CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 33

Todays, gran finale con i Massive Attack

Si è appena conclusa l’edizione 2024 di TODAYS, in scena a Torino dal 23 agosto al 2 settembre. L’ultimo concerto sul Main Stagedel Parco della Confluenza è stato quello sold-out dei MASSIVE ATTACK. La formazione di Robert “3D” Del Naja e Grant “Daddy G” Marshall, con un live che ha incantato il pubblico torinese, ha chiuso la serie di concerti al Parco della Confluenza che – insieme agli eventi diffusi nella Circoscrizione 6 della Città – hanno registrato in totale, negli 11 giorni di attività, 24mila presenze. Di queste, 2500 hanno preso parte agli eventi off, senza considerare il flusso delle attività all’aperto in aree pubbliche della città.

 

“Il bilancio del nuovo Todays Festival è positivo e siamo soddisfatti della buona riuscita degli eventi – dichiarano gli assessori ai Grandi eventi e alla Cultura Domenico Carretta e Rosanna Purchia. – Abbiamo deciso di osare, affidando l’organizzazione del festival tramite un bando pubblico ed estendendo la programmazione su più giorni rispetto agli scorsi anni. È stata una scommessa e una corsa contro il tempo per promuovere e far conoscere gli eventi e ringraziamo la Fondazione Reverse per l’impegno investito nell’organizzazione. Questa nuova edizione rappresenta un banco di prova importante, che ci permetterà di migliorare ulteriormente la formula per i prossimi anni, ma la partecipazione di tanti appassionati, giovani e famiglie ci dimostra che la scelta di sperimentare è stata vincente. Da domani, il nostro impegno sarà rivolto a garantire che il Todays Festival continui a crescere, affermandosi sempre più come un punto di riferimento musicale e culturale per Torino e non solo”.

 

“Siamo molto soddisfatti di questa edizione di Todaysdichiarano Fabio e Alessio Boasi di Fondazione Reverse. – Lavorare a un progetto di questa portata è statoper noi una sfida stimolante. Il pubblico ha risposto in maniera positiva: abbiamo registrato un’ottima affluenza, con alcune date che hanno superato le nostre aspettative e altre che, come avevamo previsto, hanno attirato un pubblico più di nicchia. Ci siamo impegnati per portare agli spettatori una line up di altissima qualità e un’esperienza indimenticabile. Per questo abbiamo dato grande importanza alla location, ai servizi, all’impianto audio e alla sostenibilità, mettendo al centro il pubblico, grazie anche al lavoro in sinergia con la Città di Torino e la Fondazione per la Cultura”.

I 24 artisti del Main Stage hanno radunato un nutritopubblico di appassionati per uno degli eventi più attesi della stagione dei festival italiani. Dal rock all’elettronica, dal pop di matrice internazionale alle sonorità più urban, fino a quelle più sperimentali: una confluenza di musiche e culture, in una location – quella delParco della Confluenza – che sin dal nome ha ben racchiuso lo spirito del festival.

A inaugurare gli appuntamenti dei grandi live al Parco della Confluenza, domenica 25 agosto, JEREMIAH FRAITES, Bab L’Bluz, Addict Ameba e Sasso, per una prima giornata a ingresso libero ; lunedì 26 agosto sul palco LCD SOUNDSYSTEM con Nation of Language, Khompa feat. Akasha e Giulia’s Mother; martedì 27 agosto è st in ata la volta di ARLO PARKS che si è esibita dopo Tangerine Dream, English Teacher, Birthh e Giøve; giovedì 29 agosto sul palco gli OVERMONO, Yellow Days, C’mon Tigre; venerdì 30 agosto le performance di THE JESUS AND MARY CHAIN, Fast Animals and Slow Kids, Elephant Brain e Brucherò nei Pascoli; il 31 agosto l’headliner è stato MAHMOOD, che a Torino ha concluso il suo tour estivo, preceduto da Jupiter & Okwess e A Toys Orchestra; a chiudere in bellezza il festival, lunedì 2 settembre i MASSIVE ATTACK.

Per LCD Soundsystem, Arlo Parks e English Teacher, quella di TODAYS è stata l’unica data nel nostro Paese, mentre per The Jesus and Mary Chain e Overmonol’appuntamento è stato l’unico nel Nord Italia, a conferma dell’eccezionalità della line up del festival e dell’attesa da parte del pubblico per questa edizione.

Attraverso un questionario somministrato a campione agli spettatori (che comprendeva indicatori quali la mobilità, la provenienza geografica, l’esperienza generale in area concerti, la partecipazione agli eventi off) è emerso che quasi il 70% degli intervistati ha partecipato al festival per la prima volta quest’anno; il 60% circa degli spettatori proviene dalla città di Torino, mentre il restante 40% è arrivato a TODAYS dal resto della regione e da tutta Italia. L’esperienza del festival è stata positiva per la maggior parte delle intervistate e degli intervistati, con particolare gradimento per la location del Main Stage al Parco della Confluenza e dei suoi servizi, oltre che della line-up che si è alternata sul palco. Tra gli aspetti più interessanti di questa edizione, il dato sulla somministrazione di acqua gratuita per il pubblico, per un totale di 10mila litri, con un risparmio di oltre 5 quintali di plastica.

Ma non solo concerti al Main Stage del Parco della Confluenza: TODAYS è stato un vero e proprio festival diffuso in moltissimi altri luoghi e realtà della Città. I partecipanti registrati agli eventi off sono stati oltre 2500, oltre a quelli, non conteggiati, agli appuntamenti totalmente gratuiti organizzati negli spazi aperti dalla scuola di circo Flic.

 

Dagli eventi di preview TOnights Spirit curated by JAZZ:RE:FOUND, andati in scena a Le Roi Music Hall il 23 e 24 agosto, al coinvolgimento di numerosi altri partner:SEEYOUSOUND INTERNATIONAL MUSIC FILM FESTIVAL – che porta ogni inverno a Torino il cinema più audace e innovativo del panorama mondiale incentrato sul rapporto tra pellicola e musica – con proiezioni esclusive di film a tema musicale in scena al Teatro Monterosa (che mai aveva visto in agosto un’affluenza così nutrita)prima dei concerti del Main Stage; FLIC SCUOLA DI CIRCO con incursioni circensi e spettacoli; SOUNZONE, prima community di produttori musicali in Europa, con un contest, laboratori e panel; DOJO,collettivo nato nel 2017 con l’obiettivo di promuovere e sostenere la scena rap e hip-hop in Italia, punto di riferimento nel panorama musicale italiano, particolarmente nel circuito del freestyle con sede nella città di Torino, con i suoi format Regio Freestyle, NAV Vol.11 e Verbal Jungle Show; MOCAMBO che ha ospitato “Barriera (ri)ascolta”, dedicato agli artisti emergenti del quartiere e ha fatto conoscere ai giovani torinesi questa realtà cittadina appena nata.

(foto archivio Lori Barozzino)

AL Museo MIIT la personale di Paolo Mantegazza

 

 

Il Museo MIIT di Torino ospiterà dal 7 al 14 settembre 2024 la mostra antologica dedicata a Paolo Mantegazza, con inaugurazione sabato 7 settembre a partire dalle ore 18. In mostra una quarantina di opere tra scultura, grafica e dipinti. Moltissimi i materiali utilizzati nei suoi lavori, dal legno alla pietra, all’argilla, dal gesso al ferro. Nella pittura l’artista utilizza acquerelli, tempere, olio, smalto, vernici spesso uniti a materiali di recupero, assemblati e plasmati fino a ridare una seconda vita, proprio come recita il titolo della mostra, ad oggetti di uso quotidiano come materiale tecnologico, schede elettroniche, CD, tubi elettrici e tastiere.

Paolo Mantegazza (1934 – 2018) ha interpretato al meglio il suo tempo, restituendoci immagini del periodo della sua esistenza e della sua opera quali fossero documenti ufficiali del cambiamento profondo vissuto tra il Novecento e il nuovo millennio. Il Maestro fa tesoro delle sue esperienze di vita e di lavoro nelle trasformazioni epocali di cui la sua generazione, e anche parte di quella attuale, sono stati testimoni. Si è reso protagonista del passaggio da un’arte tradizionale a un’espressione concettuale di idea creativa, dall’utilizzo di materiali nobili della cultura pittorica, dall’olio alla tempera, all’acquerello, a quello sperimentale degli oggetti di uso quotidiano e, in particolar modo, di quelli provenienti dal mondo della tecnologia. Da tutti questi stimoli ha tratto il meglio personalizzando la sua visione attraverso un mestiere coltivato con passione fin da giovanissimo, confrontandosi con il modellato, con la percezione della forma nello spazio, con ricerche azzardate artistiche in cui l’idea diventa motore e fulcro di innovazione artistica e culturale. Fra tutti, il tema centrale della sua produzione, in particolar modo scultorea, è quello della maternità. Le linee morbide e sinuose dei modellati, l’osmosi tra la figura materna e quella del bambino, l’intreccio di mani, braccia, corpi fusi in un continuo sviluppo armonico di volumi, una metafora dell’attesa, della maternità, del concepimento, resa con grazia e sacrale devozione…sono tutti elementi che permettono al fruitore dell’opera di scoprire e amare la sua attenta interpretazione della vita. Nelle venature delle diverse essenze dei legni antichi utilizzati, ulivo, abete, pioppo, nelle tonalità più scure e più chiare, nel rapporto contrastante tra la malleabilità del legno e la durezza della pietra inserita nelle sculture si può leggere anche nei momenti vissuti dal Maestro: la leggerezza e la gioia dell’esistenza. Come pure la drammatica e metafisica sensazione di isolamento e, a volte, di solitudine e graffiante difficoltà esistenziale. Non mancano opere pittoriche di grafica ricche di fascino e cultura della tradizione che l’artista declina con linguaggio personale, affidandosi al colore, al segno rapido e preciso al contempo, mostrandoci una sensibilità particolare nel rapportarsi con il bello e la natura, tanto caro alla cultura italiana e artistica tra Ottocento e Novecento. Paolo Mantegazza diventa così un maestro del nostro tempo, un universo da scoprire che ha saputo anticipare tematiche fondanti della cultura del nuovo millennio e la visione lungimirante di un mondo che deve cambiare per potersi raccontare alle nuove generazioni.

Paolo Mantegazza nasce a Torino il 12 marzo del 1934 e muore improvvisamente il 28 marzo del 2018. La famiglia è originaria del vigevanese nei pressi di Tornaco e Gravellona Lomellina, paese natale della madre dove Paolo trascorse la sua infanzia nel periodo della guerra e vi rimase per due anni sfollato dal 1943. Paolo trascorrerà tutta la sua vita a Torino nella casa di Via Lancia, che i genitori costruirono quando si trasferirono a Torino in seguito alla crisi economica del 1929. Paolo costruirà lì il suo laboratorio. La casa, negli anni Cinquanta, sorgeva in mezzo ai prati, ai margini della città. Oggi è una delle case più antiche di borgo San Paolo. Vi visse con la moglie, la figlia e la mamma, scomparsa all’età di 110 anni, nel 2014. La sua capacità innata di lavorare il legno emerse da subito, fin dall’adolescenza. Fu costretto dalla famiglia agli studi tecnici, ma il suo desiderio era quello di fare il falegname. Da solo si costruì uno slittino di legno per scivolare sulla neve al parco Ruffini, davanti a casa, e costruì una casetta in legno per le bambole della cuginetta. È sempre stato un autodidatta, non ha frequentato scuole d’arte e si è dedicato all’apprendimento artistico nel suo tempo libero. Collezionista di libri d’arte e conoscitore di tutti gli autori e gli stili, cercò personalmente i materiali da scolpire, e diversi tipi di legno durante i viaggi in Italia e all’estero. Negli ultimi anni della sua vita lavora ore e giorni solo con se stesso, condividendo le proprie esperienze con le persone più care, famigliari e amici, non esponendo mai le sue opere ad eccezione di qualche mostra personale a Torino nel 1998, alla palazzina Liberty, e qualche partecipazione a mostre tematiche, come quella del 1998 a Santo Stefano Belbo, incentrate sulle tematiche di Pavese “La portatrice d’acqua”. Le sue ultime opere, che intitolerà “Seconda vita” si ispirano al riciclo di materiale tecnologico, schede, CD, tubi elettronici, tastiere, legni antichi in cui possono rivivere come sculture gli oggetti di arredamento. Il laboratorio è il luogo dove Paolo vive la sua seconda vita, lontano da un lavoro che non ama, dal rapporto conflittuale con la madre, dalla relazione dolorosa con la moglie, la cui malattia mentale divora a poco a poco il sorriso, l’amore e la dolcezza, al rapporto ambivalente con la figlia. Non a caso nelle sue opere si riconosce il tema centrale della maternità, rappresentata con colori, materiali e stili differenti, che la rendono una tematica controversa della sua vita, forse un bisogno mai risolto di quell’amore primigenio che ha sempre desiderato.

Mara Martellotta

Linea Cadorna, la Maginot italiana

Il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale

Linea Cadorna” è il nome con cui è conosciuto  il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale. Un’opera fortemente voluta dal generale Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’Esercito (originario di Pallanza, sul lago Maggiore), con lo scopo di contrastare una eventuale invasione austro-tedesca proveniente dalla Svizzera.

Lo scoppio della guerra – il 23 luglio del 1914 –  e gli avvenimenti successivi tra cui l’invasione del Belgio neutrale e i cambi di alleanze tra le varie potenze europee, accentuarono i dubbi sulla volontà del governo elvetico di far rispettare la neutralità del proprio territorio. Così, una volta che l’Italia entrò in guerra  contro l’Austria  – il 24 maggio 1915 – , il generale Cadorna, per non incorrere in amare sorprese, ordinò di avviare i lavori difensivi, rendendo esecutivo il progetto di difesa già predisposto. Da quasi mezzo secolo erano stati redatti studi, progettazioni, ricognizioni, indagini geomorfologiche, pianificazioni strategiche, ricerche tecnologiche. E non si era stati con le mani in mano: a partire dal 1911 erano state erette le fortificazioni sul Montorfano, a difesa degli accessi dalla Val d’Ossola e dal Lago Maggiore,  e gli appostamenti per artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei Fiori, Gino e Sighignola, tra le prealpi varesine e la comasca Val d’Intelvi. Anche la Svizzera, dal canto suo,  intensificò i lavori di fortificazione al confine con l’Italia, realizzando opere di sbarramento a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medaglia, nel canton Ticino. In realtà,tornando alla Linea Cadorna,quest’opera, nella terminologia militare dell’epoca, era definita come ” Frontiera Nord” o, per esteso, “sistema difensivo italiano alla Frontiera Nordverso la Svizzera”. E, ad onor del vero, più che una fortificazione collocata a ridosso della frontiera si tratta di una linea difensiva costruita in località più arretrate rispetto al confine, con lo scopo di presidiare  i punti nevralgici. Un’impresa mastodontica.

 

Basta scorrere, in sintesi,  la consistenza dei lavori eseguiti e delle spese sostenute per la loro realizzazione: “Sistemazione difensiva – Si svolge dalla Val d’Ossola alla Cresta orobica, attraverso le alture a sud del Lago di Lugano e con elementi in Val d’Aosta. Comprende 72 km di trinceramenti, 88 appostamenti per batterie, di cui 11 in caverna, mq 25000 di baraccamenti, 296 km di camionabile e 398 di carrarecce o mulattiere. La spesa complessiva sostenuta, tenuto conto dei 15-20000 operai ( con punte fino a trentamila, nel 1916, Ndr) che in media vi furono adibiti, può calcolarsi in circa 104 milioni”. Le ristrettezze finanziarie indussero ad un utilizzo oculato delle materie prime,recuperate sul territorio. Si aprirono cave di sabbia, venne drenata la ghiaia negli alvei di fiumi e torrenti; si produsse calce rimettendo in funzione vecchie fornaci e furono adottati ingegnosi sistemi di canalizzazione delle acque. Gli scalpellini ricavarono il  pietrame, boscaioli e falegnami il legname da opera, e così via. I requisiti per poter essere arruolati come manodopera, in quegli anni di fame e miseria, consistevano nel possedere la cittadinanza italiana, il passaporto per l’interno e i necessari certificati sanitari. L’età non doveva essere inferiore ai 17 anni e non superiore ai sessanta e, in più, occorreva che i lavoratori fossero muniti di indumenti ed oggetti personali. A dire il vero, in ragione della ridotta disponibilità di manodopera maschile, per i frequenti richiami alle armi, vennero assunti anche ragazzi con meno di 15 anni, addetti a mansioni di manovalanza, di guardiani dei macchinari in dotazione nei cantieri o di addetti alle pulizie delle baracche.  La manodopera femminile, definita con apposito contratto, veniva reclutata nei paesi vicini per consentire alle donne, mentre erano impegnate in un lavoro salariato, di poter badare alla propria famiglia e di occuparsi dei lavori agricoli. Il contratto era diverso a seconda dell’ente reclutante: l’amministrazione militare o le imprese private.

 

Quello militare garantiva l’alloggiamento gratuito, il vitto ( il rancio)  uguale a quello delle truppe, l’assistenza sanitaria gratuita, l’assicurazione contro gli infortuni, un salario stabilito in relazione alla durata del lavoro da compiere, alle condizioni di pericolo e commisurato alla professionalità e al rendimento individuale. Il salario minimo era fissato, in centesimi, da 10 a 20 l’ora per donne e ragazzi; da 30 a 40 l’ora per sterratori, manovali e braccianti; da 40 a 50 per muratori, carpentieri, falegnami, fabbri e minatori; da 60 ad una lira per i capisquadra. L’orario di lavoro era impegnativo e  prevedeva dalle 6 alle 12 ore giornaliere, diurne o notturne, per tutti i giorni della settimana. Delle paventate truppe d’invasione che, come orde fameliche, valicando le Alpi, sarebbero dilagate nella pianura padana, non si vide neppure l’ombra. Così, senza il nemico e senza la necessità di sparare un colpo, con la fine della guerra,  le fortificazioni vennero dismesse. Quelle strutture, negli anni del primo dopoguerra, furono in parte riutilizzate per le esercitazioni militari e , negli anni trenta, inserite in blocco e d’ufficio nell’ambizioso  progetto del “Vallo Alpino”, la linea difensiva che avrebbe dovuto – come una sorta di “grande muraglia” –  rendere inviolabili gli oltre 1800 chilometri di confine dello Stato italiano. Un’impresa titanica, da far tremare le vene ai polsi che, forse proprio perché troppo ardita, in realtà, non giunse mai a compimento. Anche nella seconda guerra mondiale, la Linea Cadorna non conobbe operazioni  belliche, se si escludono i due tratti del Monte San Martino (nel varesotto, tra la Valcuvia e il lago Maggiore) e lungo la Val d’Ossola dove, per brevi periodi , durante la Resistenza, furono utilizzati dalle formazioni partigiane. Infine, come tutte le fortificazioni italiane non smantellate dal Trattato di pace siglato a Parigi nel febbraio 1947, a partire dai primi d’aprile del 1949, anche la “linea di difesa alla frontiera nord” entrò a far parte del Patto Atlantico istituito per fronteggiare il blocco sovietico ai tempi della “guerra fredda”. Volendo stabilire una data in cui ritenere conclusa la storia della Linea Cadorna, almeno dal punto di vista militare, quest’ultima può essere fissata con la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

 

Da allora in poi, le trincee, le fortificazioni e le mulattiere sono state interessate da interventi di restauro conservativo realizzati dagli enti pubblici che hanno permesso di recuperarne gran parte  alla fruizione turistica, lungo gli itinerari segnalati. La “Cadorna” si offre oggi ai visitatori come una  vera e propria “Maginot italiana”,  un gigante inviolato, in grado di presentarsi senza aloni drammatici, come un sito archeologico dove è possibile vedere e studiare reperti che hanno subito l’ingiuria degli uomini e del tempo ma non quella dirompente della guerra. Tralasciando la parte lombarda che si estende fino alla Valtellina e restando in territorio piemontese, sono visitabili diversi percorsi, dal forte di Bara  – sopra Migiandone, nel punto più stretto del fondovalle ossolano –  alle trincee del Montorfano, dalle postazioni in caverna del Monte Morissolo al fitto reticolo di trincee e postazioni di tiro dello Spalavera  ( la sua vetta è uno splendido belvedere sul Lago Maggiore e le grandi Alpi), dalle trincee circolari con i camminamenti e la grande postazione per obici e mortai del Monte Bavarione fino alle linee difensive del Vadà e del monte Carza, per terminare con quelle  della “regina del Verbano”, un monte la cui vetta oltre i duemila metri, viene ostentatamente declinata al femminile dagli alpigiani: “la Zeda”.

Marco Travaglini

Film Commission Torino Piemonte alla Settimana Internazionale della Critica

Sono tre i progetti realizzati con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte presentati alla mostra del Cinema di Venezia: ‘Anywhere Anytime’ in concorso, il cortometraggio ‘Dark Globe’ in apertura di Sic@Sic e il cortometraggio “Domenica sera” di Matteo Tortone.

“Anywhere Anytime” è opera prima del regista torinese di origine iraniana Milad Tangshir e verrà presentato in anteprima mondiale alla 39esima settimana internazionale della critica, unico film italiano in concorso.

Il lungometraggio, realizzato a Torino interamente per 5 settimane nell’estate 2023, sarà uno dei 7 progetti della sezione autonoma e parallela del sindacato nazionale critici cinematografici italiani, nell’ambito della mostra internazionale d’Arte Cinematografica della biennale di Venezia, in programma fino al 7 settembre. Prodotto da Young Films, Vivo Film, RAI Cinema e realizzato con il contributo del PR Fers Piemonte 2021-2027, bando Piemonte film tv fund e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte ha un’ambientazione interamente torinese, impiegando sul set una troupe quasi interamente composta da professionisti e maestranze locali.

Protagonista della vicenda è un giovane immigrato di 18 anni di nome Issa, interpretato da un attore non professionista come il resto del cast, che perde il suo lavoro e trova un impiego finalmente come rider. Venendo derubato della sua bicicletta già il primo giorno si ritrova costretto alla ricerca in varie zone della città, tra Porta Palazzo e la periferia di Barriera di Milano, nella speranza di ritrovare il suo strumento di lavoro.

Ad aprire la 39esima Sic giovedì 29 agosto è stato un altro progetto piemontese, il cortometraggio “Dark Globe”, diretto da Donato Sansone, prodotto dalla torinese Base Zero di Enrico Bisi e Stefano Cravero, realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte Short Film Fund. Secondo il regista il progetto è un affresco del mondo di oggi e della follia globale, realizzato tecnicamente con disegno su carta e un’azione di stop motion verso la quale si sta sprofondando tra guerra, cambiamento climatico e sovrappopolazione.

Venerdì 6 settembre sarà la volta di ‘Domenica sera’ di Matteo Tortone, cortometraggio realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte-Short Film Fund, che chiuderà la settimana di critica cinematografica, raccontando la storia del giovane ultras Alex! Del suo incontro con la giovane rapper Nemy, delle loro solitudini che attraversano la città a bordo di un’auto rubata.

MARA MARTELLOTTA

San Giacomo di Stura, Abbazia dimenticata

Viandanti, mercanti, pellegrini e crociati affollavano le strade della penisola che portavano a Roma e ai porti d’imbarco per la Terra Santa.

Era l’epoca della II Crociata, a metà del Duecento: si andava a combattere in Anatolia, Palestina e in Egitto mentre tanti altri pellegrini stipavano le galee per raggiungere la Città Santa, appena riconquistata dai crociati, per pregare nei luoghi santi del cristianesimo. Si partiva da ogni città dell’Europa occidentale, dalla Francia, dalla Germania, dall’Italia, il cammino era lungo e faticoso e non privo di pericoli. Lungo strade e sentieri si incontravano locande e piccoli ospedali che offrivano assistenza, cibo e cure. Una meta sospirata dai pellegrini dopo aver percorso centinaia di chilometri. Uno di questi luoghi fu individuato in un monastero-ospedale costruito dai monaci vallombrosani di San Benedetto di Piacenza al di là del fiume Stura nel torinese. Nel 1146 il giurista Pietro Podisio, appartenente a un importante famiglia torinese, donò ai religiosi dei terreni per edificare un “hospitalem”, fuori le mura di Torino, allora piccolo borgo di poche migliaia di abitanti, al fine di prestare assistenza e alimenti a chi si fermava per riposarsi in attesa di riprendere il cammino. Si diedero un gran daffare i monaci che oltre ad aiutare senza risparmio poveri e ammalati gestirono anche il servizio di traghetto sulla Stura ed è da qui che deriva il nome del quartiere torinese “Barca”. Nacque così un convento-ospedale situato lungo i tragitti della via Francigena diretti a Roma e verso i porti pugliesi dove ci si imbarcava per il Levante. Il complesso religioso è diventato l’Abbadia vallombrosana di San Giacomo di Stura, uno dei più importanti monumenti storico-artistici del Medioevo torinese la cui storia è raccontata nel libro “San Giacomo di Stura, la storia dell’Abbadia vallombrosana alle porte di Torino, vestigia “dimenticate” del Medioevo subalpino”, Neos edizioni, dal poeta, traduttore e medievista Roberto Rossi Precerutti. Il periodo di massima fioritura non durò molto e già nel XIII secolo iniziò il declino del monastero che nel Quattrocento fu unito alla mensa vescovile di Torino e poi nel Settecento divenne una parrocchia intitolata a San Giacomo. Nel Novecento la chiesa fu circondata da cascinali e fabbricati industriali sorti lungo la strada che mette in comunicazione Torino e Settimo. Danneggiata dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale fu dichiarata inagibile nel ’54 e negli anni Sessanta fu sconsacrata e ceduta ai privati. Nel giugno 1972, inoltre, un incendio distrusse la galleria del coro e gli affreschi. Oggi l’Abbadia di San Giacomo è assai mal ridotta e versa in stato di abbandono dagli anni Cinquanta. Resta la chiesa con il sagrato e il perimetro del chiostro. La speranza è che i lavori di restauro della chiesa e dello spettacolare campanile, alto 24 metri, iniziati alcuni anni fa, possano presto restituire alla comunità questa preziosa testimonianza storica medioevale. Il libro di Roberto Rossi Precerutti è accompagnato da una serie di tavole di Emilia Mirisola che illustrano lo splendore del monastero nei secoli passati.
Filippo Re

Pietro Micca, nel bronzo la storia di un eroe popolare

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Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra

Il monumento è collocato all’angolo tra via Cernaia e corso Galileo Ferraris, nel giardino dedicato ad Andrea Guglielminetti. La statua ritrae Pietro Micca, posto sulla sommità di un alto basamento modanato, in posizione eretta con la divisa degli artiglieri presumibilmente nell’atto fiero e consapevole che precede lo scoppio delle polveri. Infatti, mentre nella mano destra tiene la miccia, la sinistra è serrata a pugno quasi a voler enfatizzare, unitamente alla tensione della leggera torsione, il momento decisivo che precede l’innesco delle polveri (in riferimento all’episodio eroico che lo rese celebre).

 

Pietro Micca nacque a Sagliano il 6 marzo 1677 da una famiglia dalle origini modeste. Arruolato come soldato-minatore nell’esercito del Ducato di Savoia, è storicamente ricordato per l’episodio di eroismo durante il quale perse la vita al fine di permettere alla città di Torino di resistere all’assedio del 1706, durante la guerra di successione spagnola.La tradizione narra che la notte tra il 29 ed il 30 agosto 1706 (e cioè durante il pieno assedio di Torino da pare dell’esercito francese) alcune forze nemiche entrarono in una delle gallerie sotterranee della Cittadella, uccidendo le sentinelle e cercando di sfondare una delle porte che conducevano all’interno. Pietro Micca, che era conosciuto con il soprannome di passepartout, decise (una volta capito che lui ed il suo commilitone non avrebbero resistito per molto) di far scoppiare della polvere da sparo allo scopo di provocare il crollo della galleria e non consentire il passaggio alle truppe nemiche. Non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere le polveri, Micca decise di impiegare una miccia corta, conscio del rischio che avrebbe corso. Fece allontanare il suo compagno con una frase che sarebbe diventata storica “Alzati, che sei più lungo d’una giornata senza pane” e senza esitare diede fuoco alle polveri.

Morì travolto dall’esplosione mentre cercava di mettersi in salvo correndo lungo la scala che portava al cunicolo sottostante; era il 30 agosto del 1706.Il gesto eroico del minatore-soldato sarà riconosciuto in seguito durante tutto il Risorgimento come autentico simbolo di patriottismo popolare, sino ad essere ricordato ai giorni nostri.L’idea di celebrare con un monumento l’eroe popolare, nacque già nel 1837 dal Re Carlo Alberto alla morte dell’ultimo discendente maschile del soldato ‘salvatore’ della Città. Modellato dallo scultore Giuseppe Bogliani, il busto di Pietro Micca (rigorosamente in bronzo) ritraeva l’eroe con il capo coronato di gramigna con accanto una Minerva-guerriera seduta con una corona di quercia. Il monumento però non sembrava rispondere completamente al concetto di popolare riconoscenza con cui si sarebbe voluto ricordare Pietro Micca e così venne per così dire abbandonato all’interno dell’ Arsenale di Torino. Dopo circa vent’anni, nel 1857, da parte di uno scultore dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Giuseppe Cassano, venne ripresa l’idea di ritrarre Pietro Micca.

Il Consiglio comunale, in seduta del 29 maggio 1858, approvò l’iniziativa ed il Re Vittorio Emanuele II espresse il desiderio che la statua del Micca venisse realizzata in bronzo ed eseguita nelle fonderie dell’Arsenale. In momenti differenti il Parlamento stanziò per il monumento L. 15.000 con le quali vennero pagate le sole spese di fusione; unitamente la sottoscrizione pubblica stanziò L. 2.200 (appena utili al rimborso dello scultore Cassano), L. 7.700 a Pietro Giani per la realizzazione del piedistallo e L. 2.000 per la posa in opera, arrivando così ad un costo totale di L. 26.900.

Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra. La sera del 4 giugno 1864 venne finalmente inaugurato il monumento ad onorare il gesto eroico del soldato-minatore di Sagliano.L’importanza dell’impresa di Pietro Micca è celebrata anche nel Museo che porta il suo nome, luogo dove è esposto il monumento a Pietro Micca del Bogliani del 1836.

 

Ed anche per questa volta la nostra “passeggiata con il naso all’insù” termina qui. Ci rivediamo per il prossimo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere.

 

Simona Pili Stella

I libri più letti e commentati del mese

Eccoci al consueto appuntamento con i libri più letti e commentati dalla community  Un libro tira l’altro ovvero il passaparola dei libri nel mese di agosto   Come L’Arancio Amaro (Bompiani) di Milena Palminteri si conferma il libro dell’estate, letto e commentato con grande partecipazione, seguito da Domani, Domani (Nord) il nuovo romanzo di Francesca Giannone, che ribadisce la sua presa sui lettori italiani.

Infine: La correttricedi Emanuela Fontana (Mondadori) tratto da una storia vera, l’autrice si è basata su scambi di corrispondenza tra Emilia e Manzoni.

Incontri con gli autori

 

In agosto facciamo due chiacchiere con Cristina Guarducci, da poco tornata in libreria con Paul E Nina (Edizioni Creativa, 2024), una complessa storia d’amore dai risvolti tormentati, ambientata a Parigi, città dove la scrittrice ha vissuto molti anni.

Giulio Natali, scrittore marchigiano che, dopo essersi cimentato nel racconto, esordisce nella narrativa con il romanzo Sotto Il Diluvio (Castelvecchi, 2024), che descrive una lotta di potere nella quale tutto è ammesso.

 

 

 

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La triste e sfortunata vita di Emilio Salgari

L’incontro con Emilio Salgari, il papà di Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e del Corsaro Nero avvenne tanto tempo fa. E fu un amore improvviso, intenso. I primo due libri furono “I misteri della Jungla Nera” e “Le Tigri di Mompracem”, nelle edizioni che la torinese Viglongo pubblicò negli anni ’60.

 

Vennero letteralmente divorati. Toccò poi all’intero ciclo dei pirati della Malesia e a quelli dei pirati delle Antille, dei Corsari delle Bermude e delle avventure nel Far West. Mi recavo in corriera da Baveno a Intra, da una sponda all’altra del golfo Borromeo del lago Maggiore, dove – alla fornitissima libreria “Alberti” – era possibile acquistare i romanzi usciti dalla sua inesauribile e fantasiosa penna. Salgari, nato a Verona nell’agosto del 1862, esordì come scrittore di racconti d’appendice che uscivano su giornali  a episodi di poche pagine, pubblicati in genere la domenica ma, nonostante un certo successo,visse un’inquieta e tribolata esistenza. A sedici anni si iscrisse all’Istituto nautico di Venezia, senza però terminare gli studi.

 

Tornato a  Verona intraprese l’attività di giornalista, dimostrando una notevole capacità d’immaginazione. Infatti, più che viaggiare per mari e terre lontane, fece viaggiare al sua sconfinata fantasia, documentandosi puntigliosamente su paesi, usi e costumi. Scrisse moltissimo, più di 80 romanzi e circa 150 racconti, spesso pubblicati prima a puntate su riviste e poi in volume. I suoi personaggi sono diventati leggendari: Sandokan, Lady Marianna Guillon ovvero la Perla di Labuan, Yanez de Gomera, Tremal-Naik, il Corsaro Nero e sua figlia Jolanda, Testa di Pietra e molti altri. Nel 1900, dopo aver soggiornato alcuni anni nel Canavese ( tra Ivrea, Cuorgnè e Alpette) e poi a Genova, si trasferì definitivamente a Torino dove cambiò spesso alloggio, abitando nelle vie Morosini e  Superga, in piazza San Martino ( l’attuale piazza XVIII Dicembre, davanti a Porta Susa, nello stesso palazzo all’angolo nord dove De Amicis scrisse il libro “Cuore“), in via Guastalla e infine in Corso Casale dove, al civico 205 una targa commemorativa ricorda quella che è stata l’ultima dimora del più grande scrittore italiano di romanzi d’avventura. Schiacciato dai debiti contratti per pagare le cure della moglie, affetta da una terribile malattia mentale, con quattro figli a carico, si tolse la vita con un rasoio nei boschi della collina torinese.

 

Era il 25 aprile 1911. Ai suoi editori dell’epoca, che stentavano a pagargli i diritti, lasciò questo biglietto: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna“. Ai quattro figli scrisse: “Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600… Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre“. I suoi funerali passarono quasi inosservati perché in quei giorni Torino era impegnata con l’imminente festa del 50° Anniversario dell’Unità d’Italia. La sua salma fu successivamente traslata nel famedio del cimitero monumentale di Verona. Un tragico e amaro epilogo per l’uomo che, grazie alle sue avventure, fece sognare tante generazioni di ragazzi.

Marco Travaglini

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: Audiatur et altera pars – Le case al mare in Liguria perdono valore e le vacanze sono care, provinciali  e mediocri – Lettere

Audiatur et altera pars
La locuzione latina ampiamente adottata nel linguaggio giuridico significa: sia ascoltata anche l’altra parte, cioè sia dato spazio nel dibattito non solo ad una parte. E’ una regola che andrebbe sempre applicata per garantire il confronto tra le diverse tesi.
Nel campo giuridico nessuno si sottrarrebbe ad esso per garantire il principio del contraddittorio. Se applichiamo la frase al campo storico il discorso diventa invece  difficile. Se essa venisse invocata da un anticomunista sotto attacco  credo che nessuno si sottrarrebbe. Se invece l’altera pars è il fascismo ci si chiude a riccio nell’antifascismo stupido ed  eterno di Scurati ed altri estremisti perché il fascismo va solo combattuto. Il discorso, diceva il focoso Pajetta ,con il fascismo lo abbiamo chiuso il 25 aprile 1945 . La sua era una battuta polemica da comizio umanamente compatibile con la sua storia personale in cui pago’ con dieci anni di carcere la sua lotta politica. Capirlo per poterlo giudicare con il necessario distacco  è un lusso che non è consentito perché c’è sempre l’evocazione macabra di piazzale Loreto e della plebe inferocita che non rispetta neanche i cadaveri. Ma questa non è storia. Lo dicevano già Delio Cantimori ed Armando Saitta storici di sinistra. Una storia schierata a senso unico non è storia, è quella che De Felice definiva come una “vulgata” fatta di generici slogan ideologici. Possibile che dopo 80 anni non si voglia comprendere la verità togliendo l’esclusiva ai faziosi che ritengono di essere gli unici a possederla? E confondono i tribunali della storia con le piazze dei cortei vivacizzate dalle sole bandiere rosse  e dalle pastasciutte antifasciste?
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Le case al mare in Liguria perdono valore e le vacanze sono care, provinciali  e mediocri
Non è solo la fine della bolla edilizia che ha fatto arricchire a dismisura impresari senza qualificazione professionale e senza scrupoli, ma anche le cattive amministrazioni comunali e anche la Regione che hanno impoverito il territorio di iniziative, a determinare la non attrattività delle cittadine liguri che in un passato molto lontano avevano un loro stile. Pensiamo ad Alassio con Mario  Berrino che fece esplodere l’estate. Oggi il modello medio è Borghetto Santo Spirito. Neppure Varigotti si è salvata dal casino provinciale. Mentre il Sud è progredito con una  clientela internazionale di qualità – pensiamo al Salento – la Liguria, se escludiamo le Cinque Terre, si è rivelata un gambero surgelato, neppure di qualità. Anche la ristorazione fa acqua da tutte le parti e non ha più locali adeguati pur mantenendo prezzi esosi e a volte senza ricevuta, l’associazionismo socioculturale  è  ridotto al mondo dei carugi  maleodoranti ed è formato da ridicoli personaggi quasi ottantenni  molto patetici e premiati dal Conune come a Carrù fanno con il bue grasso  che celebrano, a loro volta  uno dei preti più discussi, don Gallo di Genova, il prete di estrema sinistra, amico di De Andrè e di Giuliani  aggressore di un  carabiniere. Giornalistini creano incontri letterari con scrittorelli senza notorietà. Anche Toti, se escludiamo il ponte Morandi che era un  dovere minimo rifare in fretta, ha lavorato male, privando del pronto soccorso territori liguri che oggi non garantiscono più il diritto alla salute. La Liguria del presente, turisticamente, è tornata all’anno zero. Meglio andare al mare al Sud, magari a Capri (dove sono andato per anni con grande piacere) e lasciare ai liguri lo sfascio che loro stessi hanno creato. Toti va archiviato e processato almeno politicamente  non solo per eventuali illeciti , ma per il modo grigio, anzi opaco, di condurre la Regione da parte di  uno che riteneva, poverello, Novi Ligure in Liguria e non in Piemonte.
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LETTERE  scrivere a quaglieni@gmail.com
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Scurati a Venezia
A Venezia verrà celebrato il film  televisivo in 7 puntate tratto dal romanzo di Antonio Scurati “M. Il figlio del secolo” seguito da altri due tomi. Non avevano altro di meglio  da portare a Venezia? Scurati non è uno storico, ma un attivista politico. Cosa ne pensa? Vittorio Fedeli
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Lei sfonda porte aperte, Scurati è stato beneficiato da Mussolini che gli ha dato la notorietà che mai avrebbe raggiunto. A lui Mussolini è servito. Sarà un malloppone inguardabile. E’ sconcio spendere soldi pubblici per queste cose.
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In difesa di Povia
E’ un cantante che non mi entusiasma, ma il divieto del sindaco di Nichelino  al concerto di Povia  è sconcertante.   Luisa Miale
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D’accordo con lei. La censura operata dal sindaco di Nichelino è una manifestazione di faziosità intollerabile. Agli antisemiti quel sindaco non avrebbe mai vietato nulla. Povia ha cantato a Sanremo, ma a Nichelino non gli è consentito. Si vergogni questo sindaco che ruba la libertà dei suoi cittadini, decidendo lui la musica consentita  nel suo Comune espressione della peggiore area metropolitana  torinese.