica, anche perché in questo secondo tipo di lager, se non morivi gassato, pur in presenza di forni crematori, morivi di stenti o di malattia, o giustiziato per aver commesso qualche infrazione o, semplicemente, per a discrezione dei tuoi carnefici) dove trascorse 17 mesi sino al momento della liberazione e del rientro in Italia.
Nel dopoguerra fu un politico apprezzato per serietà e coerenza, nella sila del Partito Socialista, nel Psu e infine nel Psdi, ricoprendo importanti incarichi quali assessore al bilancio del Comune di Torino e senatore e deputato della Repubblica.
Nel 1963 diede alle stampe ‘Mauthausen cimitero senza croci’, edito per i tipi di Roggero e Tortia editori.
E’ un libro di appena un centinaio di pagine, molto scorrevole, che racconta la sua esperienza di deportato e la sua vita e sopravvivenza nel campo nazista. Cosa lo spinse a mettere su carta i suoi ricordi lo dice lui stesso nell’introduzione: “Niente. Forse non avrei mai scritto niente di questo angolo della mia vita se, quella sera, non avessi incontrato a Porta Nuova il mio amico Francesco Amadei”. Fu, infatti, l’amico, al quale aveva appena raccontato un incubo ad occhi aperti, vissuto anni dopo la deportazione, a chiedergli, bruscamente, perché non mettesse su carta l’esperienza di vita. Nell’introduzione Magliano fa molti riferimento a luoghi di Torino, la trattoria di Sassi dove avevamo mangiato, il gruppo di persone che davanti a Talmone discuteva della Fiat. Corso Regina Magherita, dove al civico 79 viveva da ragazzo.
Il racconto nel libro, che purtroppo oggi sembra come molti altri di quel periodo caduto nel dimenticatoio sacrificato alle logiche editoriali dell’istant book, si articola in modo avvincente. L’autore descrive senza filtri la sua tragica esperienza di deportato, dà volto e storia a molti che non ce l’hanno fatta a sopravvivere in quell’inferno dei vivi, come il professor Luigi Scala, cui intitola un capitolo o lo spagnolo Augustin Torres che spera di tornare dalla amata Liane (ma che perderà la vita pochi giorni prima della liberazione).
Nonostante tutte le sofferenze patite, Magliano non ha parole di odio o che incitano all’odio nei confronti dei suoi aguzzini: è sufficiente leggere le sue pagine per capire da che parte stesse il Bene e dove albergasse il Male.
Dopo, in vita, non ha più scritto altri libri. Una seconda pubblicazione, alla quale stava lavorando, ‘La cava di pietra’ è uscita postuma a cura dell’Associazione Culturale Piemontese per l’impegno di Luciano Sartori che di Terenzio Magliano fu amico.
‘La cava di pietra’ è quella scala che portava al campo che i prigionieri dovevano salire recando spesso pesi inumani sulla spalle, in balia dei loro aguzzini. E molti di loro persero la vita.
In conclusione ‘Mauthausen cimitero senza croci’ è un testo che merita di essere riscoperto, in quanto contributo alla verità storica di quel tragico periodo.
Sarebbe auspicabile che venga fatto conoscere anche nelle scuole a beneficio delle nuove generazioni: il suo stile lineare e la sua drammaticità non hanno niente di meno di altri testi di autori più conosciuti.
E in questo modo si renderebbe oltre tutto giustizia a uomini e donne, ed alle loro sofferenze, sulle quali la storia e gli storici non si sono soffermati ancora abbastanza.
Massimo Iaretti
La vicenda si svolge nell’arco di una sola nottata, sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani. I soldati, la cui postazione è sommersa dalle neve, sono spaventati e ormai privi di speranza: il prossimo attimo potrebbe essere il loro mentre i bombardamenti si susseguono senza tregua
“Credo che la celebrazione del centenario della Prima Guerra Mondiale non abbia alcun senso se non chiediamo scusa per il tradimento di cui siamo stati colpevoli nei confronti dei giovani e dei milioni di morti in quel conflitto”. Ermanno Olmi , classe 1931, usa parole dure parlando del suo “Torneranno i prati”. Un film che non è sulla guerra, ma su dolore della guerra. Ermanno Olmi, il grande regista bergamasco, classe 1931, che ha fatto la storia del cinema italiano con film come «Il posto» (1961) e «L’albero degli zoccoli» (1978) ha scelto di raccontare gli orrori della Prima guerra mondiale nella sua ultima pellicola. Il film è dedicato al padre («che quand’ero bambino mi raccontava della guerra dov’era stato soldato») e si basa proprio sui ricordi di quest’ultimo, come dichiarato dallo stesso Olmi. La vicenda si svolge nell’arco di una sola nottata, sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani. I soldati, la cui postazione è sommersa dalle neve, sono spaventati e ormai privi di speranza: il prossimo attimo potrebbe essere il loro mentre i bombardamenti si susseguono senza tregua. Il senso dell’attesa, la paura di quanto potrà accadere da un momento all’altro, rende la pellicola ancor più straziante e drammatica: il nemico non ha volto, ma la minaccia è palpabile e incombente dal primo all’ultimo minuto.
In mezzo a spari, feriti e morti, rimane la bellezza del paesaggio montano circostante, la cui pace si pone in evidente contrasto con la guerra che la sta attraversando. Girato sull’Altopiano di Asiago, «Torneranno i prati» è un lungometraggio per non dimenticare coloro che sono caduti durante il conflitto: una pellicola in cui il regista mostra la terribile fine di quei soldati di cui si è persa, colpevolmente, memoria. La fotografia, dalle tonalità seppia, trasmette al meglio la sensazione di un prodotto storicamente credibile, approfondito e curato in ogni dettaglio. Gli stessi suoni sono evocativi: quello dei campanelli sul filo spinato, il rumore assordante delle bombe, lo scandire delle vite attraverso il continuo e inesorabile rimbombo delle esplosioni in lontananza. La Storia, quella vera e sofferta, è fatta anche di ricordi materiali e non solo emotivi (quelli che invadono lo spettatore quando uno e più protagonisti fissano lo schermo in avanti, squarciando l’inquadratura, fissando la sala, come a urlare la loro “ingombrante” presenza nel ricordo di tutta la storia della nazione). Il maestro Olmi, con questa opera d’arte cinematografica, offre uno strumento di memoria e ricordo perenne dell’orrore della guerra.
Marco Travaglini
“Il Proclama di Moncalieri”
format: docufiction
durata: 30′ ca
conduttore: Bruno Gambarotta
regia e sceneggiatura: Lorenzo Gambarotta
Laura Pompeo, Assessore alla Cultura del Comune di Moncalieri, nell’intento di valorizzare il Castello, ha voluto e promosso, tramite la locale Pro Loco, un progetto che andasse oltre alla semplice e benemerita visita guidata, per raccontare la storia di alcuni dei personaggi che hanno abitato il Castello.
Vittorio Emanuele II (interpretato da Mario Bois) fece del Castello la sua dimora prediletta fin dalla sua infanzia e da qui emanò il Proclama di Moncalieri primo e drammatico atto di un regno che approderà all’Unità d’Italia.
La docufiction racconta la complessa e affascinante storia pre risorgimentale che, a partire dalla parabola di Carlo Alberto (interpretato da Paolo Tibaldi), attraverso i moti rivoluzionari, l’esilio a Firenze, gli intrighi di palazzo, arriva all’atto finale: la consegna, in seguito alla sconfitta di Novara, della corona al figlio Vittorio Emanuele.
In questi giorni sono in corso le riprese relative al periodo di formazione di Vittorio Emanuele e del fratello Ferdinando al Castello di Moncalieri.
I due giovani Principi (Tommaso Martino e Federico Robaldo) rispettivamente dai 10 e 12 anni fino ai 19, per volere del Re Carlo Felice furono sottoposti a un’educazione ferrea, affidata ad uno stuolo di precettori interpretati da Carlo Panero (Cesare Saluzzo), Paolo Corvo (André Charvaz) Giorgio Armando (padre Isnardi), Walter Lunetti (Ettore de Sonnaz) e governanti (Mascia Penna, Chiara Cuniato, Marta Chioatero).
Oltre a Carlo Alberto e ai suoi figli Vittorio Emanuele e Ferdinando, la docufiction farà rivivere molti altri affascinanti personaggi. Maria Adelaide, Maria Teresa, il Cancelliere Metternich, il Feldmaresciallo Radetzky, il Conte della Rocca, sono solo alcune delle figure che danno vita alle vicende che portarono all’emanazione del “Proclama di Moncalieri”.
La realizzazione della docufiction è resa possibile anche dalla virtuosa collaborazione di alcune associazioni di rievocazione (Gli Amici del Parco della Battaglia, La Bela Rosina et Soa Gent, etc) e del Museo Risorgimentale di Novara diretto dallo storico Paolo Cirri, che hanno permesso le riprese della battaglia di Novara.
Il progetto è finanziato dal Comune di Moncalieri e dalla Presidenza della Fondazione della Cassa di Risparmio di Torino (Giovanni Quaglia)
Aggiungerei anche che siamo molto orgogliosi di questo lavoro di Bruno e Lorenzo Gambarotta: si colloca lungo la linea della valorizzazione della storia e dell’identità del nostro territorio, nostra priorità.
“Le vicende del Proclama di Moncalieri meritavano senz’altro un approfondimento in forma di docufiction, per raggiungere un pubblico vasto e rendere giustizia alle scelte nel complesso lungimiranti prese da re Vittorio Emanuele II in un momento delicatissimo – sintetizza soddisfatta l’assessore alla Cultura Laura Pompeo – Il tutto sviluppato e girato, in una marcata condivisione di intenti con Fondazione Crt che ha concesso un finanziamento corposo, nei luoghi originali in cui si dipanarono le vicende. Vicende che portarono il re a firmare proprio qui, nel Castello di Moncalieri, il Proclama il 20 novembre 1849. Si tratta di una pagina di storia cui si guarda ancora oggi come un punto di svolta. Disponendo lo scioglimento della Camera dei Deputati e la convocazione di nuove elezioni, Vittorio Emanuele II aprì la strada alla successiva ratifica del trattato di pace con l’Austria e favorì l’imporsi di uno Stato nuovo, con un gruppo dirigente capace e una politica liberale solida. Va rilevato l’intento di Vittorio Emanuele di salvare un ancora fragile sistema costituzionale. La stagione che ne seguì portò in un decennio il re e il gruppo dirigente del piccolo Regno di Sardegna alla ribalta della storia nazionale, con l’unificazione dell’Italia nel 1861. Siamo molto orgogliosi di questo lavoro di Bruno e Lorenzo Gambarotta: si colloca lungo la linea della valorizzazione della storia e dell’identità del nostro territorio, nostra priorità”.
Fernandel, il grande attore, cantante e regista francese che interpretò Don Camillo nei film tratti dalle opere di Giovannino Guareschi, nacque a Marsiglia l’8 maggio del 1903 da genitori piemontesi, originari di Perosa Argentina in Val Chisone.
Joseph Countandin e Désirée Bédouin, padre e madre di Fernand Joseph Désiré Contandin erano emigrati oltralpe in cerca di fortuna. Il suo cognome esatto era Coutandin, di origine occitana e abbastanza diffuso in quelle zone come in tutte le valli addossate alle Alpi italo-francesi. All’anagrafe però venne trascritto in modo errato, diventando Countandin. Come ricordava Aldo Molino su “Piemonte Parchi” nel marzo del 2014, in un articolo intitolato sul tema “risalendo da Pinerolo la valle percorsa dal torrente Chisone, oltrepassata Perosa poco oltre la rupe sulla quale svettano le poche rovine di un cupo maniero (il Bec Dauphin che sino al 1713 segnava in confine tra Savoia e Francia), un cartello stradale invita ad una digressione sulla sinistra informandoci che proprio da questi luoghi era originario il celebre attore francese Fernadel“. Per molto tempo, a ricordare le radici perosine del grande attore c’era solo un cartello stradale piuttosto originale: “Borgata Countandin – Maison des Parents de Fernandel”.Recentemente all’illustre valligiano sono state dedicate alcune iniziative (“Un certain sourire”, con due mostre – una dedicata al cinema e l’altra alla musica – dove sono raccolti documenti sulla vita artistica e personale di Fernandel) e sui resti della casa della famiglia Countandin,nell’omonima borgata di Perosa, è stata posta una targa commemorativa. Fernand Joseph Désiré Countandin salì per la prima volta sul palcoscenico a cinque anni, accanto al padre, un impiegato con la passione per il varietà che si esibiva nei teatri di rivista della Provenza.
Imparò così l’arte della vaudeville ma da giovane fece anche altri lavori per poter vivere. Fernandel agli inizi della carriera calcò le scene come cantante e caratterista nei caffé-concerto marsigliesi e nizzardi. Nell’aprile del 1925 si sposò e si narra che in quel giorno nacque anche il suo nome d’arte, quando la suocera esclamò, presentando il marito della figlia: “Voilà le Fernand d’Elle!”. Il debutto cinematografico risale al 1931 ma la vera svolta avvenne vent’anni dopo, nel 1951 , grazie alla serie di film incentrati sulla figura di Don Camillo, l’irascibile e sanguigno sacerdote della bassa parmense costantemente in lotta con il sindaco comunista Giuseppe Bottazzi (Peppone), interpretato da Gino Cervi. Fernandel si spense a sessantotto anni a Parigi, il 26 febbraio 1971. E’ sepolto nel piccolo cimitero Passy, nel XVI arrondissement, al margine ovest della capitale francese, sulla rive droite della Senna.
Marco Travaglini