CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 16

La voce di Karima a Torre Pellice

Sabato 12 ottobre alle 21, il tempio valdese di Torre Pellice ha ospitato la performance di una giovane artista vocale. Parliamo di Karima, artista livornese che è nota al grande pubblico dal 2006, sin dalle prime esperienze televisive (“Bravo Bravissimo”, “Domenica in” e “Amici”). Dopo aver partecipato al Festival di Sanremo nel 2009, ha collaborato con Burt Bacharach e si è esibita più volte in Cina.

Interprete di musical e jazzista, ha lavorato per musicisti quali Riccardo Fioravanti, Dado Moroni e Stefano Bagnoli. A Torre Pellice ha interpretato sia brani del suo repertorio storico sia canzoni di Whitney Houston, negli arrangiamenti di Piero Frassi che l’ha accompagnata al pianoforte.

Julien Coggiola

La marchesa Beatrice Bergera Gozzani. Da Chieri a Casale Monferrato

 

 
Genealogia di un territorio e il canto 
popolare di Cavoretto 
Le proprietà della nobildonna torinese residente nel palazzo Gozzani San Giorgio di Casale Monferrato furono molto ambite e oggetto di svariate controversie e cause civili tra l’avvicendamento dei successori e le comunità di Asti e Villanova d’Asti (vassalla di Dusino) per la giurisdizione del territorio del Ducato di Savoia e Principato di Piemonte. Il feudo di Cly nel comitato di Aosta risalente al XII° secolo che comprendeva Verrayes, Dièmoz, Saint-Denis, Chambave, Torgnon e tutta la Valtournenche apparteneva alla famiglia Bosoni Challant visconti di Aosta, signori di Cly e Châtillon. Pietro, ultimo esponente Challant, ereditò il feudo dal padre Bonifacio ma il conte verde Amedeo IV° di Savoia confiscò i suoi beni per fellonia nel 1376, privandolo del titolo a causa della collera, prepotenza e tirannia verso i sudditi. Il conte, visto l’atteggiamento nei suoi confronti, cedette per transazione allo Challant il feudo di Chatel Saint-Denis nel 1384, amministrato dai suoi castellani fino al 1500, in cambio del mandamento di Cly assunto dai signori di Vernier. Il feudo di Cly fu venduto dal duca Carlo III° di Savoia, il despota illuminato, a Cesareo Cristoforo Morales nel 1550, capitano delle truppe spagnole in guerra contro i francesi ed in seguito confinato a Lipari per tradimento.
Il duca Emanuele Filiberto di Savoia lo vendette con beneficio di riscatto al suo segretario di Stato Giovanni Fabbri di Aosta nel 1562, baroni di Cly fino al 1637. Il marchese di Caselle Pietro Filiberto Roncas ereditò la proprietà nel 1638 trasferendo i resti delle vecchie mura del castello di Cly segnandone l’inevitabile declino per edificare il proprio palazzo con torre a scalare. Il feudo fu ereditato dal barone Giacomo Francesco Antonio Bergera nel 1735, marito di Giovanna Margherita dei conti Possavino di Chieri, conti di Brassicarda dal 1580 e baroni di Cly. Beatrice Teresa Bergera marchesa di San Giorgio Monferrato, contessa di Cly e Brassicarda fu infeudata dei territori nel 1778 con il marito Giovanni Battista Gozzani marchese di San Giorgio, Perletto e Pontestura, detto il marchese d’Olmo Gentile che edificarono i palazzi San Giorgio di Casale e Torino. I feudi furono ereditati da Carlo Antonio Gozzani e da Sofia Doria di Ciriè, immortalati nei ritratti casalesi di Vittorio Amedeo Grassi di Agliè, pittore ufficiale di Corte a Torino e nel 1816 da Carlo Giovanni Gozzani, cresciuto sotto tutela della zia Clara Gozzani contessa di San Giorgio.
Il groviglio feudale si concluse con Evasio Gozzani detto il cavaliere di Brassicarda (Roma 1838-Pisa 1913) nipote del più famoso Evasio detto il marchese pazzo, amministratore del principe Camillo Borghese e di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone. Da ricordare il vescovo di Torino Giulio Cesare Bergera (1593-1660) dei conti di Beinasco, Piobesi e consignori di Villarbasse e Cavallerleone che ingrandì la chiesa di Chieri. La bergera è anche un canto arcaico dal testo pastorale amoroso in  dialetto piemontese originario della collina di Cavoretto, elaborato secondo la lirica da camera tedesca senza stravolgere la forma da Leone Sinigaglia, compositore torinese dell’alta borghesia ebraica perseguitato dal nazifascismo. Trasferitosi a Vienna incontrò Brahms, Mahler e a Praga conobbe Dvorák, da cui ereditò l’interesse per il canto popolare, raccogliendo oltre 500 melodie  quasi scomparse. Il brano fa parte del repertorio del Casale Coro diretto dal maestro Giulio Castagnoli. Per ricordarlo è stata posta una pietra d’inciampo davanti al Conservatorio di Torino dove fu direttore del liceo musicale e Chivasso gli ha intitolato un istituto musicale comunale.
Armano Luigi Gozzano

“Grazie di tutto” di Ornella Florio, un viaggio nelle profondità dell’animo umano

Torino tra le righe

Proseguiamo il nostro viaggio nel panorama letterario torinese con Grazie di tutto, un romanzo di tematica psicologica scritto dall’autrice chierese Ornella Florio. Laureata in Lettere Classiche presso l’Università di Torino, Florio ha insegnato greco e latino nei licei, per poi cambiare percorso professionale, mettendo la famiglia al primo posto. Attualmente lavora come dipendente comunale, dove promuove progetti di lettura in biblioteca, ma continua a coltivare la scrittura, una passione che l’accompagna da sempre.
A due anni dal suo esordio con Il sapore buono della speranza (EtaBeta, 2022), la Florio torna con una nuova opera incentrata sulla crescita emotiva di un giovane, offrendo una profonda riflessione sulle difficoltà relazionali e sugli ostacoli che la vita ci impone, ma anche sulla speranza che, nonostante tutto, possiamo sempre rinascere.
Il protagonista del romanzo è Giulio, un bambino che, al contrario dei suoi coetanei, si trova a vivere un’infanzia segnata da una famiglia incapace di offrirgli l’affetto e il sostegno di cui avrebbe bisogno. Isolato e triste, trova nella scuola un rifugio, un ambiente che gli dona serenità grazie alla presenza di un’insegnante determinata a cambiare il suo destino. Questa figura, centrale nella vita del ragazzo, si impegna con forza e dedizione per liberarlo dal senso di abbandono che lo opprime, cercando di offrirgli una vita diversa da quella che lei stessa ha vissuto.
Mi ha colpito molto come l’autrice esplori con precisione gli aspetti più intimi del percorso di crescita di Giulio, dando vita a descrizioni dettagliate delle sue emozioni. Dalla sofferenza iniziale, manifestata attraverso pianti incontrollabili e un profondo senso di vergogna, alla sua adolescenza, in cui Giulio cerca di reprimere il disagio mordendosi un dito, in un grido silenzioso che però resta inascoltato. Le emozioni represse si trasformano in attacchi di panico, con sintomi fisici come fiato corto, sudorazione e pallore.  Giulio avverte anche il peso della responsabilità di prendersi cura del fratello più piccolo, Giacomo, determinato a proteggerlo affinché non debba vivere le stesse sofferenze che ha subito lui. Sarà proprio l’insegnante a riconoscere i segni del suo dolore e a prendersi cura di lui, diventando il suo punto di riferimento.
Come nel suo primo romanzo, Florio ci ricorda che, anche di fronte a un destino avverso, esiste sempre una possibilità di riscatto. Se la protagonista de Il sapore buono della speranza aveva combattuto da sola per il proprio futuro, Giulio può contare su chi si prende a cuore la sua situazione, gli “angeli” che lo accompagnano nel suo percorso di rinascita. E a loro non può che dire: “Grazie di tutto”.
Con Grazie di tutto, Ornella Florio offre un’opera profonda che invita a riflettere su tematiche complesse e delicate, come la solitudine, l’abbandono e la responsabilità verso i propri cari, proponendo una via di speranza anche nelle situazioni più difficili.
Leggere questo romanzo mi ha fatto pensare a quanto sia importante non solo la nostra forza interiore, ma anche il sostegno degli altri nel superare le difficoltà. Giulio ci insegna che, nonostante le sfide della vita, c’è sempre una luce che possiamo trovare, se permettiamo a chi ci circonda di aiutarci. È una lezione che porto con me: il coraggio di chiedere e accettare aiuto non ci rende deboli, ma umani. Grazie di tutto ci ricorda che, insieme, possiamo affrontare qualsiasi destino.
Marzia Estini

Le “Variazioni” a colori di Enrico Vanzina

Nella Cripta di San Michele Arcangelo, fino al 27 ottobre

A irrobustire il lungo progetto iniziato nel 2020, Enrico Vanzina – lui e il cinema, i primi passi con papà Steno, la passione per le sceneggiature disposte a mettere allo scoperto i tanti vizi e le poche virtù di un’Italia sempre più piccola, produttore, scrittore che ha dato alle stampe tra l’altro il “ritratto di un paese che non cambia” come quello del fratello Carlo prematuramente scomparso sei anni fa – prosegue con “Atlante Pop”, affidato all’organizzazione di Mauric Renaissance Art e alla curatela di Giuseppe Biasutti e Marcello Corazzini, il suo sguardo, pubblico e privato, sull’Immagine e sulle immagini che si sono impossessate della nostro quotidiano. Immancabile il passaggio dall’immagine in movimento a quella fissa: “Non c’è da stupirsi se un uomo di cinema come Enrico Vanzina – annotava Francesco Poli in una precedente mostra di eguali soggetti -, immerso da sempre nelle immagini in movimento, si dedichi anche, per conto suo come fotografo, alla realizzazione di immagini fisse. Ma l’aspetto interessante e intrigante, è che Vanzina ha utilizzato tecniche fotografiche caratterizzate da una specifica connotazione artistica, con particolari valenze sperimentali e metalinguistiche… si tratta di lavori che si collegano alla gloriosa tradizione dei foto-collage d’avanguardia (in particolare quelli dadaisti, neo-dadaisti e pop) ma sostituendo la forbice e la colla con interventi digitali.” Per dirla con Giuseppe Biasutti, in un tempo di maggiore attualità, “una fotografia è l’orizzonte dell’arte e ammette innumerevoli sconfinamenti.”

Sconfinamenti che sono variazioni, diciotto per l’esattezza, rappresentazioni su un palcoscenico felicemente pop. E allora sono gli oggetti, i ricordi privati come una camera d’albergo, un paesaggio tutto torinese che accomuna un volto di donna e la Mole, o un altro che rende omaggio al De Chirico di un interno metafisico che racchiude la grande fabbrica; e allora sono i volti di Mina biondissima e unghie laccate di un rosso vivissimo – era “Milleluci” di cinquant’anni fa? -, o di Albertone Sordi alle prese con il suo pantagruelico piatto di pasta (“maccarone, m’hai provocato e io te distruggo, me te magno!”), incastonato nella piazza Santi Apostoli vuota e piovosa, o della signorina Chanel, eterna sigaretta tra le labbra; e allora è il volto di Marilyn negli scatti di Sam Shaw e nei colori di Wharol, nelle immagini che ci lasciano intendere quanto “Diamonds Are a Girl’s Best Friend” o quanto sia sensuale augurare buon compleanno a mister President; e allora è il cinema alto, Hollywood e dintorni, dove campeggiano il Billy Wilder dell’eterno “Some Like It Hot” e il nome di Stanley Kubrick, maestro insuperato. E ancora idee, suggestioni, momenti, realtà e invenzioni lunghe decenni, rappresentazioni e set, un amore senza fine, posti in cui sentirsi bene, passioni e memorie, una cultura impareggiabile. Una società che un artista ha saputo e continua a raccontare, un panorama che ci coinvolge, “un atlante” definisce la mostra Biasutti, in cui è bello perdersi.

Suggestioni che crescono in quell’ambiente nuovo e per molti versi ricercato al riparo del quale Enrico Vanzina trova spazio per le tessere del suo atlante, quella Cripta di San Michele Arcangelo di fine Settecento che s’affaccia sulla piazza Cavour (da mercoledì a domenica dalle 15 alle 19, sino al 27 ottobre), spazio antico, pronto a mettere a disposizione di uno sguardo moderno quella sua certa magia che può incantare oggi il visitatore.

Elio Rabbione

Nelle immagini, di Enrico Vanzina “Variazione Torino”, 2022, fotografia a colori; “Variazione Mina”, 2024, fotografia a colori; “Variazione Chanel”, 2024, fotografia a colori.

L’sola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Simona Dolce “Il vero nome di Rosamund Fisher” -Mondadori- euro 19,50

E’ possibile amare profondamente il proprio padre -attento e affettuoso- senza accorgersi che è uno dei peggiori mostri del nazismo? E’ esattamente quello che ha vissuto la piccola Inge Brigitte, figlia di Rudolph Höss, comandante della più atroce ed efficiente macchina di morte per lo sterminio degli ebrei (e non solo), il campo di concentramento di Auschwitz. E una volta scoperta la verità, come è possibile convivere con un tale fardello nell’anima? La verità è quello che viviamo o quello che accade alle nostre spalle?

Per capire l’enigma un aiuto arriva da questo romanzo, basato su una storia vera, frutto dei ricordi della figlia dell’aguzzino. E’ Rosamund Fisher, ha 80 anni, è vedova e vive ad Arlington in Virginia. Ma il suo vero nome è Inge Brigitte, nata in Germania, ed è la figlia del mostro. Incalzata dal giornalista Thomas Harding, (discendente di Hanns Alexander, l’uomo che arrestò Rudolf Höss) finisce per farsi convincere a rilasciargli un’intervista esclusiva in cui racconta la sua vita.

Ed ecco riaffiorare i ricordi di bambina. Dal 1940 al 1944 la sua famiglia visse nella lussuosa villa il cui muro confinava con l’orrore del campo. A un passo dalle camere a gas e i crematori, e pare non sospettasse neanche lontanamente che il padre era colui che ordinava e assisteva personalmente all’eliminazione di milioni di prigionieri.

Il comandante era semplicemente Vati per i suoi 5 figli, padre amato e rispettato. All’epoca Brigitte aveva 7 anni e in casa transitavano domestiche, giardinieri, operai che in realtà erano prigionieri del lager. Tutto quello che serviva alla villa arrivava direttamente dal “Kanada”, ovvero il deposito in cui venivano ammassate le proprietà requisite agli internati. Insomma un’infanzia agiata e protetta, nessun sospetto che al confine ci fosse l’orrore.

Poi la fuga nel 45. Il padre si separa dalla famiglia e si nasconde fino all’arresto e alla condanna. I primi ad essere trovati sono i figli e la moglie che, per salvare il primogenito, consegnerà il marito.

In esilio e con un’altra identità, Brigitte fugge dapprima a Parigi, poi a Madrid dove diventa la modella prediletta di Balenciaga. Infine sceglie una vita normale, sposa un Americano e con lui crea una famiglia oltreoceano. Ma per tutta la sua lunga vita farà i conti con quel segreto inconfessabile.

 

Rudolf Höss “Comandante ad Auschwitz” -Einaudi- euro 13,00

Questa è l’agghiacciante autobiografia scritta da Rudolf Höss, che comandò il campo di sterminio di Auschwitz dal 1940. In fuga nel 44 venne infine scoperto e arrestato. La Corte Suprema di Varsavia lo giudicò colpevole di crimini contro l’umanità e lo condannò all’impiccagione, eseguita nel cortile del campo di Auschwitz il 16 aprile 1947.

Scrisse queste memorie in carcere, mentre attendeva l’esecuzione. Pagine in cui per la prima volta si scopre la psicologia e la mentalità di uno dei nazisti più spietati. Un vero e proprio squarcio nell’orrore di un’anima nera priva di pietà, che giustificò la morte di milioni di persone in nome dell’ideologia nazista.

Sono un viaggio all’inferno le sue descrizioni dello smistamento dei deportati, le camere a gas in cui stipava e gasava masse di bambini, donne, vecchi.

Non c’è mai neanche l’ombra di un vago pentimento da parte del comandante che descrive, senza emozione, le fosse comuni, le morti per asfissia, l’estrazione dei denti e il taglio dei capelli dai cadaveri, la cremazioni dei corpi.

Racconta anche la vita e i rapporti nel lager, il dividi et impera per cui le lotte interne tra i prigionieri facevano buon gioco alla gestione delle SS. Emerge il disprezzo per i deportati che descrive mettendo in risalto solo patologie e difetti caratteriali.

Si assolve sostenendo di avere semplicemente eseguito gli ordini di Himmler; anzi è fiero di averli portati a termine brillantemente. Neanche vede la mostruosità dello sterminio di massa.

 

 

Katja Petrowskaja “La foto mi guardava”

-Adelphi- euro 24,00

La giornalista e scrittrice tedesca di origine ucraina che ha già rivelato la sua profondità di pensiero nel bellissimo “Forse Esther”, ora entra nell’essenza di 57 fotografie, scelte tra ricordi di famiglia, scatti di fotografi famosi –come Robert Capa, Josef Koudelka, Francesca Woodman- oppure scovate nei mercatini, su Internet, in mostre, libri e archivi storici.

Immagini che in qualche modo l’hanno chiamata a gran voce, per qualche dettaglio o per emozioni e ricordi che smuovono i pensieri. Da ogni scatto parte una micro narrazione che scandaglia a fondo luci, ombre, profili, scenari e altri particolari percepiti da una sensibilità acuta. Poi c’è la scrittura alta e raffinata tipica della Petrowskaja. Fondamentalmente sono racconti in miniatura contro le guerre, la solitudine, la disperazione e le pagine buie della Storia.

Tra le tante immagini, alcune sono indimenticabili. Come l’impatto emotivo della snella silhouette di una donna (della quale non compare il viso) che accarezza la testa di un cigno. Lo scatto è della 18enne Francesca Woodman; figlia di artisti, dotata di talento straordinario, si suicidò a 22 anni… e quel cigno senza zampe sembra quasi averne presagito la morte.

Tra le altre foto da segnalare: le macerie rimaste nella piazza dell’Indipendenza a Kiev occupata dalla Wehrmacht, che rimandano all’orrore della guerra.

Quella dell’autrice bambina che disegna con alle spalle il padre in tenero atteggiamento; e il racconto di come e perché ritrovare questa scheggia della sua infanzia sia stato uno shock.

Poi, la buia immagine degli ombrelli e della folla di newyorkesi sotto la pioggia per le vie di Manhattan durante funerali di 7 bare che racchiudevano le vittime non identificate tra le 146 operaie bruciate nel rogo di una fabbrica tessile nel 1911, quando si moriva spesso per le pessime condizioni di lavoro.

 

 

Roberto Emanuelli “Ora amati” -Feltrinelli- euro 19,00

Questo romanzo nasce dal vissuto in prima persona dell’autore, che ha attraversato entusiasmi e dolori di una relazione tossica che rischiava di rovinargli la vita. Lui è riuscito a smarcarsi dal pericolo, ha fatto tesoro della sua esperienza e ha scritto il libro.

Protagoniste due donne diverse per età anagrafica, formazione e latitudine, ma travolte entrambe da passioni altamente nocive.

Clara vive a Roma, dirige una libreria e adora il suo lavoro.

Da tre anni ha una relazione con un uomo sposato che dichiara di amarla e voler lasciare la moglie per lei; di fatto è un’altalena di false promesse e tentennamenti all’idea di far soffrire i figli. Forse più che altro è determinante la paura di perdere l’agiatezza nelle mani della consorte che detiene soldi e potere.

A Milano c’è Anna, studentessa di Economia alla Bocconi, spinta dalle aspettative dei genitori che le hanno programmato il futuro a capo dell’azienda di famiglia in Calabria. E’ infelice, in una città che sente estranea e costretta a studi che non le interessano.

L’ orizzonte sembra aprirsi quando incontra Francesco e si innamora. Peccato lui si riveli un egoista di prima grandezza, troppo preso da stesso; un giorno c’è e quello dopo scompare, centellinando il tempo concesso ad Anna.

Due storie personali, ma universali, vissute da chi si appoggia a pseudo amori tossici: quelli che divorano l’anima, logorano la vita, promettono e non mantengono, catapultano in cima a vette di felicità e poi fanno sprofondare in baratri di dolore.

Ma, dopo la sofferenza e la solitudine, nel romanzo ci sono anche riscatto e rinascita, quando le protagoniste riescono a sganciare le zavorre di compagni narcisisti e nocivi.

Il pane di Predrag Matvejević

Pane nostro, libro di Predrag Matvejević, è stato il frutto di un lavoro lungo vent’anni.

Quella del pane è una grande storia che viene da lontano, scorrendo dal tempo in cui i nostri antenati si stupirono per la simmetria dei chicchi sulla spiga fino a oggi, dove miliardi di esseri umani ancora soffrono la fame e sognano il pane mentre altri lo consumano e lo sprecano nell’abbondanza. Nato migliaia di anni fa in Mesopotamia, nominato con molteplici nomi fin dall’antichità, riportato nelle memorie incise sulle tavolette di terracotta, scritto sulle pergamene, nei poemi orali e nei testi religiosi, il pane è l’architrave del Mediterraneo. Per secoli è stato l’unico contraltare a carestie, epidemie, alle morti per inedia, l’unico elemento ( tra l’altro, comunitario) in grado di separare la sopravvivenza dal baratro della fame. Per questa ragione è stato anche uno straordinario simbolo in tutte le religioni. Ha accompagnato, assumendo la forma e la sostanza della galletta, della focaccia o del biscotto, innumerevoli viaggiatori e pellegrini, marinai e nomadi. Si è ritrovato, suo malgrado, al centro di dispute sanguinose e interminabili: le guerre per procacciarsi il cibo, ma anche le lunghe controversie sul pane lievitato oppure azzimo, da usare per la comunione. E’ stata una disputa inevitabilmente infinita perché il pane è anche un simbolo posto al centro del rito eucaristico. Lo si ritrova, nelle sue mille varietà, in molte opere d’arte dall’antico Egitto fino alla pop art. Raccontando questa saga sul pane, Matvejević  ( uno dei più grandi intellettuali balcanici, nato nel 1932 a Mostar e morto sei anni fa a Zagabria) ci parla di Dio e degli uomini, della storia e dell’antropologia, della fame e della ricchezza, della guerra e della pace, della violenza e dell’amore. Un libro importante, denso di significati, dove la saggezza spesso è temprata nel dolore ma è pur sempre piena di speranza. Con la prefazione di Enzo Bianchi e la  postfazione dello scrittore Erri De Luca, Pane nostro è una opera ricchissima di riferimenti storici e letterari, di citazioni. Un libro potente che rappresenta un omaggio poetico all’alimento più semplice inventato dall’uomo.

Marco Travaglini

Quaglieni festeggiato nel trentennale della medaglia d’oro

Il 13 ottobre  1994  nel corso di una solenne cerimonia alla presenza del  Magnifico Rettore dell’Universita’ e di molte autorità veniva consegnata la medaglia d’oro di benemerito della scuola, della cultura e dell’arte conferitagli dal Presidente  della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro al professore cavaliere  di Gran Croce Pier Franco Quaglieni che è stato tra i più giovani insigniti della più alta onorificenza conferita ad un docente italiano. A trent’anni di distanza l’associazione che riunisce gli insigniti ha festeggiato ieri il prof.Quaglieni  nel corso di un incontro sul tema “Quaglieni maestro di cultura libera” consegnandogli un  attestato in cui è scritto tra l’altro: “Più che mai oggi Pier Franco Quaglieni attraverso l’ideale cattedra dei giornali, dei suoi libri e del Centro Pannunzio continua ad impartire una grande lezione di alta cultura ed  è un nobile e raro esempio di indipendenza libera  nei confronti delle giovani generazioni. Già molti anni fa  uno dei suoi maestri Alessandro Passerin d’ Entreves  giunse a paragonare Quaglieni a Gobetti”. Al termine il prof. Quaglieni è stato festeggiato in un incontro conviviale a Varazze.

Rock Jazz e dintorni a Torino: Robert Plant e Roberto Vecchioni

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA

Martedì. Alle OGR si esibisce Robert Plant, il mitico cantante dei Led Zeppelin. Al Teatro Colosseo arriva Roberto Vecchioni. Al Blah Blah si esibiscono i Tea Eater.

Mercoledì. Allo Ziggy suonano i Mizmor + i Nitritono. Al Teatro Colosseo è di scena la Glenn Miller Orchestra. Al Blah Blah si esibiscono i Nictomorfo. All’Off Topic suonano Jack The Smoker & Big Joe.

Giovedì. Al Circolo della Musica di Rivoli sono di scena Paolo Saporiti &Xabier Iriondo. Al Blah Blah si esibisce Valerian Swing. Al Magazzino sul Po suonano i Ndox Electique.

Venerdì. Al Blah Blah si esibiscono i Crummy Stuff. Allo Ziggy suonano Crystal Viper & Savage Master. All’Off Topic è di scena Dile. A Piazza dei Mestieri suona il trio di Sonia Schiavone. Al Magazzino sul Po si esibiscono The Body & Dis Fig.

Sabato. Allo Ziggy suonano i Sacri Cuori &Threestepstotheocean. Al Magazzino sul Po si esibiscono Winter Dust + Plastic Palms + New Adventures.

Pier Luigi Fuggetta

La famiglia di Bovell costruita su una falsa felicità

Inaugurata al Carignano la stagione dello Stabile torinese

Prima o poi, si finisce sempre a quell’inizio folgorante, non soltanto per ricordi scolastici o per la scoperta di una lettura, sempre lì, a quel “Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” di Tolstoj, ad aprire la storia della sua Anna. La famiglia eterna sempre a proteggere e a scardinare, a ordinare e a confondere. Tra la commedia e il dramma. L’australiano Andrew Bovell, classe 1962, sceneggiatore di successo – “Ballroom” diretto da Baz Luhrmann nel ’92, “Lantana” diretto da Ray Lawrence nel 2001 -, premiatissimo autore con “When the Rain Stops Falling”, visto anche qui da noi un paio di anni fa, “una saga familiare lunga ottant’anni, che si snoda tra colpe taciute, tentativi di redenzione e condanne”, coglie una nuova occasione per addentrarsi dentro la foresta intricata di uno di quei nuclei, disperati e di tanto in tanto con la risata acida a fior di pelle, con “Cose che so essere vere”, messo in scena (e cointerpretato) da Valerio Binasco per la stagione dello Stabile torinese (repliche sino al 27 ottobre, al Carignano). Uno Stabile che, guardando a un suo passato recentissimo, sembra aver fatto suo il tema della famiglia, dovendo ancora a Binasco le scelte del Nobel Jon Fosse e della sua “Ragazza sul divano” e del Pirandello dei “Sei personaggi”, a Filippo Dini quella di ”Casa di bambola” e il successo di “Agosto a Osage County” dell’americano Tracy Letts, senza scordare che Leonardo Lidi proporrà per intero a novembre prossimo la trilogia cecoviana che in quell’ampio sguardo ci naviga.

Cose” (quali? quelle le più normali che ti succedono intorno, giorno dopo giorno, la vita nella sua normalità) è il ritorno a casa della giovanissima Rosie da un viaggio in Europa, nella liberissima Berlino, che le ha dato più gioie che dolori, solitudine e girovagare senza meta zaino in spalla, non ultimo un bellone spagnolo che l’ha piantata in asso, all’improvviso, dopo tre giorni di sesso e di promesse. È il ritorno nel cuore di una casa e di una famiglia, la madre Fran e il padre Bob, la sorella Pip e i due fratelli Ben e Mark, quest’ultimo il suo punto di riferimento, la voce maschile a cui tutto confidare. Gioie, sorrisi, abbracci: poi ogni cosa sembra sgretolarsi, rabbuiarsi, congelarsi, con il trascorrere lento delle stagioni. Come in una complessa partitura, come in ogni via crucis dove si snodano le tante stazioni, ognuno di essi – ogni strumento – ha il proprio spazio, il proprio monologo chiarificatore che lo confronta con il publico, il proprio momento di dolore, la propria occasione di chiedere aiuto in quell’interno che, al riparo di una pretesa, sbandierata felicità (felice, “eccola la parolina magica” urla mamma Fran nello stravolgersi a valanga degli avvenimenti), si sta riempiendo di buio. Rosie è quella che più ha creduto in quella felicità ma vede che tutto è in pieno crollo, Pip ha già deciso di fuggirsene a Vancouver perché dice che gli è stato offerto un lavoro ma in effetti abbandona il marito e due bambine per un legame più forte e sicuro, Ben ha sottratto sul posto di lavoro un bel mucchio di soldi e adesso teme il carcere, Mark ha scelto di diventare Mia, sta iniziando la cura di ormoni in previsione di un’operazione che lo farà diventare quella donna in cui spera e crede da anni.

È il caos che viene a sovrapporsi a un ordine salvaguardato da sempre, l’impianto scenografico, su quel palcoscenico girevole, inventato da Nicolas Bovey, in cui il giardino della casa – l’Eden che ci si accorge ben presto non essere più eterno – sembra invadere quella normalissima cucina, fatta (normalmente) di tavolo e poltrona e vasi verdi e lavello, è messo sottosopra, il fuori invade il dentro, immagine bellissima e appropriata della tragedia che ad un certo punto s’è innestata. Sconvolta la madre altresì, da un macigno troppo grande, lei che è stata esempio di dedizione senza limiti, di forza ma di dolcezza, che ha sempre saputo prevedere le necessità dei figli, che li in ogni momento protetti, indirizzati, tenuti in salvo, lei che peccato di troppo amore (“soverchio”, lo avrebbe definito l’autore di “Così è (se vi pare)”, con un termine ormai cancellato), lei che per la famiglia e per la casa ha scordato immediatamente un improvviso spiraglio di fuga, lei che vorrà trovare ancora una via d’uscita; sconvolto, e inebetito, il padre che non può ammettere una separazione o un’auto nuova per mettersi allo stesso livello di “quella gente nuova che ho conosciuta” o il mutamento con cui non vorrà avere mai nulla a che fare. Una lunga, stretta, ben condotta narrazione che Bovell racchiude in un flashback, un montaggio targato cinema, una telefonata muta e angosciata all’inizio e al termine, una vicenda che sul dolore si chiude in maniera definitiva. La distruzione di quell’eden e di quel giardino, come sarà domani?, “più si crede nella felicità, più si soffre”, sembra dire l’autore.

Forse “Cose” soffre di un che di troppo di prevedibilità, di uno schematismo che delinea in maniera forzata i momenti dell’uno e dell’altro personaggio: per cui in più di un tratto il testo è costretto ad appoggiarsi alla bravura degli interpreti, di Stefania Medri che s’irrobustisce man mano che avanzano i 110’, di Giovanni Drago e di Fabrizio Costella, di Giordana Faggiano già apprezzabilissima in quei primi momenti in proscenio a raccontare della sua sconfitta Rosie, di Valerio Binasco a delineare la debolezza di un padre e in primo luogo di una Giuliana De Sio, che merita un applauso a parte per la forza e la rabbia, le rinunce e la protezione con cui ha costruito la sua Fran, insostituibile perno intorno a cui gira la famiglia di Bovell.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Virginia Mingolla, alcuni momenti dello spettacolo “Cose che so essere vere” di Andrew Bovell, messo in scena da Valerio Binasco per la stagione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.

Il XX anniversario della Biblioteca Tabasso di Chieri

Un racconto inedito scritto per l’occasione da Alessandro Perissinotto, una lettura itinerante lungo il centro storico di Chieri con gli interventi musicali della fanfara urbana BandaKadabra: sabato 19 ottobre la Città di Chieri, in collaborazione con Dinoitre Eventi, festeggia il XX anniversario della Biblioteca & Archivio nell’ex cotonificio Tabasso.

 

Al mattino, alle ore 10, la Sezione Storia Locale della Biblioteca Civica & Archivio “Nicolò e Paola Francone” sarà intitolata, alla presenza delle Autorità cittadine, a Maria Francesca Garnero, recentemente scomparsa, operosa animatrice culturale e che per oltre trent’anni ha svolto l’incarico di direttrice  della Biblioteca. La cerimonia “Ricordando Maria Francesca Garnero”, organizzata dall’amministrazione comunale, è aperta a tutti i cittadini che hanno piacere di ricordarla. Maria Francesca Garnero giunse alla guida della Biblioteca nel 1978, raccordandosi con il passato allora incarnato in Paola Francone, alla quale, anni dopo avrebbe dedicato una pubblicazione. Nel corso degli anni ha affrontato questioni logistiche e amministrative, promosso la lettura, dedicato attenzione all’archivio storico cittadino ed avviato il Museo del Tessile con Armando Brunetti.

Nel pomeriggio, è in programma la lettura itinerante di un racconto inedito intitolato “La piccola lavanderia dei cuori infedeli”, scritto per l’occasione da Alessandro Perissinotto. «Una piccola grande opera letteraria che la Biblioteca dona a tutti i suoi lettori, per aiutarci a non perdere il filo che lega e tesse le nostre storie e le nostre vite» spiega la direttrice Silvia Basso.

La lettura sarà accompagnata dagli interventi musicali della BandaKadabra: l’appuntamento è per le 15 in piazza Umberto I per poi giungere in piazza Duomo, quindi al parco PA.T.CH. nell’area Caselli e, infine, arrivo alla Biblioteca in via Vittorio Emanuele II  1 (in caso di pioggia, l’evento si svolgerà presso gli spazi della Biblioteca).

 

«Sono passati 20 anni da quando il 18 ottobre 2004 inauguravamo negli spazi totalmente ristrutturati degli ex uffici del cotonificio Felice Tabasso la nuova sede della Biblioteca e dell’Archivio Storico della Città di Chieri-commentano il Sindaco Alessandro Sicchiero e l’assessora alla Cultura, all’Istruzione e alla Biblioteca Antonella Giordano-Festeggiamo con molta soddisfazione questo traguardo, potendo raccogliere i risultati del grande lavoro che si è fatto in questi anni per costruire un complesso culturale di alto livello, capace di offrire numerosissimi servizi innovativi a beneficio della comunità. La Biblioteca di Chieri, polo del Sistema Bibliotecario SBAM, è un presidio che si configura sul territorio come strumento di democrazia, spazio di partecipazione volto al miglioramento della società attraverso la facilitazione dell’accesso alle informazioni, la condivisione e la creazione di conoscenza. Suo obiettivo fondamentale è favorire l’autonomia delle persone, offrendo la possibilità di migliorare la conoscenza e la capacità creativa. Riveste perciò una funzione sociale rilevante, in quanto offre spazi di condivisione e opportunità di incontro culturale che incentivano la partecipazione e contribuiscono all’inclusione e alla coesione sociale. Ad essa si affianca l’Archivio Storico, che conserva e illustra la memoria del Comune di Chieri e che nella nuova sede ha trovato spazi adeguati sia per la conservazione sia per la fruizione»

In occasione dei festeggiamenti del XX anniversario, sarà on line il nuovo portale della Biblioteca Civica interamente rinnovato.