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L’attrice, regina di fiction di enorme successo come “I ragazzi del muretto”, “Un posto al sole”, “Orgoglio”, “Crimini”, ”Compagni di scuola” e “Incantesimo”, è protagonista del “Tenente Colombo” di David Conati e Marcello Cotugno, in scena al Teatro Gioiello dal 26 dicembre al 1° gennaio: Nel cast anche: GIANLUCA RAMAZZOTTI, PIETRO BONTEMPO, SARA RICCI e la partecipazione straordinaria di NINI SALERNO, per la regia di MARCELLO COTUGNO.
In “Prescription Murder”, questo il titolo originale della piéce, si trovano già tutti i temi e lo stile del personaggio tv di Colombo che i due autori americani avevano creato ispirandosi al detective Porfiry Petrovitch di “Delitto e castigo” di Dostoevskij: un uomo trasandato e maldestro, che apparentemente ama compiacere gli altri e che tende a sminuire le sue doti d’investigatore e di uomo, ma che in realtà è sagace e ironico, un fine conoscitore della natura umana, capace di apparire e scomparire nei luoghi e nei momenti più impensati con infallibile tempismo.
Come in tutti i telefilm, anche qui, lo spettatore è da subito testimone dell’omicidio: il dottor Fleming è un brillante psichiatra di New York, che non riesce più a tollerare il matrimonio con la moglie, una donna possessiva che ha sposato solo perché ricca. Assieme alla sua giovane amante Susan, un’attrice di soap, architetta il piano perfetto per uccidere la moglie. Ma sulla sua strada troverà il tenente Colombo. Dalla prima scena in poi, il racconto si dipana non sulla traccia del “chi è stato” come accade in Agatha Christie, ma sul filo del “come fare a prenderlo”, con il modesto ma acuto Colombo che lavora ostinatamente per smascherare l’alibi “perfetto” dell’assassino. Un indizio apparentemente insignificante alla volta – lacci delle scarpe, caviale, aria condizionata – il duello tra Colombo e lo psichiatra si dipana fino ad arrivare ad un sorprendente epilogo. Forse pochi sanno che Il Tenente Colombo, uno dei telefilm più noti e seguiti degli anni ’70 e ’80, nasce da un testo teatrale: Prescrizione: assassinio (Prescription: Murder), scritto nel 1962 da William Link e Richard Levinson, e andato in scena per la prima volta al Curran Theatre di San Francisco nello stesso anno.
Il testo ci immerge nell’atmosfera newyorchese dell’inizio degli anni ‘60: una città sporca e malfamata, minacciata dalla criminalità e animata da nuovi immigrati che ne ridisegnano la fisionoma trasformandola nella metropoli multiculturale di oggi. Il sogno americano comincia a vacillare dopo gli anni del boom e, mentre le istanze della postmodernità mettono radici nell’arte e nella letteratura, il cinema e il teatro recepiscono il relativismo etico ed esistenziale che attraversa la società e la cultura definendo un nuovo tipo di attore/personaggio.
Samuela Sardo, 47 anni, romana, autentica bambina prodigio che ha iniziato a calcare i primi palcoscenici nei primi anni ‘80, giovanissima. Prima al teatro e poi subito dopo al cinema.
“Ricordo che per avvicinare la gente non abituata ad andare a teatro, avevano organizzato degli spettacoli teatrali, ripresi e poi mandati in televisione – racconta –. Era tutto girato in uno studio televisivo. La scenografia era finta in sostanza. C’era, ad esempio, un giardino innevato, con la neve finta, ed io, a soli cinque anni, ricordo che nelle pause ci giocavo. Lo ricordo veramente come un gioco, anche perché, ovviamente, non avevo un granché da fare! A mia madre, che era colei che mi ci portava sul set, veniva chiesto se ci riuscivo a stare sul set per così tante ore … Invece io, ero così folgorata che non mi allontanavo mai dal set, neppure per andare al bar. Non mi schiodavo dalla poltrona per paura che arrivasse il mio momento ed io non c’ero. Si può dire che avevo già un grandissimo senso di responsabilità. Ero molto ligia”.
E poi, come un fulmine a ciel sereno, ecco presentarsi l’occasione che la presenta al grande pubblico: “Un posto al sole”.
“Per me è stata un’esperienza professionale e personale importantissima. Sono entrata in nella soap che avevo appena compiuto diciotto anni e mi sono dovuta trasferire a Napoli, per la prima volta lontana dalla mia famiglia e dalla mia casa. Quindi è stata una prova importante per la mia vita. A livello professionale è stata una sfida sin da subito” .
MARA MARTELLOTTA
Il pranzo, la famiglia, le vacanze, la neve, i regali, la beneficenza, i canti, i dolci e addirittura il vin brulé. Tutto, o quasi: mancano il panettone o il pandoro e, data l’epoca, l’alluvione tecnologica di sms ed e-mail, tutte uguali, replicate all’infinito
“Se comandasse il pastore del presepe di cartone sai che legge farebbe,firmandola col lungo bastone? “Voglio che oggi non pianga nel mondo un solo bambino,che abbiano lo stesso sorriso il bianco, il moro, il giallino”. Sapete che cosa vi dico io che non comando niente? Tutte queste belle cose accadranno facilmente; se ci diamo la mano i miracoli si faranno e il giorno di Natale durerà tutto l’anno”. In questa filastrocca di Gianni Rodari è racchiuso, quasi fosse una di quelle palle di vetro con il paesaggio innevato, lo “spirito” del Natale. Ma esiste ancora, oggi, lo spirito del Natale? Quell’essere “più buoni e un po’ meno egoisti” è un ricordo lontano, sfocato. Il Natale moderno con l’albero, i regali, Babbo Natale, i buoni sentimenti ed i biglietti d’auguri sono un’invenzione anglosassone, d’epoca vittoriana, e il suo principale interprete fu uno dei più grandi romanzieri dell’Ottocento, Charles Dickens. In “Canto di Natale”, suo malgrado, lo scrittore inglese inventò gran parte della mitologia che, oggi, costituisce la tradizione natalizia: il pranzo, la famiglia, le vacanze, la neve, i regali, la beneficenza, i canti, i dolci e addirittura il vin brulé. Tutto, o quasi: mancano il panettone o il pandoro e, data l’epoca, l’alluvione tecnologica di sms ed e-mail, tutte uguali, replicate all’infinito. Con quel libro – che racconta della fantastica storia dell’avarissimo Scrooge che diventa generoso, dopo la visita di tre spettri proprio durante la notte di Natale – pubblicato il 18 dicembre 1843 e venduto in seimila copie nella prima settimana (per l’epoca, un bestseller), Dickens mise in fila i “nuovi valori” che questa festività intendeva rappresentare. Non solo la famiglia ma anche lo spirito di carità che biasima l’ingiustizia sociale e la povertà, descrivendo a suo modo quell’Inghilterra rurale dell’epoca destinata a fare da sfondo alle cartoline di auguri con i paesaggi innevati. Così nacque il Natale “moderno” che, poi, l’evoluzione consumistica ha adattato, necessariamente, ai tempi.
Marco Travaglini
Faceva freddo in quella stalla abbandonata. Dai muri tirati su a secco entrava un’aria gelida, sibilata dal vento che quella notte turbinava neve. Attorno a quel tavolo di fortuna, combinato da due vecchie assi poggiate su malfermi cavalletti di legno, io, Giorgio e Renato parlavamo di quale futuro ci attendeva. La cera della candela era rappresa in pallide lacrime e le parole scorrevano veloci, di bocca in bocca. Quando sarebbe finito l’incubo della guerra, l’occupazione dei tedeschi e l’arroganza dei fascisti della repubblica sociale con quei ghigni sinistri e i simboli delle teste da morto? L’Italia sarebbe tornata come prima del fascismo o sarebbe cambiata davvero? Certo, volevamo la libertà ma non si combatteva solo per ottenere quella. C’era di più, molto di più. “Il nostro obiettivo riguarda insieme libertà e democrazia”, diceva Giorgio. “Non è possibile che le cose rimangano come al tempo dello Statuto Albertino. Non basta che ci sia un sovrano che conceda di sua iniziativa, bontà sua, i diritti al popolo. Anzi. Non va nemmeno bene che ci sia un Re, la monarchia, i Savoia a decidere e comandare. Quelli sono scappati all’8 settembre lasciandosi alle spalle un paese dilaniato, distrutto, occupato. Prima hanno aperto le porte al Duce, poi all’avventura della guerra e ora dovremmo accoglierli ancora, perdonando tutto? Nemmeno per idea!”. Accompagnava le parole picchiando pugni sul tavolaccio, facendo tremare la candela che prontamente dovevo prendere al volo. Eravamo d’accordo tutti e tre: non avevamo preso le armi per cacciare i fascisti e i tedeschi per tornare ad essere sudditi. Insieme alla libertà volevamo giustizia, un lavoro da svolgere con dignità. Volevamo la fine di quei tormenti che ci avevano avvelenato la vita. Era la vigilia di Natale, il 24 dicembre 1944. Dopo la caduta della Repubblica dell’Ossola e il proclama di Alexander che ci chiedeva di cessare le azioni di guerriglia, in questo gelido e duro inverno ci eravamo riorganizzati ma bisognava stare attenti. C’erano giorni in cui venivamo avvertiti che in giro c’erano tedeschi e fascisti che ci davano la caccia e non era il caso di uscire allo scoperto, altri in cui si preparava o si effettuava un agguato o un’azione particolare. Avevamo deciso di non stare ad aspettare che gli alleati riprendessero a risalire l’Italia. Dovevamo fare la nostra parte e l’avremmo fatta ad ogni costo. Nei periodi di inattività eravamo impegnati anche in grandi discussioni, in cui si parlava del futuro, di come lo si immaginava. L’idea del futuro, anche fosse solo per istinto, era associata al desiderio di qualche cosa di completamente diverso che chiamavamo genericamente democrazia, cioè un Paese senza dittatura, senza imposizioni, senza violenza. Sono passati tantissimi anni e a volte penso a quella sera e alle tante sere passate a discutere, alle azioni e ai rischi che corremmo, ai compagni che persero la vita e vedendo quest’Italia piatta, meschina, ignorante mi scopro a pensare chi ce l’avesse fatto fare. Poi, superato lo scoramento, mi ritornano in mente le parole di Renato quando diceva che non bisognava illudersi, che le cose sarebbero sì cambiate ma che non c’era conquista che sarebbe stata ottenuta una volta per tutte, che per noi che volevamo cambiare la società, che aspiravamo a cambiare il mondo non ci sarebbe mai stato congedo. Quante volte ci siamo ritrovarti da anziani. Noi, i sopravvissuti con i capelli bianchi. Noi che avevamo fatto saltare i ponti e con queste mani tremanti un giorno avevamo lanciato bombe a mano e stretto forte le armi. Con queste signore dallo sguardo mite, diventate nonne e anche bisnonne, che a quei tempi nascosero pistole, portarono messaggi, ospitarono e nutrirono partigiani, fecero con coraggio la loro parte. Oggi siamo rimasti in pochi e facciamo fatica a camminare, sorretti da un bastone o una stampella. Attraversiamo lentamente le vie che un tempo ci videro muoverci con rapidità, colpendo e fuggendo. Vecchi, malandati, spesso soli e dimenticati. Può darsi che si susciti tenerezza o compatimento ma a quel tempo sbaragliammo interi battaglioni, rischiammo la vita, ci battemmo per garantire quella libertà della quale oggi tanti ne fanno cattivo uso, abusandone, senza immaginare quanto ci sia costata perché non ne sono mai stati privati e non hanno dovuto battersi per riconquistarla. Non c’è retorica. Non serve indulgere in nostalgie. Abbiamo la consapevolezza di aver fatto ciò che era giusto e che tutto quanto è accaduto non deve essere dimenticato e quei semi di giustizia e libertà non inaridiscano mai. Siamo gli ultimi testimoni e tra poco non ci sarà più nessuno di noi. Il nostro regalo per Natale e per tutti i giorni a venire è questa eredità. Fatene un buon uso e non scordatevi quanto è costata.
Marco Travaglini
Prima di tutto si sceglie l’albero, ogni famiglia ha il proprio sempreverde che la rappresenta, chi acquista l’arbusto verde classico, chi invece lo preferisce colorato o con effetto neve, c’è poi chi preferisce una decorazione tradizionale e chi invece desidera personalizzarlo con addobbi “simpatici” ed inaspettati, in ogni caso questo è il gesto che segna l’inizio dei festeggiamenti, come testimoniano anche diverse manifestazioni artistiche.
Nell’opera di David Jacob Jacobsen, “Vendendo alberi di Natale”, (1853), è evidente che questo primo passo è essenziale: ad ognuno il proprio albero. Su uno stuolo di neve solcata da segni di carrozze e impronte di scarpe di varia numerazione, mentre un sole fioco illumina pallidamente gli edifici sullo sfondo e sfiora i volti delle persone, in primo piano due ragazzini si tengono per mano e si allontanano delusi, senza aver portato a casa l’alberello desiderato. Sullo sfondo e ai lati della composizione altre figure, raccolti in piccoli gruppi inscuriti dalla colorazione cupa degli abiti semplici e dall’ombra proiettata dai palazzi, s’impongono sullo sfondo chiaro: un gruppo di donne vende cibaglie, altre invece mostrano dei possibili addobbi natalizi, eppure l’attenzione di tutti cade sulle cime dei pini raffigurati al centro del quadro, desiderio dei personaggi dipinti e degli osservatori.
Anche Franz Krüger, immortala l’importanza del momento nel suo “Padre e figlio in cerca di un albero di Natale”, risalente al XIX sec. La scena mostra un’austera figura barbuta armata di accetta, in netto contrasto con la dolcezza di un ragazzino ancorato alla sua slitta e l’espressione felice di un cagnolino scodinzolante e curioso, l’uomo dal volto irto e serioso impugna un alberello sempreverde di medie dimensioni, ognuno degli astanti osserva l’arbusto già inghirlandato e impreziosito dalle decorazioni minute.
Marcel Rieder, in “Decorando l’albero di Natale”, (1898), mostra invece l’atto magico decisivo, tramite il quale una semplice pianta –finta ovviamente, cari ambientalisti- si tramuta nel cuore pulsante della casa, il finto pino diviene l’organo vivo dell’abitazione, ogni battito riflette l’andamento delle lucine che lo attorcigliano, al piano delle radici artificiali spuntano man mano pacchetti e regalini, e più il numero dei doni misteriosi aumenta, più è evidente l’avvicinarsi del “grande giorno”.
Rieder dipinge un ambiente intimo e accogliente, nella penombra una giovane donna appoggia con delicatezza le decorazioni sull’arbusto, sotto di lei s’intravvede qualche balocco, mentre in primo piano, sul tavolino giacciono piccoli giocattoli usati, forse i desideri dell’anno precedente. Ad illuminare il momento l’abat-jour dal paralume in stoffa, che attutisce il diffondersi del chiarore e trasporta lo spettatore nell’atmosfera che precede l’arrivo convulso dei familiari, la notte della vigilia, quando le coppie possono ancora approfittare dell’intimità della solitudine e scambiarsi un affetto più raccolto e delicato.
È il momento che preferisco personalmente, la calma prima del festaiolo trambusto, lo scambio dei doni con la propria dolce metà, quel regalo veramente sentito barattato con i sorrisi sinceri e carezze sfiorate; è il momento che amo di più perché, mentre Babbo Natale sorvola i tetti del mondo, ognuno di noi ha l’opportunità di trascorrere del tempo con chi desidera sul serio, senza i convenevoli che ogni tradizione trascina dietro di sé.
La notte finisce, il buon Santa Claus ha compiuto nuovamente la sua magia, ognuno ha la propria aspettativa sotto l’albero.
William Holbrook Beard, nel suo “ Babbo Natale”, (1862), dipinge una scena tratta dall’immaginario classico condiviso a livello mondiale: una slitta trainata da renne si confonde tra le nuvole notturne, i comignoli sbuffano il fumo delle stufe e un signore paffuto fa lievemente cadere dolciumi e prelibatezze dai cocuzzoli dei tetti.
Vi sono alcune cose “sacre” ed intoccabili a questo mondo, una di queste –credo- sia proprio la figura di Sinterklaas, a cui si attribuiscono nomi differenti e che appunto per noi è “Babbo Natale”, persino Picasso ed Andy Warhol si sdebitano con lui, regalandogli a loro volta un ritratto speciale, il primo eseguito con linee essenziali e precise, il secondo tutto incentrato sul volume della barba lanosa e sul brillore dei piccoli occhiali rotondi.
Ma è ormai “il di’ di festa”. Ce lo mostra Viggo Johansen, in “Felice Natale”, del 1891, su uno sfondo scuro emergono caldamente illuminate le figure danzanti di una famiglia numerosa che esegue un girotondo intorno all’albero addobbato. I bambini ridono e osservano il luccichio delle candele incastonate sui rami, la madre, di spalle, partecipa alla felicità familiare con il contegno che s’addice a chi è sempre vigile e pronta a sedare eventuali capricci infantili. Oppure Albert Chevallier Tayler, che, con il suo “L’albero di Natale”, (1911), dipinge il vociare allegro della famiglia tutta disposta lungo la tavolata imbandita di prelibatezze, mentre sullo sfondo luccica l’albero di natale, i volti rubicondi degli astanti presentano gote arrossate e bocche piene, persino il nonno sulla sedia a dondolo, seduto vicino al camino e meno volenteroso d’allegria, è costretto dal nipotino intrepido e rinunciare a quel momento di raccoglimento per partecipare alla grande gioia.
Natale è festa per tutti, dai soldati di Wojciech Kossak, fino ai bordelli di Munch, nessuno può esimersi da questo giorno di pasti, risate e abbracci.
Quello che viene dopo lo sappiamo tutti, eppure ben lo rappresenta Mark Lancelot Symons, nell’opera titolata “Il giorno dopo Natale”, (1931). Nella raffigurazione si nota un’abitazione scompigliata, i festoni si appoggiano stanchi alla libreria in secondo piano, a terra le carte spacchettate dei balocchi nascondono il pavimento e su tutto vincono i volti esausti ma felici dei bambini, intenti e concentrati a giocare con le novità appena ricevute.
Lo aspettiamo tutto l’anno questo momento di pausa, forse ogni anno che passa con maggiore necessità di fermarsi dalla frenesia della vita moderna. E come sempre il tempo ci vola via senza che possiamo fare niente per fermarlo o perlomeno rallentarlo un po’.
Quello che credo è che, mentre corriamo irrequieti da un negozio all’altro, dovremmo forse trovare qualche istante per formulare dei desideri seri, come ritrovare un po’ di assennatezza e di senso del limite.
Questo Natale, cari lettori, regaliamoci un po’ di coraggio per affrontare le sfide delle responsabilità che ci richiede la vita e un po’ di umiltà per apprezzare che ogni frutto ha la sua stagione.
Questo Natale, proviamo a fare gli adulti, magari in tal modoregaleremo ai bambini la possibilità di vivere la propria infanzia gioiosamente e non attaccati al monitor di uno smartphone, così come potremmo donare agli adolescenti che tutti additiamo l’opportunità di imparare qualcosa sul serio.
Un felice Natale a tutti, cari lettori, vi auguro di trovare sotto l’albero sincerità e affetto, ma soprattutto spero che voi troviate “il tempo”, che è il regalo più bello di cui disponiamo, ma che alla fine non scartiamo mai.
ALESSIA CAGNOTTO
Il latinista Luciano Perelli è stato ricordato al liceo “Carlo Botta” di Ivrea dove nacque nel 1911. Morto trent’anni fa, è ancora molto ricordato dagli ex allievi al liceo Gioberti di Torino e alla Facoltà di Lettere dove insegnò-caso raro- Letteratura latina e successivamente Storia romana alla Facoltà di Magistero. Soprattutto Perelli è ricordato per i suoi libri di testo dalla pregevolissima “Storia della letteratura latina” che non ebbe eguali per decine d’anni ai molti commenti a Cicerone ed agli amatissimi Lucrezio, poeta dell’angoscia e Catullo, poeta dell’amore tenero e disperato. I giovani nei suoi commenti ritrovavano l’humanitas autentica e la storicità di Roma senza l’eccessivo tecnicismo filologico che a volte uccide gli studi classici. Gli allievi di Perelli, similmente a quelli di Concetto Marchesi, acquisivano una cultura classica che era la base di un sapere poliedrico nel quale sarebbero cresciuti. Quando Perelli morì all’improvviso nel 1994, Luciano Canfora scrisse di lui una testimonianza ancora oggi importante che riguarda i suoi “ricordi antifascisti” incentrati sul carcere inflitto dal regime al padre e al fratello, che condizionò i suoi studi per affrettare il suo insegnamento privato, appena superata la Maturità, per dare un sostegno alla famiglia. Tuttavia egli non confuse mai l’insegnamento con un marcato impegno politico, come invece fece Marchesi. L’antifascismo per lui fu una scelta di libertà incompatibile con l’ideologismo anche se seppe difendere le ragioni della scuola classica da chi avrebbe voluto circoscriverla a pochi specialisti, di fatto uccidendola. Giovanna Garbarino, che fu docente di Letteratura latina, mi disse spesso che questa capacità di miscelare insieme letteratura e storia latina e greca era la cifra straordinaria di Luciano, forse non abbastanza apprezzato in Facoltà. Quando ancora insegnava al liceo, seppe difendere con coraggio ed anticonformismo la dignità professionale dei professori dalla tendenza già allora emergente di considerarli degli impiegati. La tutela della funzione docente fu una delle sue più grandi preoccupazioni e anche questo rende Perelli un protagonista unico della scuola piemontese. Egli capì fin dal suo sorgere l’aspetto eversivo di una parte della contestazione giovanile del ’68 insieme ai colleghi Franco Venturi, grande storico dell’Illuminismo e Giorgio Gullini, archeologo e preside della Facoltà di Lettere. Giunse a vedere delle affinità con il fascismo in certi estremismi di sinistra. Una volta con il “Corriere della Sera” in mano parlammo di un articolo del direttore Spadolini sugli opposti estremismi che corrispondeva a pieno al suo modo di vedere la violenza in quegli anni difficilissimi in cui qualcuno tentò di vedere le lotte studentesche in una sorta di continuità con la Resistenza.
Il 39esimo concerto di Natale ad Assisi, su RAI 1 e Rai 5, esprime lo spirito del Natale con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da David Giménez.
Dai classici come Still Nacht al brillante medley di Natale contenente i popolari Jingle Bells e ‘We wish you a Merry Christmas’, passando per pagine di grandi autori molto amate dal pubblico come “O mio babbino caro” di Puccini, la danza slava di Dvorak o la Fantasia Ungherese di Lehar, si tratta del tradizionale concerto di Natale dalla Basilica Superiore di San Francesco di Assisi, trasmesso da Rai Cultura mercoledì 25 dicembre alle 12.25 circa su Rai 1 dopo la Benedizione Urbi et Orbi del Santo Padre e successivamente in prima serata su RAI 5 alle 21.15.
Protagonisti la cantante palestinese Amal Murkus, il soprano russo di origine ucraina Ekaterina Bakanova e il violinista israeliano Itamar Zorman che, insieme al direttore David Giménez e alla compagine Rai porteranno nelle case degli italiani l’atmosfera del Santo Natale e un messaggio di fratellanza, pace e serenità.
Amal Markus interpreta Diary of a Palestinian Wound di Nizar Zreik e Torch of the Magi di Nassim Dakwar. A Ekaterina Bakanova sono affidate l’Ave Maria di William Gomez, l’aria pucciniana “O mio babbino caro” dal Gianni Schicchi, e il Laudatae Dominum dai Vesperae Solennes de Confessore K399 di Wolfgang Amadeus Mozart. Itamar Zorman è violino solista in “ Nigun” dalla suite Ba’al Shem di Ernest Bloch, e nella Fantasia Ungherese op. 45 di Franz Lehar.
Accanto a loro il corno inglese dell’OSN RAI Franco Tangari, impegnato nell’Adagio per corno inglese e archi in fa maggiore K580a di Mozart, il coro Maghini istruito da Claudio Chiavazza, impegnato tra l’altro in “Judex” dall’Oratorio Sacro ‘Mors et Vita’ di Charles Gounod e in un medley dei più tradizionali canti natalizi. In programma anche la danza slava in sol minore n. 8 op. 46 di Dvořák e Fruhlingsstimmen di Johann Strauss II.
Il gran finale sarà affidato alle voci di Markus e Bakanova che, insieme a Coro e Orchestra, chiuderanno il concerto con uno dei più celebri canti di Natale, Still nacht di Franz Xaver Gruber.
Mara Martellotta
Giovedì 26 dicembre, ore 17, Nichelino (TO)
Un’orchestra sinfonica di oltre 60 musicisti, con il soprano Ivanna Speranza e il tenore Alejandro Escobar, porta al Teatro Superga giovedì 26 dicembre il “Gran Galà dell’Opera” con arie, duetti, cori e scene che parlano di vino perché i compositori hanno identificato il brindisi come momento di socialità e snodo saliente dell’opera: dal Don Giovanni di Mozart all’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, dall’Otello al Falstaff fino alla memorabile scena de La Traviata di Giuseppe Verdi e poi Offenbach e Gioacchino Rossini. Capolavori musicali che diventano veri inni al vino, alla vita, a ciò che merita di essere festeggiato e che sancisce un nuovo inizio.
Gran Galà dell’Opera – Concerto di Natale
Con Ivanna Speranza, soprano
Alejandro Escobar, tenore
Eclettica, l’orchestra giovanile di Estemporanea
Tamara Bairo, direttore
Un racconto di Lucia Margherita Marino
Biglietti: platea 23 euro, galleria 17,25 euro
011 6279789 biglietteria@teatrosuperga.it
IG + FB: teatrosuperga
Orari biglietteria: dal martedì al venerdì dalle 15 alle 19
I biglietti si possono acquistare presso la biglietteria del Teatro Superga, sul luogo dell’evento nei giorni di spettacolo dalle ore 18, online su Ticketone.it
Sono già cominciate a Bra le manifestazioni commemorative dei fratelli Carando, trucidati dai fascisti il 5 febbraio 1945 a Villafranca Piemonte, zona dove Pompeo Colajanni, ”Barbato” ,aveva costituito-lui ufficiale al “Nizza Cavalleria” della vicina Pinerolo-una banda armata garibaldina che si rivelò una vera e propria punta di diamante nella Resistenza non soltanto piemontese. Ennio ed Ettore Carando ,fratelli con idee e vite diverse, furono accomunati da una morte atroce nella condivisione degli ideali di libertà propri della migliore Resistenza piemontese. Ennio , un apprezzato professore di filosofia quasi cieco che aveva insegnato a Savona ed era autore di saggi filosofici , divenne ispettore del Raggruppamento delle divisioni “Garibaldi” nel Cuneese.
Secondo una versione era un militante comunista ,mentre secondo altri aveva esitato a mettersi con i comunisti, chiedendo lumi nel 1943, già prima della Resistenza, al filosofo Piero Martinetti . Lo stesso dubbio lo ebbe il filosofo della scienza Ludovico Geymonat che parlerà del valore socratico dell’ opera filosofica di Ennio. Martinetti disse loro che il dovere dell’antifascismo era superiore ad ogni altra ragione. In tempi recenti ho appreso da un nipote dei due partigiani che Ennio era, nel periodo del partigianato, in stretti rapporti con il futuro leader politico Antonio Giolitti, nipote del grande statista liberale, che con le sue scelte dimostrò il suo rifiuto di ogni forma di stalinismo. Ettore era un ufficiale di artiglieria, sposato da poco tempo, che come tanti ufficiali fedeli al giuramento prestato sentì la Resistenza anche come un nuovo Risorgimento.
In una lettera alla moglie, che ebbi modo di conoscere ,espresse il suo dovere di soldato di liberare il suolo patrio dall’oppressione straniera che può farlo accostare anche nel portamento ad un eroe del Risorgimento. Nel contempo egli le scrisse tutto il dolore del distacco da lei con parole di intensa umanità. La vedova non volle risposarsi e visse nel ricordo disperato del marito. I due fratelli, uniti dalla morte, non vennero invece accomunati nel riconoscimento del loro sacrificio. Ad Ennio venne conferita con una bella motivazione che si trova in Internet, la Medaglia d’Oro alla memoria, mentre ad Ettore solo la Medaglia d’Argento.
Una disparità di trattamento che stupì allora e continua ancora a stupire oggi. Nessuna voce specifica è stata dedicata ad Ettore che viene citato insieme a quella dedicata al fratello. Vittorio Prunas Tola, capo dei gruppi d’ Unione “Camillo di Cavour” e combattente per la libertà a fianco dei suoi figli proprio a Villafranca evidenziò già molti anni fa questa diversità di trattamento, ricordando il partigiano caduto con le stellette del soldato. Anche Davide Lajolo si disse stupito. Forse sarebbe giusta nell’ottantesimo della Liberazione maggiore attenzione al capitano Carando, non conosciuto al mondo intellettuale come il fratello, ma egualmente meritevole di riconoscimento.