CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 250

Naufraghi metropolitani, tra prosa e fotografia

 Il nuovo romanzo di Tea Zanetti edito da Paola Caramella editrice

 

“Naufraghi metropolitani”, romanzo scritto da Tea Zanetti, abile fotografa qui nella sua veste di abile autrice, è stato presentato al Salone del Libro di Torino sabato 20 maggio scorso. Edito da Paola Caramella editrice, è qualcosa di più di un semplice romanzo; si tratta, infatti, di un viaggio intimistico in cui Tea conduce il lettore alla conoscenza del suo universo, anche al di là delle rivisitazioni del suo passato.

“La lettura di questo libro rappresenta un’esperienza caleidoscopica – afferma Stefania Tozzi nella presentazione del libro – Man mano che si avanza nella lettura cambia il modo di narrare e di attraversare le pagine da parte dell’autrice e, conseguentemente, si modifica anche la modalità da parte del lettore di porsi di fronte al romanzo.

Molti sono i registri stilistici di cui si serve la narratrice e le tecniche di scrittura che mette in atto. Dalle pagine del romanzo emergono gli aspetti spiritosi di Tea, che è onesta con se stessa al punto di non rinunciare mai alla sua più completa autenticità”.

Tea è una donna che ha lottato contro gli atteggiamenti che si scontrano con la libertà del libero pensiero, tanto da affermare di voler “fare di testa sua”, anche sul piano religioso, in cui in famiglia divergono le opinioni, essendo il padre ateo.

Nelle pagine del romanzo si riflette la purezza compositiva di Tea fotografa, tanto che “Naufraghi metropolitani” risulta il connubio di immagini oniriche che rimandano alla fotografia, di cui sono testimoni dell’originalità della composizione e della lucidità del linguaggio.

Passi di puro intimismo sono quelli che caratterizzano le prime pagine del romanzo, in cui Tea descrive molto efficacemente un incontro amoroso affermando “Potrei dormire nuda solo al tuo fianco. È necessaria una fiducia totale per esporsi così. Non si tratta solo di levare ogni barriera allo sguardo dell’altro sul proprio corpo. In più c’è la rinuncia alla vigilanza. Essere due volte esposti richiede fiducia assoluta”.

Sempre nelle prime pagine del romanzo l’autrice ripercorre i difficili tempi del Covid, ritmati da gesti quotidiani sempre eguali, come la sveglia presto e la colazione, la telefonata alla mamma ultraottantenne che ha vissuto con un pizzico di ironia la quarantena da sola, quindi le fotografie, le pulizie di casa e l’allenamento.

Il romanzo contiene anche pagine molto efficaci di descrizione di Torino, che l’autrice ritiene differente dal resto del Piemonte. La definisce una città “austera, elegante, con strade ampie e piazze ariose”. Con molta precisione descrive al personaggio con il quale dialoga, quindi anche al lettore, la bellezza di via Po, che scende verso il fiume e che grazie alla volontà e capriccio di un re, ha visto costruire i suoi portici via via più alti man mano che ci si avvicinava al fiume. Altrettanto efficace la descrizione dei caffè storici torinesi, da Florio a Pepino, da Baratti a Mulassano, passando per Platti e il Bicerin, dove, in piazza della Consolata, si custodisce l’autentica ricetta del Bicerin che tanto amava Cavour (un terzo di cioccolata amara, un terzo di caffè e un terzo di fiordilatte) o il caffè Elena, dove amava sostare Cesare Pavese. E così descrive il fascino dei cortili nascosti all’interno di austeri palazzi, definiti “autentici gioielli segreti in cui amo intrufolarmi con gran faccia tosta”.

Le persone di Torino, secondo l’autrice, assomigliano alla città, grigie a prima vista, ma di un grigio perla, che fa emergere, a una conoscenza più approfondita, la loro ironia, fantasia e bizzarria.

I torinesi non sono immediatamente amici di tutti, ma chi viene a Torino, in un modo o nell’altro, trova il suo posto.

I passi in prosa si alternano anche a poesie, di cui una molto efficace si intitola “Cimitero di Azul”, un inno alla solitudine ma anche all’angoscia che essa comporta. Quindi alcune pagine sono dedicate al Covid, in cui l’autrice narra la sua disavventura per aver contratto il Covid 19, con pacatezza e un pizzico di ironia.

Molto toccanti le pagine che riguardano il ricordo dei nonni materni, che si cristallizza nell’immagine di loro due abbracciati, mentre li guardavano andare via, verso le vacanze estive ai primi di gennaio. Tra di loro i nonni parlavano in spagnolo, in castellano rioplatense, che è una variante addolcita nella pronuncia che si parla in Argentina. Proprio in Argentina Tea compierà un viaggio iniziatico che la cambierà profondamente.

Le pagine delle poesie si accompagnano ad altre in cui i neologismi si cristallizzano e fanno centro. Parole semplici impreziosite da una acuta indagine psicologica.

Il fil rouge che percorre ogni pagina, ogni virgola del libro rimane la libertà, sognata, desiderata, agognata, cercata e vissuta pienamente.

Mara Martellotta

Tre sorelle nei deserti soffocanti dell’Oklaoma

Agosto a Osage County” al Carignano sino al 4 giugno

Dell’ormai sessantenne Tracy Letts – attore, sceneggiatore e drammaturgo vincitore nel 2008 del Pulitzer e del Tony Award per la migliore opera teatrale – lo Stabile torinese, con la regia di Filippo Dini, propone in questo finale di stagione (repliche sino al 4 giugno al Carignano: andate a godervelo) “Agosto a Osage County”, già approdato sullo schermo mattatrici Streep e Julia Roberts, per l’ente di casa nostra penultima tappa di un calendario felice di produzioni e coproduzioni (Miller, Pirandello uscito con divertimento dai vecchi binari, la resurrezione di Raffaele La Capria con il suo “Ferito a morte”, i miei soliti dubbi su Kriszta Székely, la potenza tirata a sorte sera dopo sera di “Maria Stuarda”: in attesa di “Lazarus” a riproporre il mito di David Bowie).

È un groviglio di vipere quella famiglia Weston, tre generazioni che si urlano, si azzuffano e si sbranano, uomini e donne a buttarsi in faccia ricordi acidi, le speranze e le delusioni, i rimorsi che ognuno s’è tenuto dentro per anni, le frustrazioni, tutta la violenza e la rabbia e l’aggressività, le parole che non si sono mai dette e che a un certo punto della vita esplodono, coinvolgendo il passato e il presente soprattutto, e chiudendo per sempre la porta in faccia al futuro. Al termine della tragedia, rimarrà soltanto Violet a sbattersi attraverso la casa come una farfalla impazzita: Dini, nella sue note di regia, cita il mondo di Cecov; certo, qui sembrano restare come sospese Violet e la figlia Barbara, nello “Zio Vanja” Sonia incitava ad andare avanti, a lavorare, a vivere. Il mondo di oggi è più crudele, Barbara fugge e chissà se tornerà, l’ultima nostra immagine è Violet, con tutto il suo terrore, come il vecchio Firs del “Giardino” abbandonato e rinchiuso dopo la partenza di ognuno. C’è stato un periodo in quella famiglia che si potrebbe definire con facilità felice, l’esistenza del capofamiglia Beverly, il ragazzo povero che s’è fatto poeta di successo, vincitore di tanti premi. Poi qualcosa s’è rotto. C’è solo aridità e solitudine, come quel deserto che circonda la casa laggiù nell’Oklaoma, in quel territorio rubato ai nativi, c’è soltanto un emblematico caldo soffocante in quelle stanze, sono finiti, oggi, se mai hanno trovato posto in quelle vite, i tentativi di dialogo e di sghemba riconciliazione. Si urla, si corre da una parte all’altra, si alzano le mani, ci si butta a terra, la lingua non ha freno, ogni cosa s’inacidisce e marcisce. È arrivata l’ora di fare i conti, di guardare in faccia quella famiglia disfunzionale, di gridare ai quattro venti quello che finora non s’è mai detto. Arriva il giorno e l’occasione, è il suicidio di Beverly, che s’è allontanato da una vita che non è più sua, dalle sue poesie.

S’abbrutisce quella famiglia come Violet, la madre e la vedova, come quel suo cancro in bocca che le fa ingurgitare manciate di pasticche e nuvole di fumo, caparbia, senza un attimo di serenità e di dolcezza, che gioca con la cattiveria verso chiunque le capiti a tiro, che spruzza secche risate e ironia quanto basta, lasciando intravedere nella sua ferocia quel che di grottesco stagni in quel groviglio, tra quelle stanze, tra gli affetti che forse un tempo vi hanno trovato un qualche spazio, una donna che della casa e dei suoi ospiti sa tutto, a cui nulla è mai sfuggito. S’abbrutiscono le figlie, Barbara soprattutto, arrivata per il funerale di papà con marito imbelle e figlia vegetariana e ribelle al seguito, lei in odore di chi vuole senza mezzi termini prendere in mano le redini del comando; e Karen, in un’altalena continua di ocaggine e disperazione, e Ivy, che s’è sempre vista scarsamente apprezzata dalla famiglia e sempre più isolata e che ora pare aver trovato un affetto verso il cugino Charlie piccolo se non arrivassero le parole della zia Mattie con la loro crudele verità. Una famiglia, che si potrebbe comodamente definire al femminile, considerato il peso nullo degli uomini, una famiglia dissestata e incancrenita che Letts traccia con una maestria feroce e singolarissima: e durante lo spettacolo tornano inevitabilmente alla mente certi momenti del film, magari qui negati, ma poi ti accorgi che la regia di Filippo Dini ha fatto assai di più, ha scavato, ha rintracciato momenti e battute e leggerezze che descrivono ancor meglio quel vociante gruppo, ha saputo tirar fuori da ogni personaggio le tante sfumature, le parole che ti arrivano chiare e disturbanti, i piccoli come i grandi gesti, quella nube da tragedia greca che s’allarga su tutto e su tutti, con le scene di Gregorio Zurla ha mosso l’azione (direi, ricordandosi del cinema) con pareti movibili e con ambienti parcellizzati che spezzano ogni immobilità.

Una commedia triste, di ingombrante tristezza, che è non soltanto una bomba a orologeria, fatta di deflagrazioni ad ogni istante, ma altresì un meccanismo perfetto che avvince lo spettatore, fatto di un dialogo sporco e di azioni malconce, di entrate e di uscite definite al millimetro, di una vita vera in cui certi grovigli di oggi potrebbero forse riconoscersi. Dini ha avuto con sé nel compito difficile di bisturizzare persone e cose un gruppo d’attori davvero eccezionali. Lasciati nell’ombra, ma certo non per personali difetti, i signori uomini, ritagliato per sé il ruolo del molliccio Bill, ha dato fiato alle trombe con le sue attrici. Ha trovato in Giuliana De Sio una Violet che è una tigre malata, che cerca di appigliarsi agli ultimi sprazzi di vita con una grinta e una bravura come raramente si vedono nello spettacolo, aspra, incendiaria, una zampata dietro l’altra; Manuela Mandracchia, che è Barbara e che si ritaglia delle intere scene davvero da grande attrice, la sempre incisiva Orietta Notari, pronta a catturare la scena al momento giusto. Come le giovani Stefania Medri, Valeria Angelozzi (una bella scoperta) e Caterina Tieghi. Non ultima Valentina Spaletta Tavella, il coro all’interno della tragedia, a cui è affidato l’abbraccio e la protezione finali: “è questo il modo in cui finisce il mondo / non già uno schianto ma con un lamento”, dice da “Gli uomini vuoti” di Eliot. Un successo.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma. La Compagnia con al centro in primo piano Giuliana De Sio; Manuela Mandracchia e Giuliana De Sio; da sinistra Filippo Dini, Giuliana De Sio, Orietta Notari, Manuela Mandracchia e Andrea De Casa

Art FLaw dove l’arte si sposa con il collezionismo e la divulgazione artistica

Nasce un nuovo progetto artistico 

 

Art FLaw è il nome del progetto conduttore sia della mostra di arte contemporanea promossa da FolLaw Avvocati a Torino, studio legale multidisciplinare operativo nel settore del diritto dell’arte, sia il titolo della mostra di arte contemporanea da loro promossa.

Legalità e diritto, unito alla passione dell’Avvocato Maurizio Marangon, collezionista, amante dell’arte e studioso dello stesso mercato, sono sfociate e confluite in un progetto di divulgazione artistica.

Le opere di questa prima edizione di Art FLaw sono state selezionate dalla curatrice Giulia Turati e sono di altissimo livello, avendo la peculiarità, che taluni forse considerano un difetto, di essere nuove.

Presentano il pregio della fatalità verso un futuro promettente e quotazioni calibrate rispetto al percorso di Art Market intrapreso dagli autori.

Con Art FLaw diventa fruibile l’arte, rimane intatta, pulita e non speculativa.

Pittura, grafica, scultura e installazione sono i linguaggi interpretati da Alma Gianarro, nella pittura contemporanea e grafica, Bianca Mancin artista grafica e Graphic Designer editor di Art FLaw Massimiliano Salvi, scultore, pittore, titolare e creatore delle opere all’interno del laboratorio d’ingegno “Lo Yeti felice”, e Orma il Viandante, alias Manuele Mannisi, street artist unico nel suo stile per la realizzazione di opere da esposizione oltre che di murales, Sara Francesca Molinari, artista multidisciplinare e accademica, pittura, performance e installazione, e 7 Apo, Fabio Desantis, pittore con la peculiarità di realizzare tele artistiche con la resina per pavimenti spatolata.

Le opere sono presentate al vernissage da esperti d’arte come la dottoressa Vanessa Carioggia, la professoressa Patrizia Scaglia e hanno tra i loro sponsor Italia Arte, Museo MIIT, Madama srl, Howden- Assiteca, lo Studio Srl, 4 house, Sax the bit e lo Yeti Felice Laboratorio.

La mostra viene presentata il 22 maggio e sarà visitabile, previo appuntamento, presso la sede FolLaw Avvocati, tramite gli artisti stessi e attraverso gli avvocati Marangon, Federica Cresto e la curatrice d’arte Giulia Turati.

MARA MARTELLOTTA

San Paolo Solbrito: il ritorno del Crociato

Un tuffo nel Medioevo nel weekend a San Paolo Solbrito. Il cavaliere sta per tornare a casa dopo una lunga assenza.

Messaggeri, araldi e giullari si recano nelle borgate del paese per annunciare il ritorno in patria del nobile Crociato. Sono i giorni che precedono la festa a cui il paese lavora tutto l’anno provando più volte le scene in costume. San Paolo Solbrito, nell’astigiano, 35 chilometri da Torino, è pronto ad accogliere calorosamente Andrea Riccio, Signore di Solbrito, che apparteneva ad un’antica famiglia nobile di Asti, proprietaria del castello. Come cavaliere templare prese parte alla IV Crociata nel 1204 a Costantinopoli. È lui il personaggio principale della rievocazione storica che si svolgerà sabato sera 27 maggio e domenica 28 per iniziativa del Gruppo storico San Paolo Solbrito. Il Medioevo torna in questo piccolo paese di 1200 abitanti con un banchetto medioevale (sabato sera) che sarà seguito nella giornata di domenica da una solenne cerimonia religiosa (ore 9,30) e dal tradizionale corteo storico (ore 17.00) a cui partecipano nobili e popolani. Vestito da cavaliere templare Andrea Riccio farà il suo ingresso in paese e si recherà in chiesa per ringraziare Dio dello scampato pericolo.
La cena inizierà con l’arrivo del crociato. Un banchetto abbondante, con ricette del Duecento, verrà consumato alla presenza dei personaggi più influenti dell’aristocrazia astese dell’epoca. Poco lontano, nella “taverna della plebe”, il popolo festeggerà il ritorno del Crociato. La sfilata del corteo storico si terrà domenica per le vie del paese partendo dai due antichi castelli di Solbrito e di San Paolo con dame e cavalieri e un centinaio di figuranti divisi in gruppi, con la propria corte e la servitù. Non mancheranno sbandieratori e spadonari che si esibiranno al termine della sfilata nella piazza principale. La festa consolerà il cavaliere dalle fatiche della Quarta Crociata, ahimè, una carneficina terribile nella capitale imperiale sul Bosforo, che non vide scontrarsi cristiani e musulmani ma cristiani contro cristiani in un orrendo bagno di sangue. È la storia del sacco di Costantinopoli che cadde non sotto il segno della Mezzaluna ma della croce latina. Il templare astigiano Andrea Riccio fu uno dei tanti crociati che diedero l’assalto alle mura di Bisanzio come si vede nei grandi quadri di Tintoretto e di Palma il Giovane. Ma che la festa continui. Domenica mattina il nobile cavaliere arriverà in paese accompagnato da signorie e sbandieratori. Dopo la Messa gli onori al Crociato e la presentazione di una copia della Sindone.        Filippo Re

Medioevo e Templari in Piemonte

C’è la Dama del Lingotto, ci sono le prime monete dei barbari invasori, c’è Carlo Magno che attraversa la bassa valle di Susa, ci sono i grandi artisti che illustrano il Piemonte medievale e soprattutto spicca la storia dei Templari nella nostra regione con la loro presenza a Saliceto, nel cuneese, a Moncalieri, Chieri, Casale, Asti, Alessandria.

“I Templari in qualche modo c’entrano sempre” fa dire Umberto Eco a un personaggio di un suo romanzo. In effetti, a nove secoli di distanza dalla fondazione dell’Ordine del Tempio, quei Cavalieri con il manto bianco su cui svetta una grande croce rossa, rappresentati magistralmente nelle incisioni di Gustave Dorè, restano il più importante Ordine religioso-militare. Nel nuovo libro di Pierluigi Baima Bollone “Medioevo e Templari in Piemonte” edito da Priuli & Verlucca, c’è gran parte della storia del Piemonte, dai Goti ai Franchi e ai Longobardi fino al Novecento. Professore emerito di Medicina legale all’Università di Torino, autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche e conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi sulla Sindone, Baima Bollone indaga sulla formazione dell’ambiente medioevale nei territori piemontesi e sulla presenza dell’Ordine templare nel nord-ovest della penisola e in particolare nella nostra regione con le tracce monumentali che ne sono rimaste e ne documentano l’esistenza. Le pagine del suo volume sono una cavalcata impetuosa attraverso i secoli, al fianco del re dei Franchi e di tanti altri personaggi che hanno fatto la storia della terra subalpina, come la nobildonna longobarda del VI secolo sepolta nella zona del Lingotto insieme ai suoi monili e ad altri preziosi reperti, ritrovata nel 1910 durante lo scavo di un pozzo in via Nizza a tre metri di profondità, oppure i primi vescovi di Torino Massimo e Landolfo, i barbari e i saraceni e tanti altri ancora. Accanto a loro si stagliano i grandi artisti che illustrarono il Piemonte medioevale con le celebri abbazie della Novalesa e di San Benigno di Fruttuaria, la canonica di Santa Maria di Vezzolano, l’Abbadia di Stura, la Sacra di San Michele e il santuario della Consolata con il campanile eretto dai monaci della Novalesa fuggiti a Torino all’arrivo dei mori. Un intero capitolo è dedicato all’iconografia del Piemonte medioevale con opere e immagini di Pelagio Palagi e Alfredo d’Andrade, il Bellotto, nipote del Canaletto, e Pietro Palmieri, Bagetti e Cignaroli, Clemente Rovere e Francesco Gonin. Tra le curiosità del libro, la scoperta che alcune persone residenti nelle nostre valli alpine hanno un’origine araba. Dopo essere stati cacciati dalle valli piemontesi molti saraceni invasori si sono integrati nelle popolazioni locali. Moderne ricerche genetiche, spiega Baima Bollone, provano la persistenza di Dna nordafricano in soggetti nati nell’Italia meridionale, in Sicilia e in Spagna. Il castello templare della Rotta a Moncalieri? Tutte fake news, secondo l’autore, le presunte apparizioni notturne di fantasmi nel maniero. Vestiti i panni del detective privato Baima Bollone ha constatato di persona che si tratta semplicemente dei fari di auto e camion che viaggiano sulla vicina autostrada. “Ho sorvolato anche l’edificio per una ricognizione dall’alto e il pessimo stato del tetto pareva facilitare i giochi di luce”. Chapeau! C’è poi un piccolo gioiello in val Bormida, nel paese di Saliceto. Memorie templari emergono nella locale chiesa rinascimentale di San Lorenzo con un rarissimo Bafometto, un idolo pagano della cui adorazione furono accusati e condannati i Templari. Una presenza che ricorda la cappella di Rosslyn in Scozia. La chiesa di Saliceto può essere definita a tutti gli effetti una piccola Rosslyn piemontese. “Resta da chiarire, annota lo studioso torinese, come nel Quattrocento, quindi ben oltre la soppressione dell’Ordine, un cardinale potesse volere sulla facciata di una chiesa una simbologia templare. La domanda resta senza risposta”.
Filippo Re

Sempre Verdi con le voci del Trio Lirico del Teatro Regio di Torino

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Osteria Rabezzana, via San Francesco d’Assisi 23/c, Torino

Mercoledì 24 maggio, ore 21.30

Paola Lopopolo, soprano, Andrea Antognetti, tenore e Marco Tognozzi, baritono, le voci del Trio Lirico del Teatro Regio di Torino, accompagnati al pianoforte dal M° Andrea Turchetto presentano mercoledì 24 in Osteria Rabezzana “Sempre Verdi! (Opere, non fiori!)” arie, romanze, duetti, terzetti e cori tratti dalle più belle opere di Giuseppe Verdi: La Traviata, Rigoletto, Don Carlo, Otello, Un Ballo in Maschera, Giovanna d’Arco e, per finire, l’immancabile Nabucco.

Mercoledì 24 maggio

Sempre Verdi! (Opere, non fiori!)

Paola Lopopolo, soprano

Andrea Antognetti, tenore

Marco Tognozzi, baritono

Maestro accompagnatore: Andrea Turchetto

Ora di inizio: 21.30

Ingresso:

15 euro (con calice di vino e dolce) – 10 euro (prezzo riservato a chi cena)

Possibilità di cenare prima del concerto con il menù alla carta

Info e prenotazioni

Web: www.osteriarabezzana.it

Tel: 011.543070 – E-mail: info@osteriarabezzana.it

Torino Soprannaturale. Tra sensitivi, faccendieri della magia e il Santone delle Vallette

«Torino Soprannaturale. Tra sensitivi, faccendieri della magia e il Santone delle Vallette» (Intermedia Edizioni), scritto dai torinesi Andrea Biscàro, saggista, e Livio Cepollina, giornalista e autore radiotelevisivo, consente l’accesso a una Camera del Tempo squisitamente subalpina, dagli anni Trenta ai Novanta del Novecento, con atmosfere in bilico tra realtà e fascinazione. Un percorso insolito lungo vie, portici, appartamenti, personaggi noti e meno noti legati alla magia, alla chiromanzia, alla sensitività. Il tutto condito con qualche storiella “esoterica” collaterale, non di rado ai limiti della legalità, in grado di trasmetterci profumi e battiti d’antan.

In questa inedita corsa nelle notti torinesi, l’accenno a Rol è intenzionalmente fugace, tant’è la sua fama all’ombra della Mole. Di Rol si è detto e scritto ampiamente. In «Torino Soprannaturale»è invece presente il resto di una Torino notturna – in penombra anche quando il sole è allo zenit – che gli autori hanno recuperatoda vecchi e polverosi articoli di giornale e da una serie di interviste esclusive ai protagonisti di quegli anni.

I Lettori scopriranno che un certo Carlo Bustico è stato fra noi, sui divani della buona società subalpina in cerca di mistero. Su di lui poco sappiamo, malgrado le tracce recuperate qua e là dal baule del Tempo, incluso il rapporto intercorrente tra il nostro e la Torino occulta dagli anni Quaranta ai Settanta, attirato com’era dal mondo salottiero che strizzava l’occhio all’esoterismo.

Dopo l’incontro iniziale con Bustico, il viaggio prosegue con una serie di personaggi un tempo noti e sui quali non può calare il sipario: Germana Grosso, Giorgio Pontiglio, Maria Pia Daleth, Luciano Proverbio, il pittore Alessandri, Giuseppe Trappo e altri ancora.

Ciò che emerge da questo saggio sulla Torino esoterica del tempo che fu, va in controtendenza con l’immagine stereotipata che vuole il capoluogo subalpino come opaco. Torino è stata una fucina di umanità tutt’altro che fredda, men che meno grigia seppur caratterizzata da tratti sfuggenti che l’hanno resa una città crepuscolare che sapeva sorprendere senza far baccano.

In chiusura, una storia mai raccontata: la biografia del Mago Gabriel, al secolo Salvatore Gulisano. Con lui si accede a una dimensione unica, bizzarra e magica. Il mago Gabriel è stato un personaggio unico nel panorama televisivo, inizialmente sulle emittenti locali torinesi, poi nazionali grazie a Mai dire TV, dove veniva preso di mira dalla Gialappa’s Band per via del suoitaliano sconquassato, per non parlare degli improbabili esperimenti Eso e Terici. Ma Gabriel non è stato soltanto questo: prima del successo televisivo, Torino lo ricorda come il Santone delle Vallette, popolare quartiere cittadino, dove il mago ha saputo raccordare, a modo suo, tradizioni della terra d’origine, superstizione e magia. Grazie ai ricordi familiari si è andati oltre il personaggio, così da incontrare l’uomo nella sua storia di vita.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Tove Ditlevsen “Dipendenza” -Fazi Editore- euro 15,00

E’ l’ultimo tassello dell’opera autobiografica di Tove Ditlevsen, l’importante poetessa e scrittrice danese nata nel 1917 e morta suicida nel 1976. Autrice della Trilogia di Copenaghen in cui ripercorre le tappe principali della sua perigliosa esistenza: “Infanzia” (primo volume, pubblicato in patria nel 1967), seguito da “Gioventù” ed ora concluso con lo struggente “Dipendenza”.

Anche in questo capitolo finale il suo sguardo sulla vita è amaro e disincantato; ci trascina nel suo mondo, nel suo sentire e nella sua sofferenza con parole che ci afferrano e non ci lasciano più.

Dopo un’infanzia difficile («… lunga e stretta come una bara ….» così la descrisse) e una giovinezza altrettanto stentata, alla ricerca della realizzazione di quel talento innato per la scrittura, ora Tove è una donna adulta.

Ha appena 20 anni, ma si sente pesantemente sposata da una vita con l’editore 53enne Viggo Frederik Møller; e non è certo un matrimonio d’amore, pilotato più che altro dalla madre di lei.

Viggo è freddo, supponente e distante. Ma lei gli è grata per averla sposata e per avere pubblicato la sua prima poesia sulla sua rivista.

Adesso Tove sta cercando di scrivere il suo primo romanzo, a mano su carta protocollo gialla e in silenzio, senza usare la macchina da scrivere per non disturbare col rumore il marito.

Poi nella sua vita irrompe il 25enne studente di economia Ebbe, che assomiglia a Leslie Howard e la incanta fin dal primo incontro. Per lui lascia il marito, e lo sposa in seconde nozze. Un amore passionale e travolgente che si assopisce di colpo dopo la nascita della figlia Helle. Poi di nuovo un rapporto sempre più difficile, con in mezzo un sofferto aborto clandestino e tante incomprensioni.

Infine entra in scena il medico Carl, che lei non ama affatto, ma dipende da lui dal momento in cui per procurarle un altro aborto illegale le ha somministrato la Petidina. Un potente analgesico che propaga nel suo corpo una beatitudine mai provata prima. E’ l’inizio della vorticosa discesa negli inferi della tossicodipendenza.

Tove lascia anche il secondo marito, pur di avere costantemente libero accesso a quel pericoloso liquido che la «…eleva all’unico piano di esistenza al quale mi interessa vivere».

La sua esistenza deraglia, lei peggiora a vista d’occhio e si isola da tutti, scivolando sempre più nell’abisso al quale seguirà il ricovero e la faticosa disintossicazione …..

Come andrà a finire la vita della scrittrice lo sappiamo.

Lei, che era uno spirito creativo e libero, non riuscirà mai a venire a patti con la vita; si sentirà sempre fuori posto ed affogherà il suo male di vivere in alcol e droghe. Fino al tragico epilogo: la morte per un’overdose di sonniferi che fermò la sua vita a soli 58 anni.

E questo libro ci fa comprendere a fondo il suo male di vivere.

 

Norman Mailer “Un sogno americano” -La nave di Teseo- euro 20,00

Mailer, di cui ricorre il centenario della nascita, per alcuni è stato uno dei maggiori autori americani; per altri invece troppo dedito ad eccessi, violenza, sesso e misoginia.

Nato nel New Jersey il 31 gennaio 1923 e morto a New York nel 2007, fu più cose. Presunto boxeur, candidato 2 volte come sindaco della Grande Mela, inanellò 6 mogli ed ebbe 9 figli. Incontrò la fama come scrittore nel 1948 con “Il nudo e il morto”. Autore di 40 libri, vincitore di 2 Premi Pulitzer; ma anche poeta, giornalista, sceneggiatore e regista.

Un sogno americano”, quarto romanzo di Mailer, uscì nel 1965, in 8 puntate su “Esquire” in piena epoca beat, e suscitò parecchio scalpore. Narra una torbida storia che si consuma nell’arco di 32 ore vertiginose ed è anche una meditazione sul male.

Il protagonista è Steven Rojack: laureato ad Harvard, eroe di guerra, amico di J.F. Kennedy, professore di psicologia esistenziale, personalità televisiva, attore e figura pubblica. E alcuni tratti della sua vicenda richiamano la vita vera di Mailer che negli anni Sessanta accoltellò la seconda moglie Adele (che però non sporse denuncia).

Invece il protagonista 45enne, mezzo ebreo, Steven Rojack, sposato per interesse con l’ereditiera Deborah, ora sta affrontando il divorzio che si trascina per le lunghe. Una sera va a trovarla, i due bevono e discutono, lui ubriaco perso in un accesso incontrollato d’ira la strangola, poi la lascia riversa sul pavimento e si infila nel letto della cameriera di lei, come se niente fosse.

In un secondo tempo torna nella stanza del delitto e scaraventa il cadavere dalla finestra per simulare un suicidio. Un volo nel vuoto e un’auto che passa sopra la vittima aumentano lo scempio del suo corpo.

Ovvio che i sospetti ricadano subito su Rojack, che però se la gioca abilmente: tra fughe nei bassifondi newyorkesi e jazz club, mafiosi, scambi erotici bollenti, sesso con la cantante di night – club Cherry della quale forse si innamora, vincite inaspettate a Las Vegas e continue pressioni della polizia affinché confessi il delitto.

E’ un’anima nera quella del protagonista: ambiguo moralmente e sospeso tra continui riferimenti al bene e al male, accenni al diavolo, un torbido cocktail di sesso, violenza e ambiguità morale.

Dal romanzo fu tratto anche il film nel 1966 diretto da Robert Gist, “An american dream”, in italiano tradotto “Vivi e lascia morire”, con Eleanor Parker nel ruolo di Deborah.

 

Elisa Fuksas “Non fiori ma opere di bene” -Marsilio- euro 19,00

E’ il secondo romanzo della scrittrice e regista nata a Roma nel 1981 e racconta la sua perigliosa ricerca della tomba del nonno paterno, che tutti erano convinti riposasse al Cimitero del Verano a Roma. Invece scoprirà che non è così. Elisa Fuksas è la figlia dei fondatori dell’omonimo famoso studio di architettura cosmopolita e visionaria.

Questo libro è affascinante, un intelligente e profondo viaggio tra vita e morte, tra il regno dei vivi e quello dell’eterno riposo di chi non c’è più. Un peregrinare tra senso della vita e ineluttabilità della fine, ma anche nelle radici del proprio passato, non sempre facile da rintracciare e ricostruire.

La protagonista -autrice inizia il suo percorso a ritroso, partendo da suo padre, Massimiliano Fuksas rimasto orfano a soli 6 anni nell’Italia del dopoguerra. Del nonno, Elisa sa pochissimo e annaspa tra scarne informazioni.

E’ come una fantasma che aleggia nella vita di Elisa; sa che si chiamava Raimundas o Raimondo, era lituano italianizzato, medico e in un certo senso ebreo. Aveva conosciuto la moglie all’università dove studiava filosofia e lui medicina; si erano sposati contro il volere della famiglia di lei, andando a vivere in un misero monolocale. Raimondo era sempre elegante e abituato a fare colazione in giacca e cravatta; ben diverso dai familiari romani e caciaroni della sposa.

Raimondo era morto giovane il 15 ottobre del 1950, non si sa bene di cosa: ictus, ischemia, embolo. L’unica testimonianza a cui aggrapparsi era stata quella della nonna, rimasta vedova prestissimo, ma campata fino alle 100 candeline e morta da pochi anni.

Lei ricordava che il marito era spirato in casa, al Gianicolo, all’improvviso una notte, vomitando acqua.

Il loro era stato un grande amore, tranciato troppo presto dal destino; e dopo 20 anni di vedovanza la moglie si era risposata con un italiano. Ora le loro ceneri riposavano in due urne vicine, nel loculo di un cimitero di campagna.

Invece Raimundus dove era sepolto solo solingo? Secondo il padre della scrittrice le spoglie riposano nella tomba di famiglia della nonna, insieme a quei parenti acquisiti ma invisi. Lui non ci va da 60 anni ma ricorda che la tomba era la 132, nona a destra dell’ingresso principale del Verano….

E’ così che la protagonista intraprende il complicato viaggio nel monumentale cimitero capitolino. Una vasta città dei morti edificata in seguito all’editto di Saint Cloud del 1804 che imponeva le sepolture fuori dalle mura cittadine, nei secoli cresciuta fino a coprire la superficie immensa di oltre 83 ettari.

Elisa che non frequentava volentieri i camposanti, ora invece vi si addentra con il fiuto del segugio, andando così anche alla ricerca delle sue origini nella lontana Lituania che non ha mai neanche visitato. Ed è un ‘avventura- metafora di tutte le morti, le sparizioni.

Una continua riflessione sulla vita e la morte; su tutto quello che sta intorno al morire, tra riti, sepolture e tantissimo altro. Un libro che induce a meditare….

 

 

Maria Castellitto “Menodramma” -Marsilio- euro 16,00

Questo è l’esordio letterario della 25enne figlia del regista Sergio Castellitto e della scrittrice Margaret Mazzantini, sorella di Pietro che a sua volta è attore, regista e scrittore con al suo attivo il romanzo “Iperborei”.

Maria in realtà ha sempre scritto fin da bambina, ma senza mai farne parola in famiglia; poi a 20 anni ha iniziato a pubblicare articoli su un giornale. Ma lo scatto è avvenuto mentre studiava in Inghilterra e sul computer annoverava vari inizi di possibili storie, oltre alle materie di studio.

Il resto è venuto da sé, incoraggiata dai genitori ai quali aveva fatto leggere parti del romanzo.

E in parte l’esperienza londinese traspare nel libro, la cui protagonista è la quasi 24enne Duna, romana laureata in Filosofia che vive a Londra dove si mantiene leggendo sceneggiature.

Duna non è un personaggio autobiografico, ma in alcune interviste Maria Castellito ha chiarito che certi pensieri e stati d’animo della sua protagonista li ha vissuti anche lei.

La storia racconta anfratti delle nuove generazioni. Parla di confusione, disperazione, delusioni; sostanzialmente della difficoltà di incasellarsi nel mondo secondo la propria natura più autentica e profonda. In un certo senso è un romanzo generazionale, in cui a dubbi e insicurezze fa da contraltare la costante ricerca di risposte e soluzioni.

Intorno a Duna si muovono suoi coetanei con problematiche simili, senso di inadeguatezza in generale, ma soluzione diverse. Per esempio il miglior amico, il problematico Alexander, alla fine finisce in una clinica psichiatrica.

Potremmo dire che il romanzo parla di quel male del vivere e senso della fine che attanaglia ogni processo di crescita, ma che in gioventù appare spesso molto arduo.

Nelle pagine scorre un senso della fine che sembra stia per arrivare e coincide con la fine della giovinezza che ha già nostalgia di se stessa.

Ma è una sorta di morte simbolica, e anche se il pensiero del suicidio sfiora Duna, alla fine la vita fa sempre uno scatto.

La Fondazione ricorda Martin Amis

 

VINCITORE DELLA QUARTA EDIZIONE DEL PREMIO LATTES GRINZANE NEL 2014

(Monforte d’Alba, 21 maggio 2023). La Presidente Caterina Bottari Lattes e la Fondazione ricordano Martin Amis, scomparso nelle scorse ore e vincitore del Premio Speciale Lattes Grinzane nel 2014.

Amis, considerato una delle più influenti e innovative voci della letteratura britannica, vivace critico del conformismo sociale, ha tenuto una straordinaria lectio magistralis in occasione della cerimonia di ritiro del Premio ad Alba, incentrata sulla figura di Primo Levi.

 

Nelle parole della sua lectio troviamo un messaggio prezioso che Martin Amis ha lasciato a tutti noi:

Gli scrittori muoiono due volte: muoiono quando muore il loro talento (come più o meno inevitabilmente accade), e muoiono ancora quando anche il loro corpo muore. […] Fortunatamente, però, l’estinzione non è sempre definitiva. […] I libri rimangono, continuano a vivere. […] Il corpo fisico può essersene andato, ma il corpus dello scrittore è pronto per l’immortalità.

 

Nella foto Caterina Bottari Lattes e Martin Amis, vincitore del Premio speciale Lattes Grinzane 2014

Salone del Libro, il Centro Pannunzio presenta gli scritti italiani di Gustaw Herling

LUNEDÌ 22 MAGGIO ALLE ORE 10,15 al Salone Internazionale del libro, Sala Indaco, si terrà un convegno dedicato a Gustaw HERLING dal tema “UN PONTE SULL’EUROPA: Gli scritti italiani di Gustaw Herling”. Saluti di Marta HERLING e Pier Franco QUAGLIENI. Interverranno Alessandro AJRES, Alberto CAVAGLION, Cesare PANIZZA. Introdurrà Krystyna JAWORSKA. Gustaw Herling-Grudziński, scherzando, si definiva un “polacco-napoletano”. Era infatti nato a Kielce, nel sud della Polonia ed è morto (e sepolto) a Napoli, dove era vissuto dal 1955, dopo aver sposato, in seconde nozze, Lidia, figlia di Benedetto Croce. Nel 1940, dopo la spartizione della Polonia tra tedeschi e russi, fu arrestato dai sovietici ed inviato in un campo di lavoro da cui uscì nel 1942. In seguito si arruolò nell’esercito polacco che combatteva a fianco degli alleati e che nel dicembre 1943 sbarcò in Italia e combattè, tra l’altro, a Monte Cassino. Basandosi sulle sue esperienze nel Gulag, Herling ha scritto uno dei libri più importanti del Novecento: “Un mondo a parte”, pubblicato dopo molte traversie. Gli “SCRITTI  ITALIANI”, imponenti per quantità, per significato e contenuti, testimoniando il  suo esilio in Italia, divenuta per lui una “seconda patria”. In queste pagine si rivelano principii e valori che connotano tutta l’opera di Herling e la sua “duplice vita di scrittore”: fra letteratura e impegno politico, sempre al servizio della verità, unita alla crociana “religione della libertà”.