CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 2

Bosnia, il primo stipendio

A Sarajevo l’Obala Meeting Point era un cinema di Skenderija. Lì, in una serata di fine ottobre di quasi vent’anni fa, ho assistito alla proiezione di otto cortometraggi realizzati da giovani cineasti bosniaci selezionati nel progetto denominato Conflitto/Risoluzione. Le opere erano già state ospitate, un mese prima, sugli schermi di Torino. Ma vederle a Sarajevo vi fu tutta un’altra cosa. L’evento era promosso nell’ambito delle iniziative collegate alla tregua olimpica in previsione dei giochi invernali di Torino 2006. Quello che in greco si chiama “ekecheiria” (“le mani ferme”), è un concetto che risale a un’antica tradizione ellenica che prevedeva la cessazione di tutte le ostilità e delle inimicizie durante i Giochi Olimpici.

Tra le tante iniziative di quel tempo c’era anche questa, mirata a sostenere l’arte e il talento dei giovani bosniaci. In un paese dove pesavano un passato doloroso, un presente difficile e un futuro imprevedibile, un motivato moto d’orgoglio era offerto proprio dal cinema. Un amico sarajevese mi raccontò che in Bosnia Erzegovina erano stati prodotti solo centoventi lungometraggi in più di un secolo di cinema ma nonostante questo, aggiunse, “siamo in una terra che può vantare registi conosciuti in tutto il mondo come il pluripremiato Emir Kusturica, autore di Underground, il vincitore dell’Oscar 2002 Danis Tanović con No man’s land o la vincitrice dell’Orso d’Oro a Berlino Jasmila Žbanić con il drammatico Grbavica”. Sembrava un paradosso ma non lo era se si prestava una certa attenzione al lavoro di quei giovanissimi registi, ricchi di fantasia e veramente capaci di comunicare con le immagini. Ragazzi all’epoca poco più che ventenni, formatisi alla scuola di scenografia, cinema e teatro di Sarajevo o in quella di arte cinematografica di Banja Luka. I loro corti esprimevano con straordinaria efficacia il racconto del difficile passaggio alla normalità in quel lacerato e tribolatissimo dopoguerra balcanico. Che età potevano avere, nei primi anni novanta? Dieci, dodici, quindici anni? Età da adolescenti, strappati ai loro giochi e alle fantasie per essere costretti a diventare adulti in fretta in un paese in guerra. Nelle loro opere s’avvertiva una miscela di eccessi, un amaro sarcasmo e i cenni che non lasciavano nulla all’immaginazione nei confronti della triste realtà che si viveva ogni giorno da quelle parti. In alcuni casi sembra accantonato, se non addirittura cancellato, ogni riferimento alla speranza. Ma non c’era nulla di cinico in quanto comunicavano. Semmai, questo sì, traspariva un forte disincanto che, a tanti anni di distanza, si comprende come fosse motivato. Non era che a colori la crudezza dei fotogrammi fosse più attenuata ma è indubbio che in quelli girati con la pellicola in bianco e nero le scenografie erano ancor più livide e angoscianti. Mi colpì, in modo particolare, la prima proiezione. Il titolo del breve film era Prva plata, traducibile ne Il primo stipendio. Il regista, Alen Drljevic, un magrissimo giovane con gli occhialetti e un accenno di barba su un volto da bravo ragazzo, era un esordiente con delle ottime idee. Il filmato, che si può trovare anche su You Tube, durava meno di un quarto d’ora ed era estremamente coinvolgente. La scena si svolgeva, com’è ovvio, in Bosnia-Erzegovina, circa otto anni dopo la fine del conflitto, vale a dire tra il 2002 e il 2003. In un giro di scommesse illegali era stato organizzato un nuovo modo per far puntare i soldi alla gente: delle gare motociclistiche da disputare su un campo minato, in una specie di roulette russa in salsa balcanica. C’era chi scommetteva sull’esplosione e sulla morte e chi invece confidava nella fortuna del pilota perché, in quel caso, l’abilità era un fatto relativo, del tutto residuale. Del resto, in un paese dove la maggior parte della gente viveva al di sotto della soglia di povertà, non era cosa difficile trovare dei piloti pronti a gareggiare con la morte per portarsi a casa ” il primo stipendio”. Ricordo di essere uscito dal cinema a tarda sera, dopo le premiazioni e i saluti finali. C’era la luna a Sarajevo, una bella luna piena per la gioia degli innamorati lungo le passeggiate che costeggiavano le due rive della Miljacka. Forse perché avevo ancora negli occhi i fotogrammi appena visti, ma quell’astro d’argento mi rammentò un passaggio di Cupe Vampe, canzone che i CSI dedicarono all’assedio della città e al rogo della biblioteca nazionale: “piena la luna, nessuna fortuna”. La mente evocava immagini di disperate corse notturne per chi era costretto ad uscire di casa, cercando di non finire nel mirino dei cecchini. Gli snipers, in quel tragico tiro al bersaglio, cercavano la complicità dell’astro più cantato dai poeti. Non per declamare versi ma per vomitare addosso a persone ignare e inermi la loro giornaliera razione di odio, terrore e morte.

Le terre blu di Nico Orengo

Vengo da un paese di mare; un paese che si confonde e affonda in quel giardino”. Con queste parole lo scrittore Nico Orengo si presentava nel suo racconto Terre blu.

Quel giardino” dove si sentiva a casa erano i Giardini Botanici Hanbury che si distendono dal promontorio della  Mortola verso il mare di Ventimiglia, a pochi chilometri dal confine francese. Diciotto ettari sull’estrema punta del Ponente ligure al quale dedicò la sua opera letteraria, ambientando racconti e poesie. Un gioiello naturalistico prezioso, uno dei giardini di acclimatazione più belli e preziosi d’Europa e dell’intero bacino mediterraneo. Orengo raccontava che sono blu le terre della Liguria quando fioriscono i carciofi, quando il mare “rimbalza il suo colore sotto i pini, quando si alza il fumo degli sterpi sulle fasce, quando la campanula buca i rovi e quando la bungavillea e il glicine sui muri incontrano il tramonto”. In questo modo il blu si imprime indelebilmente nella memoria, trasformandosi nel colore del ricordo e della terra. Quella terra “aspra e dolce della Liguria di Ponente che da Imperia a Ponte San Luigi corre anguillesca sul mare e su, verso l’interno di paesi d’incanto, umidi e solari”. Con Terre blu Nico Orengo raccontava una geografia sospesa tra la realtà e l’immaginazione come può essere solo quella di “un viaggiatore che ritorna sui suoi passi per constatare che c’è un albero in più e una pietra in meno, che il pollaio è una villetta, o che quel tal orto si è fatto casa”. Alla terra di confine dove ambientò quasi tutti i suoi romanzi Nico Orengo rimase sempre legatissimo. La sua Liguria non era solo uno spazio naturale pieno di odori e colori, suggestioni straordinarie sospese tra il blu del mare e i colori forti dell’entroterra  ma anche un luogo della memoria, degli anni della giovinezza e dell’adolescenza. Un mondo intero dove si intrecciavano indimenticabili ricordi che rievocò nei suoi romanzi (Dogana d’amore, Il salto dell’acciugaLe rose d’EvitaLa guerra del basilicoRibesLa curva del latte) con la sua scrittura lieve e ironica. Nel suo penultimo romanzo, Hotel Angleterre, accompagnò i lettori in un viaggio della memoria rimescolando ricordi, rievocando la figura della nonna paterna, la contessa Valentina Tallevitch, che, nelle fredde sere invernali, mentre gettava bucce di mandarino nel fuoco acceso nel camino, narrava ai nipoti vecchie storie della nobiltà russa in Costa Azzurra e nella Riviera di Ponente, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Nell’ultimo, Islabonita, ambientato a metà degli anni Venti, usa l’espediente narrativo del bestiario e di una figura antropomorfica di anguilla voyeur, per raccontare un epoca che stava per lasciare una traccia dolorosa e indelebile sulla pelle della nazione. Spesso nei suoi libri riecheggia l’amarezza per il  tramonto della società contadina e il declino dei suoi umanissimi valori a scapito  del rapido imporsi del modello industriale e urbano che il boom economico avrebbe poi codificato nell’avvento della società dei consumi. E la natura e l’ambiente, entrambi da difendere e tutelare, rappresentano desideri che emergono in molti racconti come Gli spiccioli di Montale dove, in un tratto di mare al confine con la Francia, un uliveto che rischia di scomparire, provocando uno strappo violento nella memoria, quasi come se un ricordo venisse rubato. Ci restano in eredità i suoi versi, le filastrocche ( A-ulì-ulè ) , i racconti, le battaglie contro la speculazione edilizia e per la salvaguardia dell’ambiente e delle tradizioni culturali, il bellissimo ritratto delle langhe fissato nelle pagine del romanzo Di viole e liquirizia. Nico Orengo morì a Torino, nella mattinata di sabato 30 maggio 2009, all’ospedale delle Molinette dove era stato ricoverato dopo una crisi cardiaca. Aveva 65 anni. Al capoluogo piemontese ( vi era nato il 24 febbraio del 1944)  era legato per l’intensa collaborazione con Einaudi e la lunga direzione di Tuttolibri, il settimanale letterario de  La Stampa, quotidiano per cui scriveva. Non casualmente scelse come ultima e definitiva dimora il piccolo cimitero dei Ciotti tra La Mortola e Grimaldi, aggrappato alla roccia e affacciato sul mare blu cobalto. Come scrisse lui stesso nell’agosto  del 2000, lo scenario non poteva che essere quello di “ una Liguria favolosa di sapori, fico polveroso e gelsomino stordente, di buganvillea e cappero, di garofano, calendula e rose, mirto e rosmarino”Un buon modo di ricordarlo è quello di leggere le sue opere magari accompagnandone il piacere con un buon bicchiere di vino, preferibilmente rossese o vermentino, secondo le antiche ricette della cucina ligure.

Marco Travaglini

Torino e i suoi teatri: il Medioevo e i teatri itineranti

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Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

 

2  Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti

Cari lettori, il caldo e l’afa di questi giorni hanno notevolmente limitato le mie energie, di conseguenza non ho “escamotage” letterari da proporvi per l’abituale introduzione discorsiva che è solita precedere l’argomentazione vera e propria dei miei pezzi. Non mi attarderò dunque oltre, al contrario vi propongo di entrare subito “in medias res”, nel vivo del nostro discorso sulla storia del teatro, iniziato la settimana scorsa con una premessa sulle radici antiche di tale fenomeno rappresentativo.
L’unico augurio che mi preme rivolgervi è che possiate leggere questo mio scritto in un luogo strategico, magari su una panchina ombrosa e leggermente ventilata, oppure a casa, seduti sulla vostra poltroncina preferita, mentre il ventilatore vi fa roteare i pensieri estivi.
Lo ribadisco, la materia che mi sono proposta di trattare è pressoché infinita e alquanto complessa, ma vedrò di proseguire per sommi capi, proponendovi un racconto organico ma non eccessivamente specifico, tale da rispecchiare le caratteristiche delle letture che solitamente si fanno sotto l’ombrellone.
Oggi ci occupiamo delle forme teatrali tipiche dell’epoca medievale, uno dei momenti storici maggiormente estesi e variegati che compongono le vicende dell’Europa.
Solo per rispolverare nozioni che sicuramente già avete e per rendere accetta quell’attitudine da docente che ormai è parte integrante del mio essere, vi ricordo che stiamo prendendo in considerazione quell’esteso periodo di circa mille anni che va dal 476 d.C. (caduta dell’Impero Romano d’Occidente), al 1492 (scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo).
Il termine Medio Evo deriva dal latino “media aetas” o “media tempestas”. Per lungo tempo i dotti hanno considerato tale periodo come un’ epoca “buia”, priva di quegli ideali alti e luminosi tipici dell’Umanesimo e del Rinascimento. Bisognerà attendere l’Ottocento affinché l’atteggiamento degli studiosi cambi, e si inizi a considerare con attenzione i molteplici avvenimenti importanti che si susseguono a partire dalla caduta dell’Impero Romano fino all’inizio dell’epoca moderna.


Lungi da me propinarvi in questa sede una lezione di storia, sarebbe davvero troppo complesso e non opportuno, quello che posso invece fare è – per semplificare la questione- proporvi di richiamare alla mente immagini simboliche e, se vogliamo, stereotipate, di quei secoli, in modo da immedesimarci il più semplicemente e velocemente possibile in quel “guazzabuglio medievale”.
Vi invito dunque a pensare al capolavoro bergmaniano de “Il settimo sigillo” (1958), in cui il contrastato bianco e nero avvolge le melanconiche vicende dei personaggi, primo fra tutti Antonius Block (Max von Sydow), cavaliere di ritorno dalla Crociate, accompagnato dal fedele servo Jöns. Il film incarna con magistrale maestria la comune visione che si ha dell’epoca medievale: impregnata di religiosità opprimente, in cui la fede nella magia e nell’ultraterreno prendono il sopravvento sul raziocinio e in cui la violenza delle guerre si affianca alla povertà dilagante.
Iconiche e indimenticabili sono le emblematiche scene della processione dei guitti e dei flagellanti e quella finale, in cui le sagome dei protagonisti “danzano solenni allontanandosi dal chiarore dell’alba verso un altro mondo ignoto”. Ed ora che siamo pronti per proseguire, ormai pienamente contestualizzati in questi secoli lontani ma pur sempre affascinanti, prima di tutto occorre dimenticarci del concetto di teatro greco e latino. Con il crollo dell’Impero Romano l’antica istituzione teatrale viene surclassata da un’idea di teatro imprecisa e nebulosa e dai confini decisamente più labili rispetto all’antico. Rientrano infatti nel generale concetto di spettacolo teatrale svariati fenomeni, dai riti liturgici alle feste popolari, dall’esibizione di giullari e saltimbanchi, alle sacre rappresentazioni.
La memoria del teatro classico sopravvive grazie agli amanuensi, come testimonia la monaca Hroswita (935-973), la quale riporta che nei monasteri autori come Terenzio vengono ancora letti e trascritti, tuttavia si tratta appunto di semplici letture e non di rappresentazioni a tutti gli effetti.
In epoca medievale si parla di “teatralità diffusa”, espressione che si riferisce alla nascita e alla diffusione di diverse figure che differenziano i numerosi professionisti dello spettacolo, comunemente chiamati “histriones”. Accanto agli attori comuni, troviamo “joculatores”, “mimi”, “scurrae”, “menestriers” o “troubadours”; tra questi il ruolo più diffuso è sicuramente quello dello “joculator”, ossia “colui che si dedica al gioco”, ma lo “joculator” è anche – in senso lato- il chierico o il monaco incline al vagabondare, – il “gyrovagus”- che è senza fissa dimora e conseguentemente privo di un ruolo stabile all’interno della società.

La figura del teatrante, sia esso un “histrione” o un giullare, è da subito considerata negativamente, tant’è che la storia degli attori può considerarsi parimenti come la storia della loro condanna.
Certo, anche nell’antichità gli attori non godevano di particolari riconoscimenti, ma è proprio in epoca medievale che la situazione si inasprisce.
Se tra voi lettori vi è qualche disneyano convinto, avrà sicuramente presente, ne “Il gobbo di Notre Dame”, il disprezzo che prova il malvagio giudice Frollo nei confronti non solo del popolo gitano, ma degli umili parigini che partecipano alla “Festa dei Folli”. Il cartone del 1996 altro non fa che sottolineare quel lunghissimo conflitto che nasce proprio in epoca medioevale, tra il mondo ecclesiastico e i teatranti. Di tale dissidio oggi chiaramente non si percepisce più nulla, ma fateci caso: quanti tendoni viola avete visto ancora adesso all’interno dei teatri? (il viola è il colore dei paramenti liturgici usati in Quaresima). Per comprendere appieno questo contrasto è opportuno pensare alla rivoluzione culturale attuata dal Cristianesimo, i cui primi scrittori, gli apologisti, pur accogliendo la tecnica letteraria e la retorica della civiltà classica, rifiutano la società pagana e la sua concezione della vita. Della cultura classica in genere il teatro era considerato l’espressione più terrena e diabolica. I giullari e i teatranti sono visti come “instrumenta damnationis” e condannati senza pietà per le turpitudini a loro attribuite. Moltissimi sono i documenti che attestano le accuse mosse contro gli uomini di spettacolo, ma sono proprio tali condanne a essere le migliori fonti a cui attingere per studiare l’attività giullaresca di tale periodo.
Le motivazioni di biasimo sono riducibili a tre termini specifici: l’attore è “gyrovagus”, “turpis” e “vanus”. Con il primo termine si sottolinea il “porsi ai margini” e lo stare al di fuori dell’organizzazione sociale; in seconda istanza l’arte del giullare è priva di contenuto, cioè “vana”, ma ciò che è vano è mondano e ciò che è mondano è diabolico; infine, l’attore è “turpis”, perché è colui che stravolge (“torpet”) l’immagine naturale delle cose, intervenendo e modificando la natura, così come Dio l’ha creata, sublime e perfetta.

Tale condanna riguarda tutti i tipi di travestimenti, attività specifiche anche di altri contesti, quali la festa popolare e la grande festa carnevalesca.
Non di meno i giullari sono un elemento costante della vita quotidiana, come ben dimostrano le arti figurative: essi compaiono numerosi, raffigurati con sembianze animalesche e bestiali in particolar modo nei codici miniati e nei capitelli delle chiese. La figura del giullare è tuttavia molto complessa e ricopre diversi ruoli. Uno degli incarichi a lui affidabili, ad esempio, è quello di diffamare determinati individui, di qui la “satira contro il villano”, – il contadino è sempre il bersaglio più gettonato – particolarmente diffusa dall’anno Mille nelle “chouches” aristocratiche e borghesi. Egli è però anche un narratore, un cantastorie, autore sia delle amate “Chansons de geste”, sia di favolette o “fabliaux”, brevi storie in cui i protagonisti si muovono nella sfera del quotidiano, avvicinandosi alla “farsa”. L’acerrimo dissidio tra Chiesa e Teatro non si esaurisce nel solo svilire e condannare la figura dell’attore, vi è anche un altro aspetto da tenere in considerazione: il rito purificatore e spirituale che si contrappone alla festa mondana.
Il rito cattolico è in effetti ricco di elementi spettacolari e trova il suo culmine nella Santa Messa, in quanto rappresentazione simbolica di un avvenimento: “Fate questo in memoria di me”. Nell’assistere al rito, inoltre, il fedele non si limita alla mera contemplazione del mistero che lo trascende ma partecipa attivamente al rituale che lo coinvolge.
Rimanendo in ambito religioso, si diffonde nel Medioevo il “tropo”, una particolare cerimonia ottimamente esemplificata dal “Quem quaeritis?”, le cui battute sono tratte direttamente dai testi evangelici. In questo caso specifico la vicenda rappresentata descrive la visita delle pie donne al sepolcro di Gesù, esse lo trovano vuoto e subito assistono alla discesa di un angelo che annuncia loro l’avvenuta resurrezione.

Dal “tropo” si sviluppa il dramma liturgico, che può svolgersi in una piccola parte della chiesa o investirla totalmente, avvalendosi in questa circostanza di allestimenti scenici ben determinati e con precisi valori simbolici. Nel dramma liturgico troviamo per la prima volta l’idea della scena “simultanea”, caratteristica prima dei “misteri”. Si tratta di particolari sacre rappresentazioni allestite fuori dalle mura delle chiese e prive di connessioni con il cerimoniale liturgico ma dirette da chierici o preti, la rappresentazione era solitamente accompagnata da didascalie in latino, vero e proprio elemento che fa da “trait d’union” con il recinto sacrale. Uno dei “misteri” più tipici e apprezzati è lo “Jeu d’Adam” – spettacolo composto da un autore normanno, e particolarmente diffuso nel XII – secolo in cui per la prima volta vengono allestiti dei “luoghi deputati”, atti a rappresentare la globalità dell’Universo, costituito da Terra, Paradiso e Inferno.
I luoghi deputati, anche chiamati “mansiones” (case), sono costruzioni in legno e tela che delimitano zone circoscritte in cui avviene una determinata azione.
Tali spettacoli – dramma liturgico e “misteri”- vengono realizzati e allestiti da laici, ma appartengono nondimeno alle diverse forme di teatro cristiano, poiché il tutto è incentrato sulla visione, semplificata e drammatizzata, delle Sacre Scritture e della vita dei Santi, o in altre parole, sull’eterna lotta tra Bene e Male.
Vi sono poi i “grandi misteri”, che si svolgono in più giornate ma che non differiscono di molto dalle rappresentazioni più semplici.
Queste manifestazioni sono essenziali per il credente, poiché rappresentano e sintetizzano con semplicità tutto ciò che il buon cristiano deve sapere, la funzione culturale dei “misteri” non differisce poi molto da quella della “Biblia pauperum”, ossia la “Bibbia dei poveri”, una raccolta di immagini che rappresentano scene della vita di Gesù e le figure e le vicende dell’antica storia di Israele.

Siamo dunque arrivati al termine, vi ho grossomodo raccontato delle principali manifestazioni teatrali che fioriscono in epoca medioevale; esse nascono in quei secoli lontani ma perdurano nel tempo, soprattutto laddove gli spettacoli assumono cadenza annuale e finiscono per tramutarsi in ricorrenze tradizionali.
Sottolineo ancora che gli spettacoli religiosi non sono altro che il rovescio cristiano degli antichi riti carnevaleschi e pagani della fecondità, tanto che a volte si fondono con essi.
Ancora una volta spero di avervi invogliato ad approfondire l’argomento, magari cercando qualche festività o ricorrenza tradizionale a cui partecipare. Il teatro ha molti volti, dall’aspetto tradizionale dello spettacolo in prosa fino alla festa popolare, tale sua peculiare natura ci offre l’opportunità di scegliere quale tipologia di stupore vogliamo vivere, qualcosa di più intimo o un’esperienza condivisa con la comunità, sta a noi decidere che maschera indossare.

Alessia Cagnotto

La ragazza dei lupi

La mia vita selvaggia fra i lupi italiani

Molto interessante il saggio di Mia Canestrini, giovane ‘lupologa’ italiana, sia per professione, che per indole personale.

In un non lunghissimo testo, con il tratto veloce e conciso di chi sa comunicare, c’è tutto sulla sua vita, il contatto con la natura e un’infanzia passata in un paradiso ambientale come l’appennino tosco-emiliano.

E’ un’esistenza già segnata dalla sua infanzia, anni verdi con le orecchie già accarezzate da storie di lupi, avvistamenti, pericoli, leggende, paura e fascinazione. Si tratta di tratti ancora infantili e in seguito adolescenziali, che tracceranno però solchi profondi sulla sua vita di adulta.

Nel volume c’è infatti molto sulla vita di una ragazza intelligente, avventurosa, colta e capace, quanto della realtà di un animale immaginifico come il lupo, da sempre lontano e vicino di vita con noi umani, con le sue realtà e le fantasie sulla sua supposta ferocia.

Iscritta alla facoltà di Scienze Naturali e poi specializzata in Conservazione della biodiversità animale, Mia passa oltre dieci anni principalmente nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-emiliano con il ruolo di Tecnico per i progetti LIFE dell’Unione Europea, la salvaguardia dei lupi e loro coesistenza con le persone che vivono su alpi e appennini.

Con il coinvolgimento emotivo di un romanzo, viene tracciata la sua vita operativa in mezzo a boschi e montagne, seguendo gli spostamenti dei branchi, ricercando resti escrementizi dei lupi da gestire in laboratori attrezzati per mapparne alimentazione, età e malattie; e poi cuccioli da salvare, adulti da curare, verifiche sui danni da predazione.

Con minuziosità, il libro della Canestrini pubblica foto sulle tante fototrappole posizionate sui passaggi di esemplari solitari e branchi, commentando gli appostamenti di volontari e del personale addetto, gli incontri con pastori (spesso vittime economiche delle predazioni) e le operazioni congiunte con i Carabinieri Verdi, verifiche sui resti di razzie su animali domestici, in un ritmo di scrittura affascinante e per niente cattedratico.

Questo libro interessa poi un pubblico non solo residente nei luoghi citati dal libro. Infatti i branchi, inizialmente partiti da est, oltre che scendere sull’appennino, si sono moltiplicati e spostati – lentamente ma progressivamente – verso occidente, arrivando in Val di Susa, Chisone, e la vicina Francia alpina.

Il lupo assurge sempre di più, perciò, a presenza nuovamente globale.

Dietro questi dati statistici, soggiace inoltre la parte più filosofica e archetipica della figura di questo meraviglioso animale (per l’autrice, di un sacro valore esistenziale), da noi temuto, spesso amato, sempre rispettato.

Sono, queste, pagine fitte di incontri e collaborazioni entusiasmanti con le tante persone che hanno interagito con l’autrice per lunghi anni, fino a che .. come in una moderna fiaba, i lupi le hanno fatto trovare l’amore.

FERRUCCIO CAPRA QUARELLI

Mia Canestrini, LA RAGAZZA DEI LUPI, La mia vita selvaggia tra i lupi italiani, Piemme editore, 220 pagine

Ozmo per i 2050 anni di Aosta

In occasione del 2050° anniversario della fondazione di Aosta, il pioniere della street art italiana ha ideato una serie di opere murali che traducono in linguaggio contemporaneo la complessità storica, archeologica, geografica e culturale della città.

 

Il primo lavoro, dipinto sulla parete della Scuola Primaria “Giovanni Pezzoli”, avrà come soggetto la figura di Giano Bifronte, divinità tra le più antiche del culto pubblico romano.

Martedì 2 settembre alle ore 14.30, il contesto urbano di Aosta accoglie una operazione artistica di grande profilo.

 

Ozmo, pseudonimo di Gionata Gesi (Pontedera, PI, 1975) pioniere della street art italiana, artista conosciuto e apprezzato a livello internazionale, ha ideato una serie di opere murali, capaci di tradurre in linguaggio contemporaneo la complessità storica, geografica e culturale della città, che saranno ospitate sulle pareti di alcuni edifici particolarmente significativi, all’interno del tessuto cittadino di Aosta.

 

L’iniziativa, promossa e sostenuta dal Comune di Aosta, s’inserisce nel novero delle manifestazioni di AOSTAE 2025, il palinsesto di eventi organizzato per celebrare il 2050° anniversario della fondazione del capoluogo aostano.

 

Per la prima volta in Italia, un tale progetto è stato affidato a un unico artista che per l’occasione ha creato un itinerario di murali, inizialmente limitato a due pareti, ma che si svilupperà in un futuro prossimo in altri spazi, con lavori che dialogano con il patrimonio identitario di Aosta: il paesaggio alpino (natura), la memoria di epoca preistorica (passato), la condizione di frontiera (identità).

 

L’operazione non è quindi un murale monumentale isolato, ma una regia diffusa che invita lo spettatore a ricomporre i frammenti in un racconto unitario. Ogni parete, pensata in una sorta di proiezione maieutica, non introduce un messaggio esterno, ma fa emergere ciò che già esiste in forma latente nel paesaggio urbano e nella comunità che lo abita.

 

“Nell’anno delle celebrazioni per i 2050 anni della nostra città, Aosta si specchia svelando un suo volto antico e nuovo, trasformando muri in portali nei quali ci immergiamo scoprendo storie che parlano di noi – sottolinea Samuele Tedesco, assessore alla cultura e alle politiche giovanili del Comune di Aosta. Gli interventi di Ozmo, artista internazionale, ci dimostrano che Aosta in questi anni ha saputo rinnovarsi senza paura nei suoi linguaggi e nelle sue forme, senza nostalgia, ma con profondo coraggio. Il Giano, Dio dei Passaggi, diventa dunque un monito per ribadire che le soglie non servono per restare fermi, ma per andare oltre e proseguire nel cammino, nella scoperta di nuove visioni”.

 

“Questo progetto murale – afferma Ozmo – si sviluppa in alcuni luoghi distinti della città, che corrispondono a soglie simboliche che riportano a macrotemi come la natura, l’origine e la storia della città e la sua identità”.

 

Il primo murale è collocato sulla parete della Scuola Primaria “Giovanni Pezzoli” (via Parigi 137), il cui edificio si affaccia direttamente sulla Strada Statale 26, che ripercorre il tracciato della Via delle Gallie romana, segnando un confine simbolico tra Aosta antica – con Porta Praetoria, il criptoportico e l’assetto urbano romano – e la città moderna che si sviluppa lungo nuovi assi e infrastrutture.

 

Il soggetto del murale è la figura di Giano Bifronte, divinità tra le più antiche del culto pubblico romano, solitamente riprodotto come un busto con due volti che osservano in direzioni opposte.

 

Il Giano di Ozmo volge lo sguardo verso la viabilità e verso il complesso scolastico, a significare quanto la figura mitologica non si presenti solo come nume della strada, ma anche iniziatore e protettore del percorso formativo individuale. Giano diventa così una figura di sintesi tra stratificazione urbana e formazione personale, tra infrastruttura antica e individuo in costante divenire.

 

Il secondo sarà posto sul muro della Scuola Cerlogne, in corso Saint Martin de Corléans, nelle vicinanze di una delle più antiche testimonianze simbolico-spirituali d’Europa, ovvero l’area megalitica di Aosta che conserva la stele antropomorfa risalente al terzo millennio a.C., esposta in permanenza al MegaMuseo – Museo Archeologico Contemporaneo, che sorge proprio di fronte al complesso didattico.

 

Proprio questa stele, che si presenterà con una veste che ricorda un personaggio dei fumetti, diventerà ponte tra le varie epoche, lasciando emergere echi di un passato remoto, con trame capaci di connettere i bambini di oggi con le radici preistoriche della città.

Una vita in prima linea: la storia di Ada Gobetti

Torino e le sue donne

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

 

Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Emmeline Pankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan.  Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.  

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8. Una vita in prima linea: la storia di Ada Gobetti

Dopo l’annuncio dell’armistizio, l’ 8 settembre 1943, le donne aprono le porte delle loro abitazioni ai soldati allo sbando, stravolti dal conflitto bellico. È il primo atto di resistenza femminile. Secondo i dati ufficiali dell’epoca, le donne partigiane sono state 35mila e le stime successive arrivano a contarne almeno 2 milioni. Eppure le partigiane non sfilano nei cortei insieme agli uomini, le foto mentre imbracciano i fucili per molto tempo rimangono nascoste, così come il loro coraggioso operato. È una strana contrapposizione di pensiero immaginare sul campo uomini e donne sulla stessa linea, spalla a spalla, e veder riconosciuto il valore più degli uni che delle altre, eppure, alla fine, al di sopra di ogni cosa valgono le azioni, l’unico modo che l’essere umano ha per dimostrare quanto vale. Ada Gobetti ha agito e combattuto tutta la vita e nessuno potrà mai mettere in ombra il suo mirabile e costante impegno. Ada Gobetti nasce a Torino il 23 luglio del 1902, da un commerciante di frutta svizzero originario della Valle di Blennio e da una casalinga torinese. Brillante studentessa al liceo classico Vincenzo Gioberti di Torino, collabora attivamente alle riviste “Energie nove”, “la Rivoluzione liberale” e “il Baretti” di Piero Gobetti. Con quest’ultimo si sposerà nel 1923 e da lui avrà nel 1925 il figlio Paolo. In quegli anni con Piero, Ada è testimone delle rivolte operaie del biennio rosso torinese, alle quali guardano entrambi con vivo interesse e per cui esprimono fin da subito una appassionata solidarietà. Nel 1925 Ada si laurea in Filosofia e in seguito si dedica all’insegnamento, continuando ad approfondire studi letterari e pedagogici. Nello stesso anno la rivoluzione liberale viene soppressa dal regime mussoliniano. Nel 1926 Piero Gobetti è costretto a emigrare a Parigi, dove morirà nel febbraio dello stesso anno, in un ospedale di Neuilly sur-Seine, a causa di problemi di salute aggravati da una violenta aggressione squadrista, che aveva subito due anni prima a Torino, mentre usciva dalla sua abitazione, che era anche sede della sua casa editrice. Di grande esacerbato dolore le parole vergate da Ada sul suo diario per la morte del marito: «Non è vero, non è vero: tu ritornerai. Non so quando, non importa, non importa. Ritornerai e il tuo piccolo ti correrà incontro e tu lo solleverai tra le tue braccia. E io ti stringerò forte forte e non ti lascerò più partire, mai più. È un vano sogno, tutto questo, una prova di fronte a cui hai voluto pormi: tu mi vedi, mi senti: e io saprò mostrarmi degna del tuo amore. Quando ti parrà che la prova sia durata abbastanza, tornerai per non più lasciarmi. Saranno passati molti anni ma immutati splenderanno i tuoi occhi e ritroverò le espressioni di tenerezza della tua voce. Mio caro, mio piccolo mio amore, ti aspetterò sempre: ho bisogno di attenderti per vivere». 

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Nel 1928 Ada vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese, insegna per alcuni anni a Bra e a Savigliano. Dal 1936 è docente presso il ginnasio del Liceo Cesare Balbo di Chieri (TO). In quegli anni rafforza la propria amicizia con Benedetto Croce, che la sprona a proseguire gli studi e a compiere le prime traduzioni dall’inglese, con le quali introdurrà in Italia gli scritti di Benjamin Spock. Negli anni precedenti l’8 settembre 1943, la casa di Ada Gobetti costituisce un punto di riferimento per l’antifascismo intellettuale e per gli ambienti legati al movimento Giustizia e Libertà. Nel 1937 si risposa con Ettore Marchesini, tecnico dell’ EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche). Ada continua ad essere una donna forte e decisa, politicamente attiva e schierata; nel 1942 è tra le fondatrici del Partito d’Azione (PdA), mentre nel 1943, durante la Resistenza, coordina le Brigate Partigiane e fa la staffetta in Val Germanasca e in Val di Susa, dove è attivo il figlio Paolo. Mai stanca di battersi anche su più fronti, nel 1943 è fondatrice dei Gruppi di Difesa della Donna e si prodiga per la nascita del Movimento Femminile. Terminata la guerra, il suo coraggio viene formalmente riconosciuto e viene insignita della medaglia d’argento al valore militare. Dopo la Liberazione è la prima donna a venire nominata vicesindaco di Torino, designata dal CLN, (Comitato di Liberazione Nazionale), in rappresentanza del PdA. Ricopre la carica sino alle elezioni del 1946, interessandosi e occupandosi particolarmente di istruzione e assistenza. Negli anni Cinquanta scrive su molte testate comuniste, tra cui l’Unità, sempre negli stessi anni affianca al costante impegno letterario l’interesse per la pedagogia e nel 1955 entra nella redazione di “Riforma della Scuola”. Nel 1957 fa parte della prima delegazione femminile italiana nella Repubblica Popolare Cinese. Nel 1959 fonda e dirige la rivista “Il giornale dei genitori” a cui collabora, tra gli altri, Gianni Rodari. Dopo una lunga vita avventurosa e dai molteplici interessi politici e culturali, Ada Gobetti muore il 14 marzo del 1968 nella sua casa nella frazione torinese di Reaglie È sepolta nel cimitero di Sassi a Torino, città per cui si è sempre impegnata, che ha tanto amato e che, di rimando, la ringrazia, proteggendola nel suo grembo di terra.

 

Alessia Cagnotto

Carlo Marrale e Silvia Mezzanotte a Caramagna Piemonte il 26 Settembre con le hit dei Matia Bazar

Alle porte di Torino alla Tenuta ‘Lago dei Salici’ l’evento musicale per festeggiare i 50 anni di ‘Stasera che sera’. Prevendite aperte su www.ticket.it.

Silvia Mezzanotte e Carlo Marrale puntano sulla Provincia Granda al confine con Torino per celebrare un anniversario degno di nota in ogni senso: culturale e musicale insieme. 

I due celebri e stimati artisti – ex Matia Bazar entrambi, e fra i volti più iconici e riconoscibili della storia della band ligure – festeggiano infatti, con un tour-evento nazionale che partirà venerdì 26 settembre alle ore 21.30 dalla Tenuta ‘Lago dei Salici’ di Caramagna Piemonte, proprio i 50 anni di ‘Stasera che sera’, primo grande successo internazionale del famosissimo complesso musicale (mezzo secolo di vita anch’esso quest’anno esatto) che in passato li ha visti grandi protagonisti entrambi in due formazioni diverse. 

Carlo Marrale dal 1975 al 1993, fondatore della prima ora e coautore di tutte le maggiori hit del gruppo, ex chitarrista ed ex storica voce maschile, ha vinto con loro Sanremo nel 1978 con ‘E dirsi ciao’. 

Silvia Mezzanotte, invece, entrata nella band nel 1999 dopo Laura Valente (moglie di Pino Mango) e rimasta a fasi alterne fino al 2016, è salita con i Matia ben 4 volte in gara all’Ariston (vincendo un primo e un terzo posto). Indistintamente con Antonella Ruggiero, l’altra voce storica del gruppo, la sola con lei ad averli riportati sul podio del ‘Festival della Canzone Italiana’ nel 2002 con ‘Messaggio d’amore’, hit firmata da Piero Cassano e Giancarlo Golzi (che scelse proprio Silvia come solista della band, e cui era legatissimo da un rapporto umano e professionale di vera fratellanza). 

Carlo Marrale e Silvia Mezzanotte saranno accompagnati sul palco da una strepitosa band di ottimi musicisti e hanno puntato sull’incanto della location ‘Lago dei Salici’ di Caramagna Piemonte per il debutto nazionale della loro nuova tournée insieme che toccherà i maggiori teatri italiani (21/11 Montecatini, 11 Gennaio Marano di Napoli, 16 Gennaio Foggia e via dicendo): ma solo dopo aver inaugurato il 26 settembre sera con la loro musica senza tempo l’inedita ‘Area Concerti’ da 1.200 posti, realizzata in occasione del 30° anniversario dell’event center per matrimoni fondato nel 1995 dalla coppia di imprenditori saviglianesi Domenico Pautassi e Giovanni Riggio.

“Cuneo è una provincia meravigliosa, in cui sono venuta più volte in concerto in passato sia come solista che come Matia Bazar, ai tempi della mia militanza nella band. Lo stesso vale per Torino. Con Carlo Marrale, fondatore e pietra miliare del gruppo e ora anche mio compagno di viaggio, ci siamo ritrovati spontaneamente nel 2019 come se cantassimo insieme da sempre. E sono davvero onorata e altrettanto entusiasta di poter raccontare per mia parte al suo fianco la storia meravigliosa che ha contribuito a scrivere in prima persona quale coautore di tutti i maggiori successi dei Matia Bazar”, spiega Silvia Mezzanotte. 

A condurre e introdurre la serata Maurizio Scandurra, giornalista e opinionista de ‘La Zanzara’ di ‘Radio24’, e Giovanni Riggio, il frizzante ‘Capitano’ del ‘Lago dei Salici’ pronti insieme a regalare momenti di intrattenimento e simpatia al grande pubblico.

Prevendite già aperte e biglietti disponibili esclusivamente sul sito www.ticket.it. Possibilità di abbinare la cena in location prima del concerto, durante il quale sarà attivo anche il servizio bar.

Informazioni allo 0172 89236, o su Whatsapp al numero 392 0653237. 

Lo spettacolo si terrà comunque anche in caso di pioggia.

La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?

Oltre Torino. Storie, miti, leggende del torinese dimenticato.

Torino e lacqua

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce.

Il fil rouge di questa serie di articoli su Torino vuole essere lacqua. Lacqua in tutte le sue accezioni e con i suoi significati altri, lacqua come elemento essenziale per la sopravvivenza delpianeta e di tutto lecosistema ma anche come simbolo di purificazione e come immagine magico-esoterica.

1. Torino e i suoi fiumi

2. La Fontana dei Dodici Mesi tra mito e storia

3. La Fontana Angelica tra bellezza e magia

4. La Fontana dellAiuola Balbo e il Risorgimento

5. La Fontana Nereide e lantichità ritrovata

6. La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?

7. La Fontana Luminosa di Italia 61 in ricordo dellUnità dItalia

8. La Fontana del Parco della Tesoriera e il suo fantasma

9. La Fontana Igloo: Mario Merz interpreta lacqua

10. Il Toret  piccolo, verde simbolo di Torino

6. La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?

Alla fine della classica vasca in centro, dopo essere riemersi dal bagno di folla di via Garibaldi, si arriva in uno dei luoghi piùdiscussi di Torino: Piazza Statuto.

Questa è una delle piazze più conosciute della città, lultima delle grandi aree risalenti al  periodo risorgimentale della capitale sabauda, ed è caratterizzata da eleganti portici che la percorrono lungo tutto il perimetro.

Ha una forma allungata e da essa si dipartono molte strade: via Luigi Cibrario, via San Donato, corso Francia, (che in epoca romana era il tratto iniziale della strada per le Gallie), e via Garibaldi, antico decumanus maximus  della colonia romana Julia Augusta Taurinorum, già conosciuta come via Dora Grossa.

Al tempo degli antichi romani tutta la parte occidentale del castrum del quadrilatero romano veniva usata come necropoli e molto probabilmente  anche come luogo di esecuzioni.

Allinterno della piazza, dedicato allimponente lavoro del traforo del Cenisio-Frejus, vi è il monumento realizzato da Luigi  Bellinel 1879 e solennemente inaugurato  il 26 ottobre dello stesso anno. Sullalta piramide sono poste grosse pietre provenienti dagli scavi del traforo, sulle quali si posano corpi di titani abbattuti in marmo chiaro e, proprio sulla sommità, il genio alato della scienza, con una stella a cinque punte sulla fronte, poi rimossa nel 2013. Lopera è unallegoria del trionfo della ragione sulla forza bruta, riflesso dello spirito positivista dellepoca in cui fu realizzato. Tuttavia nella tradizione popolare a questo significato originario se ne sovrappone un altro, quello secondo cui il monumento celebrerebbe  le sofferenze patite dai minatori per realizzare lopera.

Non è solo per la bellezza architettonica però che Piazza Statuto è ricercata, soprattutto dagli appassionati di magia e mistero, infatti, nel contesto delle leggende esoteriche, essa è nota come uno dei vertici del triangolo della magia nera. Lepicentro dellenergia maligna sarebbe individuato proprio là dove si erge il monumento al traforo, alla sommità del quale, per alcuni, non si troverebbe langelo della scienza, ma Lucifero in persona. Secondo altre ipotesi, invece, lepicentro coinciderebbe con lastrolabio del piccolo obelisco poco distante. In realtà lobelisco fu eretto nel 1808 su un punto geodetico, in ricordo di un calcolo trigonometrico del 1760 sulla lunghezza di una porzione di meridiano terrestre (il gradus taurinensis), eseguito insieme ad altri punti geografici nei comuni piemontesi di Rivoli, Andrate e Mondovì.

Il Diavolo quindi terrebbe le ali spiegate proprio sul vertice del triangolo nero, collegando Torino con Londra e San Francisco, due città altrettanto ricche di misteri e anche scenari di delitti efferati. La leggenda che vede collegate queste tre città è una delle più conosciute al mondo, eppure tra tutti i luoghi chiamati in causa, Torino rimane quello più interessante, in quanto unica cittàad essere divisa a metà: il capoluogo è infatti anche vertice del così detto triangolo bianco, che si formerebbe con Praga e Lione. Non crea meraviglia tra gli appassionati del settore che proprio qui siano venuti in visita personaggi come Nostradamus, Fulcanelli, e Paracelso e non sorprende unaltra delle numerosissime leggende, secondo cui tutti coloro che hanno poteri occulti e divinatori debbano recarsi a Torino per omaggiare il Grande Vecchio, personaggio assai misterioso che risiederebbe tra le colline torinesi.

Al centro della piazza, presso la fontana, vi è laccesso che conduce al sistema fognario, che qui ha il suo snodo principale. Anche questo preciso elemento favorì il crearsi di leggende e credenze che vogliono la piazza come fulcro della magia nera e come altra ipotesi per quel che riguarda lampio discorso sulle tre presunte grotte alchemiche che sarebbero presenti in città

Impossibile dunque rimanere indifferenti davanti alle infinite suggestioni di una città bellissima, malinconica e romantica, ricca di arte e di cultura, ma anche di misteri. 

È così che si passeggia per questa città, sempre sospesi tra luce e ombra, sempre distratti, mentre magari qualcuno ci osserva, tra la folla, da sotto le fognature oppure dallalto, con le ali spiegate e un sorriso ermetico scolpito sul volto.

 

Alessia Cagnotto

Preparatevi: “JUKEBOX – LA NOTTE DELLE HIT” sta per arrivare!

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Grande attesa per le due serate evento, che diventeranno spettacolo televisivo, con Antonella Clerici e la partecipazione di Clementino all’“Inalpi Arena”

Biglietti già in vendita / 12 e 13 settembre

Sarà grande musica. Musica “senza tempo”. Protagonisti nomi alti alti, che sono ormai “leggende” della scena musicale internazionale. A condurre i giochi sul grande palco della torinese “Inalpi Arena” (corso Sebastopoli, 123), sarà (anche lei “leggenda”) Antonella Clerici, uno dei volti più noti ed amati della televisione italiana, con la partecipazione di Clementino, rapper e attore avellinese, al secolo Clemente Maccaro, classe 1982. I due (ottima accoppiata!) accompagneranno il pubblico, che si presume accorrerà numeroso, in un viaggio sonoro lungo quarant’anni, attraverso la riproposta di “hit” iconiche in uno spettacolo live, destinato a trasformarsi in un “evento televisivo” che andrà in onda, in autunno e in prima serata, su “Rai 1”. L’appuntamento con le registrazioni, sotto la Mole, è in programma per due serate straordinarie che si terranno all’“Inalpi”, venerdì 12 e sabato 13 settembrea partire dalle 21.

Attenzione! I biglietti per assistere alle due serate sono già disponibili su “Ticketone” e presso tutti i punti vendita autorizzati.

“JUKEBOX – LA NOTTE DELLE HIT” sarà un lungo viaggio, proposto tra fantasia e realtà (memorie e spazi non negati all’attualità) nella “storia della musica”, dagli anni ’70 ai Duemila, con la presenza degli interpreti originali di brani che hanno fatto cantare, ballare e sognare intere generazioni. Il progetto, davvero imponente e prodotto da “A1 Pictures”, riuscirà certamente a mettere insieme la spettacolarità del “live” con la rispettosa “eleganza” della grande televisione, annunciandosi come uno dei titoli di punta della stagione autunnale “Rai”.

Soul, rock, pop, dance, flamenco e cantautorato saranno gli ingredienti – base di un concertone che vedrà alternarsi sul palco oltre venti “leggende” della musica impegnate in un repertorio senza tempo che, per due indimenticabili serate, farà da suggestivo collante a un pubblico d’ogni età che potrà ritrovare o (perche no?) scoprire, imprevedibilmente e a distanza di anni, la colonna sonora della propria vita, attraverso le voci autentiche e carismatiche che hanno segnato la Storia (con la “S” maiuscola) della musica italiana e internazionale. “Ogni artista – dicono gli organizzatori – porterà sul palco la propria essenza musicale, creando una colonna sonora corale e intergenerazionale, capace di emozionare e coinvolgere il pubblico di tutte le età. Sarà una vera e propria festa della musica dal vivo, un evento che promette di diventare un classico della programmazione televisiva nazionale”.

Annunciato ai “Palinsesti Rai” del 27 giugno a Napoli, l’evento è stato seguito dalla presentazione ufficiale della “line-up” degli artisti divisi per serata che calcheranno il palco, secondo un ordine che vedrà alternarsi, venerdì 12 settembre, i nomi di 11 artisti: da Anastacia con la sua voce potente e i suoi successi planetari ai “Gipsy Kings di Diego Baliardo (maestro del “flamenco pop”), all’americano Michael Sembello (leggendario interprete di “Maniac”, colonna sonora cult di “Flashdance”), fino alla band svedese degli “Alcazar” e alle milanesi “Vibrazioni” (con il loro “Dedicato a te”), per continuare con il “pop” raffinato degli “Zero Assoluto”, con Alexia (regina della “dance” anni ’90), il carismatico Leee John (voce degli “Imagination”) e per finire con Marco Ferradini (e il suo “Teorema”) e l’intramontabile voce dura e graffiante dell’inossidabile Fausto Leali.

Sabato 13 settembre, saranno invece 12 gli artisti a esibirsi. Si comincia con gli “Earth, Wind & Fire Experience” di Al McKayspecial guest Greg Moore; a seguire il britannico Cutting CrewAndreas Johnson (con il successo internazionale di “Glorious”), “Jenny from Ace base” (voce storica della band svedese), via via fino ai “Former Ladies of The Supremes” (eredi degli storici “Motown”), ai “Boney M. – Maizie Williams” (autentico fenomeno “disco-pop” degli anni ’70 e ’80), ai nostri “Gemelli Diversi” (icona del “pop-rap” italiano), all’irriverente eternamente iconica Rettore, ai “Nomadi” (carichi di sessant’anni di carriera), per finire con Ryan Paris (Fabio Roscioli) e la sua “Dolce vita”“Le Orme” anche loro band senza tempo, e quel Johnson Righeira (Stefano Righi) vero baluardo dell’“Italo-disco” con brani immortali come “Vamos a la playa”“L’estate sta finendo” “No tengo dinero”.

Due serate indimenticabili e, si spera, anche turisticamente fruttuose per la città. Di certo, le premesse ci sono tutte. E la Torino “bugia nen” saprà sicuramente metterci del “suo” nel fare, come si deve, la sua parte. E la sua bella figura.

g.m.

Nelle foto: Antonella Clerici da sola e con Clementino

L’ascesa musicale attraversata dai Beatles di Gianfranco Raffaldi

Dai Blue Star a Fausto Leali, da Peppino di Capri al San Bartolomeo Gospel Choir 

La documentazione fotografica della carriera a completamento dell’articolo pubblicato il 18-9-2021
Immagine storica dei favolosi anni ’60 con i Blue Star, primo gruppo del 1957 di Raffaldi (*1-1-1942 Fiume) al pianoforte con Emilio Evangelisti alla tromba, Zeno alla fisarmonica, Gianni Lepore al clarinetto, Ezio Cornalea alla batteria e al canto Wally Sirio.
Nel 1959 nasceva il gruppo dei Novelty con la collaborazione del fisarmonicista Giuseppe Cacciabue, educatore musicale e componente dell’Eiar di Torino, oggi Rai. Nel gruppo, rifondato nello stesso anno, si inseriva Fausto Denis, in arte Leali. Il lancio avvenne nel 1962 al Principe di Piemonte di Viareggio e nel 1964 parteciparono al mitico cantagiro di Ezio Radaelli presentato da Pippo Baudo.
Nel 1965 a Milano presentarono la  canzone “A chi” con il giornalista Giovanni Negri della Rizzoli e Iva Zanicchi. In quell’occasione venne presentato il libro “Dante e il suo secolo” di Indro Montanelli. Nel giugno dello stesso anno la grande occasione, furono scelti come supporters dei Beatles, unico tour in Italia. I concerti furono eseguiti il 24 al Velodromo Vigorelli di Milano, il 26 al palazzo dello sport di Genova, il 27-28 al teatro Adriano di Roma purtroppo snobbati dalla Rai.
Nel 1966 parteciparono al “Giro Festival” al seguito del 49° Giro d’Italia e furono ospiti della famosa trasmissione “Bandiera Gialla” di Arbore e Boncompagni. Nel 1967 ricevettero il primo disco d’oro per la canzone “A chi” sulla terrazza Martini di Milano e facevano parte del Clan Celentano Center. Nel 1968 furono ingaggiati da Peppo Vannini al Covo di nord est di S. Margherita Ligure, con il tutto esaurito in ogni serata. In quell’anno Leali lasciò i Novelty e Raffaldi entrò nel gruppo New Rockers di Peppino di Capri.
Partecipò alle tournée in Europa e negli Usa, dove si esibirono al Metropolitan di New York poi in Canada, Australia, Emirati Arabi, Venezuela e Brasile, ospitati dal musicista Roberto Carlos.
Nel 1977 Raffaldi rientrò a Vignale per motivi personali, dove attualmente risiede. Iniziò ad accompagnare con la tastiera il coro parrocchiale durante le funzioni religiose. Nel 2004 la grande idea, prese le redini del San Bartolomeo Gospel Choir eseguendo musica sacra e profana, proseguendo l’opera della fondatrice Millina Martinelli. Oggi l’ensemble esegue brani di gospel, funky, soul e blues a quattro voci, accompagnati da Andrea Rogato alle tastiere, Gigi Andreone al basso, Alberto Sempio alla chitarra e da Renato Tassiello alla batteria. Il recente tour natalizio ha visto il gruppo esibirsi a Cella Monte, Altavilla, Giarole, San Giorgio (Al), a Galliate (No), alle Torbiere di Franciacorta (BS) e a Portofino (Ge).
Armano Luigi Gozzano