A Sarajevo l’Obala Meeting Point era un cinema di Skenderija. Lì, in una serata di fine ottobre di quasi vent’anni fa, ho assistito alla proiezione di otto cortometraggi realizzati da giovani cineasti bosniaci selezionati nel progetto denominato Conflitto/Risoluzione. Le opere erano già state ospitate, un mese prima, sugli schermi di Torino. Ma vederle a Sarajevo vi fu tutta un’altra cosa. L’evento era promosso nell’ambito delle iniziative collegate alla tregua olimpica in previsione dei giochi invernali di Torino 2006. Quello che in greco si chiama “ekecheiria” (“le mani ferme”), è un concetto che risale a un’antica tradizione ellenica che prevedeva la cessazione di tutte le ostilità e delle inimicizie durante i Giochi Olimpici.
Tra le tante iniziative di quel tempo c’era anche questa, mirata a sostenere l’arte e il talento dei giovani bosniaci. In un paese dove pesavano un passato doloroso, un presente difficile e un futuro imprevedibile, un motivato moto d’orgoglio era offerto proprio dal cinema. Un amico sarajevese mi raccontò che in Bosnia Erzegovina erano stati prodotti solo centoventi lungometraggi in più di un secolo di cinema ma nonostante questo, aggiunse, “siamo in una terra che può vantare registi conosciuti in tutto il mondo come il pluripremiato Emir Kusturica, autore di Underground, il vincitore dell’Oscar 2002 Danis Tanović con No man’s land o la vincitrice dell’Orso d’Oro a Berlino Jasmila Žbanić con il drammatico Grbavica”. Sembrava un paradosso ma non lo era se si prestava una certa attenzione al lavoro di quei giovanissimi registi, ricchi di fantasia e veramente capaci di comunicare con le immagini. Ragazzi all’epoca poco più che ventenni, formatisi alla scuola di scenografia, cinema e teatro di Sarajevo o in quella di arte cinematografica di Banja Luka. I loro corti esprimevano con straordinaria efficacia il racconto del difficile passaggio alla normalità in quel lacerato e tribolatissimo dopoguerra balcanico. Che età potevano avere, nei primi anni novanta? Dieci, dodici, quindici anni? Età da adolescenti, strappati ai loro giochi e alle fantasie per essere costretti a diventare adulti in fretta in un paese in guerra. Nelle loro opere s’avvertiva una miscela di eccessi, un amaro sarcasmo e i cenni che non lasciavano nulla all’immaginazione nei confronti della triste realtà che si viveva ogni giorno da quelle parti. In alcuni casi sembra accantonato, se non addirittura cancellato, ogni riferimento alla speranza. Ma non c’era nulla di cinico in quanto comunicavano. Semmai, questo sì, traspariva un forte disincanto che, a tanti anni di distanza, si comprende come fosse motivato. Non era che a colori la crudezza dei fotogrammi fosse più attenuata ma è indubbio che in quelli girati con la pellicola in bianco e nero le scenografie erano ancor più livide e angoscianti. Mi colpì, in modo particolare, la prima proiezione. Il titolo del breve film era Prva plata, traducibile ne Il primo stipendio. Il regista, Alen Drljevic, un magrissimo giovane con gli occhialetti e un accenno di barba su un volto da bravo ragazzo, era un esordiente con delle ottime idee. Il filmato, che si può trovare anche su You Tube, durava meno di un quarto d’ora ed era estremamente coinvolgente. La scena si svolgeva, com’è ovvio, in Bosnia-Erzegovina, circa otto anni dopo la fine del conflitto, vale a dire tra il 2002 e il 2003. In un giro di scommesse illegali era stato organizzato un nuovo modo per far puntare i soldi alla gente: delle gare motociclistiche da disputare su un campo minato, in una specie di roulette russa in salsa balcanica. C’era chi scommetteva sull’esplosione e sulla morte e chi invece confidava nella fortuna del pilota perché, in quel caso, l’abilità era un fatto relativo, del tutto residuale. Del resto, in un paese dove la maggior parte della gente viveva al di sotto della soglia di povertà, non era cosa difficile trovare dei piloti pronti a gareggiare con la morte per portarsi a casa ” il primo stipendio”. Ricordo di essere uscito dal cinema a tarda sera, dopo le premiazioni e i saluti finali. C’era la luna a Sarajevo, una bella luna piena per la gioia degli innamorati lungo le passeggiate che costeggiavano le due rive della Miljacka. Forse perché avevo ancora negli occhi i fotogrammi appena visti, ma quell’astro d’argento mi rammentò un passaggio di Cupe Vampe, canzone che i CSI dedicarono all’assedio della città e al rogo della biblioteca nazionale: “piena la luna, nessuna fortuna”. La mente evocava immagini di disperate corse notturne per chi era costretto ad uscire di casa, cercando di non finire nel mirino dei cecchini. Gli snipers, in quel tragico tiro al bersaglio, cercavano la complicità dell’astro più cantato dai poeti. Non per declamare versi ma per vomitare addosso a persone ignare e inermi la loro giornaliera razione di odio, terrore e morte.