Fabio Darò ci invia questa bellissima immagine serale della Mole e della città che la circonda
Dalla chiesa di Favria è giunto l’appello affinché Guido Zabena non sia morto inutilmente. E’ accaduto durante il funerale del 51enne morto annegato nel sottopasso di Rivarolo Canavese invaso dalla pioggia. Il parroco, don Gianni Sabia si è fatto interprete delle parole del padre della vittima e ha detto: “Il papà Piero mi ha confessato: per noi non ci sarà più Guido, ma io vorrei che ciò che è successo non si ripeta più’. Da oggi bisogna fare in modo che un fatto del genere non accada più”. La procura di Ivrea ha aperto un fascicolo per il reato di omicidio colposo.
“Villefranche est mon île”: Villefranche è la mia isola, affermò una volta Jean Cocteau. Un’isola di cui il “principe dei poeti” (1889-1963) fu il faro che raccolse nella sua luce artisti e intellettuali tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento. Nella nostra epoca di turismo omologato non è facile immaginare il fascino chic e un po’ esotico che emanava questa piccola località della Côte d’Azur a pochi chilometri da Nizza. Incastonata in una profonda baia costellata di imbarcazioni da diporto, provvista di un piccolo porto su cui si affacciavano eleganti caffè, Villefranche-sur-mer era frequentata da scrittori del calibro di Francis Scott Fitzgerald, William Somerset Maugham, Graham Greene e pittori quali Picasso, Matisse e Cézanne. Ai tavoli della Mère Germaine, il ristorante più rinomato per l’atmosfera e il buon cibo, si sedevano Isadora Duncan, Francis Cyril Rose ed Igor Stravinskij. Anni Folli, così i francesi chiamarono quell’intermezzo tra la prima e la seconda Guerra Mondiale scoppiettante di vitalità creativa e mondana. Il giovane Jean Cocteau soggiornò quasi ininterrottamente a Villefranche tra il 1924 e il 1935. Il piccolo e curato Hôtel Welcome affacciato sulla rada divenne il rifugio nel quale trovò conforto per la morte di Raymond Radiguet, cui era legato da affettuosa amicizia. Nella stanza numero 22 trasse ispirazione per i suoi lavori più importanti, da La Voix Humaine a Les enfants terribles, fino a Le Testament d’Orphée.
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Quasi di fronte all’hôtel, posta su quai Amiral Courbet adiacente al Port de la Santé, si trovava una piccola cappella romanica del XIII secolo dedicata originariamente a San Pietro, patrono dei pescatori. La cappella, in completo stato di abbandono, veniva utilizzata come rimessa per le reti ed occasionalmente quale sede del tribunale ove i marinai di Villefranche regolavano i propri conflitti. Fu all’inizio degli anni Cinquanta che Cocteau ebbe l’idea di progettarne la ristrutturazione, secondo quello spirito eclettico che animò tutta la sua produzione artistica. Ciò che ancora oggi affascina di Cocteau è proprio l’ampiezza della produzione creativa unita a una particolare originalità espressiva. Amava, infatti, sperimentare tutti i linguaggi che l’arte potesse offrire: era poeta, romanziere, saggista, scrisse drammi teatrali, libretti d’opera, si cimentò anche come attore. In quel momento si stava dedicando alla carriera cinematografica: Orphée, di cui aveva curato sceneggiatura e regia, vinceva nel 1950 il premio della critica a Venezia. Come disegnatore e pittore fu assai influenzato dall’amico Picasso e la decorazione della cappella di Saint-Pierre rappresenta senza dubbio la sua opera più incisiva. Cocteau diede inizio ai lavori di ristrutturazione il 5 giugno 1956, dopo sei anni di trattative tra l’amministrazione locale e la congregazione dei pescatori proprietaria dell’immobile. Senza chiedere alcun compenso, si occupò personalmente di affrescare le pareti esterne ed interne avvalendosi di maestranze regionali per completare la restaurazione dell’edificio.Il suo segno stilizzato e colorato si nota già dalla facciata: rossa, gialla e bianca, con forme geometriche curvilinee che si alternano armoniosamente ad altre di aspetto cuspidale, dando l’impressione di essere state scolpite nella pietra. Il decoro murale che ricopre interamente la superficie interna venne eseguito prevalentemente con la tecnica del carboncino cui furono successivamente aggiunte tenui sfumature di rosa pallido, giallo e azzurro.
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Cocteau ideò cinque scene principali arricchite da un tripudio di simboli mistici, di citazioni e allusioni riconducibili alla sua produzione artistica. L’abside e le pareti laterali evocano tre momenti della vita dell’apostolo Pietro: la camminata sulle acque, il pentimento per aver tradito Gesù, la liberazione dal carcere ad opera di un angelo. Le scene rimanenti, poste sulle pareti a destra e a sinistra dell’ingresso, sono di ispirazione profana e rappresentano un omaggio ai gitani del villaggio provenzale di Les-Saintes-Maries-de-la-mer e alle ragazze di Villefranche. Il visitatore che entra in questa chiesetta si immerge immediatamente in uno spazio sereno e silenzioso che fa trattenere il respiro. Si resta sorpresi per le grandi dimensioni dei personaggi che affollano gli affreschi, colti in pose plastiche quasi fossero sul punto di distaccarsi dalle pareti. Alzando lo sguardo si viene rapiti dal turbinio delle ali degli angeli sulla volta, a richiamare il volo dei gabbiani. Dietro l’altare spicca la gigantesca sagoma stilizzata di Gesù che tende la mano per salvare Pietro dalle acque, cui Cocteau diede un’espressione “semplice, sublime, saggia” ma anche “imprevedibile, beffarda”. Ai lati del portone d’ingresso decorato à trompe-l’oeil si trovano due candelabri in ceramica cotti nei forni di Valbonne. Li sormonta il grande occhio di Dio, che scruta il visitatore con inquietante fissità. Sopra il portone si legge la frase Entrez vous-même dans la structure de l’édifice comme étant des pierres vivantes (Entrate nell’edificio come pietre viventi) a far memoria delle parole che Gesù rivolse a Pietro.
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Si rimane incantati dall’abilità pittorica di Cocteau, che unisce con sublime naturalezza arte e spiritualità. Colpisce la semplicità fumettistica delle raffigurazioni, ove accanto ai protagonisti dei racconti evangelici trovano posto pescatori, gitani, musicisti, ragazze di paese e molti suoi amici personali. L’effetto complessivo è di una grazia sobria di chiara ispirazione naïf, che unisce la spiritualità pura presente nei racconti evangelici alle scene di vita quotidiana di spiccata suggestione mediterranea. La cappella così restaurata venne inaugurata con una Messa il primo agosto 1957. Cocteau scrisse per l’occasione: “Ho vissuto notte e giorno per cinque mesi nella piccola navata di Saint-Pierre, arrotolato tra le sue volte, rapito, imbalsamato, per così dire, come un faraone preoccupato di dipingere il proprio sarcofago. Alla fine mi sono trasformato in una parete, la parete ha preso il mio posto e mi ha parlato… Io sono diventato la cappella, e poi la cappella ha cominciato a vivere.” La chiesetta apre al culto una volta l’anno, in occasione della festa di San Pietro, come testimoniano i paramenti sacri e l’ostensorio a forma di colomba disegnato da Cocteau posti sull’altare. La visita richiede un tempo piuttosto breve ma lascia una sensazione di pace persistente, come se la sua essenza restasse sospesa nell’aria salmastra lungo la banchina del porto, tra le onde che accarezzano le barche ormeggiate al pontile.
Paolo Maria Iraldi
Torino, Milano, Cortina-Dolomiti o Torino-Milano in Tandem? La sfida alla candidatura olimpica è aperta. “Il governo appoggia la candidatura dell’Italia per le Olimpiadi invernali del 2026, a precise condizioni: che vengano rispettati parametri di buonsenso, in termini economici e di sostenibilità ambientale”. Così il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti. A suo parere il Coni deve scegliere nel rispetto di queste condizioni che poi il governo valuterà’. Ha aggiunto il presidente del Coni, Giovanni Malagò: “Martedì in Giunta e al Consiglio Nazionale affronteremo la questione Olimpiadi e potremo avere le idee più chiare sul percorso da seguire”.
EUROCUP & MERCATO, TEMI CALDI!
Sta per partire la grande kermesse dell’estate: i sogni e le speranze sono dietro l’angolo
Intanto, è partito ufficialmente il “momento” Eurocup, con la definizione dei gironi in cui la Fiat Auxilium Torino sarà impegnata nella prossima stagione: Malaga, Kazan, Vilnius, Francoforte, e Mornar Bar le avversarie da battere. Difficile? Certo che sì, non si sale di livello per poi giocare con squadre più scadenti, a meno che la follia non rasenti l’orlo di chi lo pensa, diventa complicato solo immaginarlo. Però, tutti vorrebbero confrontarsi con i migliori e perdere è una possibilità; solo i “deboli” preferiscono giocare per non perdere. Chi rischia sa che l’emozione del confronto con i più forti è sempre altissima, ma sa che è l’unico passo per progredire. Tre anni fa il basket a Torino era una serie A appena conquistata, adesso è reduce dal primo trofeo della storia piemontese del basket (e il più veloce conquistato da una squadra dopo la promozione nella massima categoria: è una verità che a molti piace non ricordare…mah…) e da una annata sicuramente difficile, ma i pochi che sanno la verità, elegantemente tacciono e preferiscono puntare tutto sul futuro che ingarbugliarsi in una tetra selva di rimembranze inutili e tediose. La Fiat Auxilium Torino sta per partire: Cusin, Poeta, speriamo al più presto Okeke, Delfino e il giovane Simon Anumba sono al momento l’ossatura della
squadra. Manca ancora tutto il gruppo stranieri, ma è ancora presto, e talvolta, fare in fretta non conduce a buoni risultati. Fino ad ora, i giocatori stranieri visti a Torino hanno sempre avuto una caratteristica: emozionare. Ovvio, stiamo parlando di quelli Top, ma lo erano davvero. Talvolta la gestione del loro “modo di essere” non è stato facile, ma si sa, “…del senno di poi, sono piene le fosse”. Ora, l’esperienza è aumentata, alcune piante “invasive” sono state estirpate e forse sarà possibile creare un gruppo migliore che possa ulteriormente creare emozioni ancora più forti. Nei social, nelle chat di alcuni siti si leggono commenti sarcastici che tendono già ad avere pronta la forca per appendere ogni tipo di scelta della società. E’ facile parlare, è facile distruggere o dire cosa non si doveva fare. Questo sport della critica a tutti i costi è talvolta simile alla pratica di colui che si inventa critico d’arte perché non sapendo dipingere, “invidiando”, costruisce commenti saccenti su coloro che invece di parlare…fanno. Torino è una città
difficile: fa fatica la Juventus a non avere critiche! Torino ha fame di basket, e chi crede nel basket ha diritto di sognare e di volare con pensieri ancora più alti. Ma il campionato lo vince una sola squadra, e non è proprio facile vincere. Quest’anno il coach più emozionante d’Europa è a Torino: Larry Brown è un segnale acceso sulla Fiat Auxilium, tutti gli occhi europei e d’oltre oceano sono curiosi di sapere cosa farà. Intanto è qui, e sta per prendere in mano le redini di una squadra che ha tra i suoi vice due allenatori che hanno già vinto con Torino e che con umiltà sono rimasti per imparare da uno dei più
grandi della storia del basket. E’ uno spettacolo solo pensarlo sulla panchina della FIAT Torino. I siti europei dell’Eurocup hanno dato più risalto alla squadra della nostra città rispetto all’altr’anno: sarà un caso? Ovviamente no. Quest’anno i regolamenti hanno complicato non poco i piani di tutti, e molto budget vola investendo in giocatori italiani non di altissimo livello, e può essere visto come un bene o come un male a seconda dei punti di vista, ma è comunque un dato oggettivo. Il resto è ora nelle mani di coloro che con passione e con le possibilità economiche reali cercheranno di creare per dare nuove emozioni ai tifosi.
Facile è “tifare contro”, meglio è tifare Torino.
Paolo Michieletto
“Penarol: il Piemonte d’Uruguay”
Helena Janeczek ha vinto il premio Strega, il più importante premio letterario italiano, con il romanzo La ragazza con la Leica, pubblicato da Guanda. Nata in Germania, a Monaco di Baviera in una famiglia di ebrei tedeschi, la Janeczek vive in Italia da 35 anni ed è cittadina italiana. La protagonista di La ragazza con la Leica è Gerda Taro ( il cui vero nome era Gerta Pohorylle),fotografa tedesca morta nel 1937 a 26 anni durante la guerra civile spagnola, investita da un carro armato durante un bombardamento aereo. Il romanzo si basa su fonti storiche e tra i numerosi personaggi realmente vissuti spicca la figura del celebre fotografo Robert Capa, che fu compagno di Gerda Taro. Il nostro giornale ne aveva parlato mesi fa nell’articolo di Marco Travaglini che riproponiamo sulla vita straordinaria della Taro che è sepolta nel cimitero parigino del Père Lachaise.
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Gerda Taro. La vita ribelle e breve di una fotoreporter
Nel cimitero di Père-Lachaise, il grande cimetière de l’Est sulla collina che sormonta la rive droite e il Boulevard de Ménilmontant, nel ventesimo arrondissement di Parigi, è sepolta, tra i tanti illustri defunti, Gerda Taro. La sua tomba è nella 97° divisione, non lontana da quella di Edith Piaf e dal “muro dei Federati“, un luogo-simbolo dove, il 28 maggio del 1871, furono fucilati dalle truppe di Thiers gli ultimi 147 comunardi sopravvissuti alla “semaine sanglante”, la settimana di sangue che pose fine al sogno ribelle del governo rivoluzionario della Comune di Parigi. Questo è, senza dubbio, il luogo ideale per custodire le spoglie mortali della prima giornalista di guerra a cadere sul campo durante lo svolgimento della sua professione, entrata nella storia della fotografia per i suoi reportage realizzati durante la Guerra di Spagna. Gerda Taro, il cui
vero nome era Gerta Pohorylle, nasce nel 1910 a Stoccarda e, nonostante le sue origini borghesi entra giovanissima a far parte di movimenti rivoluzionari di sinistra. Le idee politiche, la militanza e la sua origine ebraica, con l’avvento del nazismo in Germania, la costringono a rifugiarsi a Parigi. Nella ville Lumière degli anni folli, magistralmente descritta da Ernst Hemingway in “Festa mobile”, la stella cometa della Taro travolge le vite degli amici e degli amanti con un’energia inesauribile. E’ a Parigi che Gerta Pohorylle conosce André Friedmann, ebreo comunista ungherese e fotografo, che le insegna le tecniche del mestiere. Formano una coppia e iniziano a lavorare insieme. L’atmosfera magica della città e l’estro creativo e vulcanico della giovane la portano a creare per il compagno una figura del tutto nuova. Nasce così Robert Capa, un fantomatico fotoreporter americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Con questo pseudonimo il mondo intero conoscerà Friedman e il fotografo finirà per sostituirlo al suo vero nome, conservandolo per tutta la vita. Lei stessa cambia il nome in Gerda Taro.
Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola. Si tratta di una scelta importante che li coinvolgerà e segnerà così profondamente da farli diventare alcuni tra i più importanti testimoni del conflitto, che seguono e raccontano al mondo attraverso scatti sensazionali e numerosi reportage pubblicati su periodici come “Regards” o “Vu“, la prima vera rivista di fotogiornalismo. Gerda con incredibile coraggio e sprezzo per il pericolo, rischia più volte la vita per fermare, attraverso le immagini, un momento del conflitto. Helena Janeczek ne “La ragazza con la Leica” ci regala un ritratto incisivo e significativo della Taro, raccontando che si “trascinava dietro la fotocamera, la cinepresa, il cavalletto, per chilometri e chilometri. Ted Allan ha raccontato che con le ultime parole ha chiesto se i suoi rullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri”. Gerda fotografa prevalentemente con una Rolleiflex, formato 6×6, mentre Robert preferisce la Leica. Poi anche lei inizia ad utilizzare la piccola fotocamera. Nello stile di Gerda predomina l’individuo, i suoi scatti mettono a fuoco i protagonisti della guerra, le vittime, i combattenti, le donne e i bambini, immagini forti che descrivono, in punta di obiettivo, l’evento storico che anticipò come un tragico prologo la seconda guerra mondiale. Le sue foto sono come la sua vita tumultuosa, simile ad una corsa a perdifiato, una vita segnata da passioni forti, da un’incredibile vitalità e da un desiderio di affermazione e di emancipazione che, storicamente, le donne avrebbero raggiunto solo molto più tardi. Questa vita viene spezzata dai cingoli di un carro armato che la travolge proprio mentre torna dalla battaglia di Brunete dove aveva realizzato il suo servizio più importante, che viene pubblicato postumo
sulla rivista “Regards”. Sotto quel carro armato si spengono i sogni, l’entusiasmo, tutte le foto che il futuro
avrebbe potuto regalarle e la breve ed intensa vita della 26enne Gerda Taro.Trasportata a Madrid, la fotografa resta cosciente per alcune ore, giungendo a vedere un’ultima alba: quella del 26 luglio 1937. Il suo corpo viene riportato a Parigi, la patria della sua vita di artista, e, accompagnato da un corteo funebre di duecentomila persone, viene tumulato al cimitero del Père Lachaise. Il suo elogio funebre viene scritto e letto da Pablo Neruda e Louis Aragon. Robert Capa, distrutto dalla morte della sua compagna di vita e d’arte, un anno dopo la scomparsa di Gerda, pubblica in sua memoria “Death in the Making“, riunendo molte delle foto scattate insieme. La vita di Capa, da quel momento, sembra procedere in uno strano, inquietante e provocatorio “gioco a rimpiattino” con la Morte che il fotografo
sfida, conflitto dopo conflitto, scattando immagini sconvolgenti e sempre fedeli al suo motto “se le foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino”. La morte gli dà scacco matto attraverso una mina antiuomo, nel 1954, nella guerra in Indocina, mentre Capa cerca, ancora una volta, di regalare all’umanità un’altra testimonianza dell’orrore dei conflitti bellici. Un fotoreporter, in fondo, non deve fare niente altro se non testimoniare la realtà e semplicemente “dare la notizia”.
Marco Travaglini
In primo luogo la passione. Ma anche un ampio progetto e il ricordo e il recupero della documentazione scientifica che continuano a scavare per rintracciare le “nostre radici storiche”. Un percorso che ha avuto inizio una quindicina di anni fa e che oggi porta la ceramica e i lustri metallici di Maria José Etzi all’interno degli spazi della Galleria “Arte per Voi” (fino al 22 luglio, sabato e domenica dalle 15 alle 19), trovandovi luogo i boccali e i catini con le loro decorazioni di squisita eleganza, le ciotole e i piatti arricchiti di colori e di geometrie perfette, esempi di una antica attività e delle proprie difficoltà, “poiché le ricette e l’andamento della cottura del lustro sono sempre state tenute segrete, tramandate da padre in figlio e quasi perse ai nostri giorni”.
Lunga strada quella del lustro metallico. Una antica tecnica nata in Persia nel secolo IX e diffusasi più tardi nella Spagna dei Mori, soprattutto a Valencia e a Malaga, dove raggiunse risultati decisamente straordinari. Da noi s’iniziò la produzione soltanto nel ‘500, in Umbria e nelle Marche, per dover constatare un abbandono nel secolo successivo, a causa della congiuntura economico-sociale, e una ripresa poi, ancora in territorio umbro (come pure in Inghilterra), a metà dell’Ottocento. Con il processo a lustro, la superficie del manufatto appare iridescente per effetto della luce che si rifrange su minuscole particelle metalliche e sulla parete vetrosa della maiolica. Si ottiene con una mescola di rame, nitrato d’argento, perossido di ferro e bisolfuro di mercurio, che debitamente trattata si scioglie in aceto e si applica su una superficie smaltata. Il pezzo è in seguito sottoposto a una speciale terza cottura, detta “a piccolo fuoco”, in cui la temperatura è ricercata intorno ai 600-700 gradi secondo il tipo di smalto impiegato. Si prosegue la cottura in “riduzione”, privando dell’ossigeno la camera del forno. Lo smalto alla temperatura ideale si rammollisce e consente ai metalli di penetrarvi stabilmente. Quando si sforna il pezzo si deve eliminare la crosta lasciata dall’impasto applicato perché compaia il lustro.
Tecniche tramandate dunque, risultati antichi ed esperienze moderne, con quella scientificità che prende corpo nel forno. Ma l’autrice parla anche di magia allorché, scrostato l’impasto dalla ceramica, appare il lustro metallico con le diverse iridescenze. Tecniche e radici che ricompaiono, le bellezze del Rinascimento che possono ancora prendere forma sotto i nostri occhi, oggi, prova ne sono quei particolari della Cappella Sistina michelangiolesca che l’artista affida alle sue maioliche.
Elio Rabbione
Nelle immagini:
“Piatto a decoro geometrico e vegetale in blu e lustro dorato”, diam. 30 cm., Paterna 1400
“Boccale con decoro a palmette in blu”, h 20 cm., Paterna 1400
“Ciotola in blu e lustro dorato”, diam. 14 cm., Paterna 1400
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La psicoterapia funziona? Tre falsi miti
Nonostante l’accessibilità alle informazioni, permangono tanti tabù e pregiudizi sulla psicologia e psicoterapia. Tra i dubbi che assalgono le persone con disagio psicologico vi è la domanda: la psicoterapia funziona?”
È innegabile che nella nostra società esistano ancora dei falsi miti sulla psicoterapia e la sua efficacia.Credo che il mito più diffuso, anche se spesso non riconosciuto, è quello secondo cui solo i “matti” si rivolgono allo psicologo. Questa idea, purtroppo, oltre ad essere falsa, porta molte persone a non usufruire di un aiuto professionale. Lo psicologo si occupa di sostenere le persone che si trovano in una fase di cambiamento. Lo psicoterapeuta (che è una specializzazione della psicologia e della medicina) può aiutare ad affrontare situazioni più complesse come problemi di ansia, depressione, relazionali. Un secondo mito è che la semplice chiacchierata la si può fare con chiunque. Questa convinzione è giusta: una chiacchierata si può fare con chiunque: il fornaio, la parrucchiera, il prete, il vicino di casa. Lo psicologo e lo psicoterapeuta non sono chiunque. Sono figure professionali che hanno acquisito competenze specifiche per essere d’aiuto. La loro forza è nella relazione e nelle strategie che utilizzano mediante il colloquio. La terza affermazione che spesso si ascolta in riferimento alla psicologia è: “io non credo nella psicologia”. Questa affermazione deriva dalla non conoscenza che molte delle strategie e degli interventi psicologici sono validati scientificamente, cioè hanno mostrato scientificamente la loro efficacia. La psicologia non è una fede, ma una scienza, dire di non credere nella psicologia è come affermare di non credere all’ortopedia o alla cardiologia.
La psicoterapia funziona? Cosa dice la scienza
A differenza di quanto si possa credere esistono ricerche il cui scopo è valutare l’efficacia della psicoterapia. Negli ultimi anni si sta cercando di applicare il metodo scientifico anche alla psicoterapia. Se prendo due gruppi di persone e un gruppo lo mando da degli psicoterapeuti e l’altro lo mando a parlare con una persona non formata, che effetto avrò? Chi ha fatto colloqui con gli psicoterapeuti ha avuto maggiori benefici? Oggi la scienza risponde in maniera affermativa a questo quesito. Oggigiorno le maggiori società internazionali che si occupano di salute cercano di trovare i trattamenti più efficaci, basandosi sulla ricerca scientifica. Negli ultimi anni questo atteggiamento viene applicato anche alla psicoterapia. Ad esempio, il disturbo d’ansia generalizzato è un disagio caratterizzano da un persistente senso di ansia e preoccupazione che si manifesta anche con irrequietezza e tachicardia. Tale disturbo può divenire fortemente limitante. I ricercatori hanno evidenziato che la terapia cognitivo-comportamentale è stata efficace nella riduzione dell’ansia, della depressione e della tendenza a preoccuparsi. L’efficacia è stata evidenziata rispetto a gruppi di controllo che non hanno ricevuto trattamento o che hanno ricevuto altre forme di psicoterapie. Alla stessa conclusione sono arrivati i ricercatori che si sono occupati di verificare l’efficacia della psicoterapia nei casi di ansia sociale. A rinforzare l’efficacia della psicoterapia vi sono i numerosi studi che indagano gli effetti sul cervello. Queste ricerche vengono effettuate attraverso l’uso di strumenti complessi come tomografia a emissione di positroni. Queste ricerche hanno mostrato come la psicoterapia porti ad un cambiamento significativo nel funzionamento del cervello nei soggetti con disagio psicologico. I cambiamenti cerebrali mostrano una relazione con il miglioramento dei pazienti. Quindi, alla domanda posta in alto possiamo rispondere affermando: La psicoterapia funziona.
Dott. Angelo Collevecchio, Psicologo e Psicoterapeuta
Sito: www.drcollevecchio.it