C’erano una volta i matti
Bersaglieri, all’assalto!
Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il monumento venne posizionato all’interno del Giardino Lamarmora, un piccolo giardino di 6200 metri quadrati, donato nel 1862 alla Città di Torino da Alfonso Lamarmora (fratello minore di Alessandro). Il monumento celebrativo al Centenario venne posizionato vicino all’opera dedicata ad Alessandro Lamarmora, fondatore del corpo militare
Situata nel giardino Lamarmora, all’angolo tra via Bertola e via Stampatori, si innalza una massiccia struttura lapidea di forma quadrangolare. Nella parte frontale un rilievo bronzeo raffigura un manipolo di bersaglieri che muove compatto all’assalto, animato e guidato dall’allegoria alata della Patria vittoriosa. Dalla rigida struttura di pietra sporgono i corpi dei militari che, macabri e scavati, contemplano e quasi scavalcano un compagno morente completamente nudo.
Le due parti, ossia il gruppo bronzeo e la struttura lapidea, sembranoessere poste in totale disarmonia tra loro, oscillando tra vibrazioni di forme ed instabili equilibri; grazie a tutti questi elementi, la scultura assume un messaggio significante, riflettendo sui temi della morte e della memoria.
Le prime notizie del monumento al Centenario dei bersaglieri risalgono al 1936, occasione in cui si festeggiarono i 100 anni della fondazione dell’arma che, per volere di Benito Mussolini, si svolse con due adunate: la prima a Torino e la seguente a Roma. L’idea di commemorare i caduti di un corpo militare nacque dalla volontà dei commilitoni di ricordare le imprese dell’arma e i loro compagni deceduti.
Fu il presidente generale della sezione del corpo torinese, Luigi Bossi, di concerto con tutte le sezioni dell’Associazione Nazionale Bersaglieri, che decise di commemorare l’anniversario con un segno tangibile e permanente da tramandare a ricordo del grande raduno e a venerazione delle stirpi future.
Durante l’assemblea convocata dal Podestà di Torino per decidere che tipo di monumento erigere in onore della commemorazione, Luigi Bossi fece presente che vi fosse già un altorilievo dedicato ai bersaglieri del IV reggimento della caserma Monte Grappa, sede del reggimento omonimo. Il monumento venne eretto nel 1923 grazie ad una sottoscrizione popolare e fu completamente realizzato dallo scultore Giorgio Ceragioli.
L’opera del Ceragioli, carica dello spirito bersaglieresco, costituì (dal 1923 fino al quel momento) la parte superiore della lapide murata all’esterno della caserma. Nel 1936, però, con il passaggio del IV bersaglieri dalla regione Crocetta a via Asti, secondo il presidente della sezione, l’opera per ragioni ideologiche e di prassi conservative non ebbe più ragione di stare in strutture militari o affini.Venne così proposta, da Luigi Bossi, la nuova collocazione del monumento nel centro di Torino, in onore sia alla stessa città che, sotto Carlo Alberto, diede vita al corpo militare, sia alla commemorazione della nascita dell’arma.
Su volontà del Capo del Governo e in base agli ordini del Ministro dell’Educazione Nazionale, la Città di Torino provvide alla rimozione del monumento dalla caserma e incaricò uno scultore sconosciuto di costruire, in un tempo molto ridotto, il basamento lapideo sul quale, ancora oggi, si inserisce l’altorilievo.
Il monumento venne posizionato all’interno del Giardino Lamarmora, un piccolo giardino di 6200 metri quadrati, donato nel 1862 alla Città di Torino da Alfonso Lamarmora (fratello minore di Alessandro). Il monumento celebrativo al Centenario dell’arma venne posizionato vicino all’opera dedicata ad Alessandro Lamarmora, fondatore del corpo militare.
Anche per oggi la nostra passeggiata alla ricerca delle meraviglie della città termina qui. L’appuntamento è per la prossima volta con Torino e i suoi splendidi monumenti.
Simona Pili Stella
(Foto: Museo Torino)
Gli acchiappaluna
La luna ricama di luce l’acqua del Maggiore, dondolando al ritmo delle onde. I cinque amici, pur essendosi resi conto dell’assurdità della loro impresa, almeno un tentativo decidono di farlo
“…Tacum i tach… Mi, tacat i tach a Ti che ti tacat i tach? Tacatai ti i tò tach, ti che ti tacat i tach…”. (“Attaccami i tacchi… Io, attaccarti i tacchi a te che attacchi i tacchi? Attaccateli tu i tuoi tacchi, tu che attacchi i tacchi!”) Ogni mattina, quando Berto della Rosetta passa davanti alla bottega di Guido, il calzolaio, è sempre la stessa identica scena. Giunto in prossimità della porta del negozietto comincia a cantilenare a gran voce. Sa bene che all’amico quella filastrocca dà sui nervi ma lui lo fa apposta e continua fino a quando l’altro compare sull’uscio con una vecchia scarpa o una ciabatta e, imprecando, gliela tira. E’ così che si salutano. Bizzarro, vero? E non è niente. Dovreste vedere quando si trovano all’osteria o in qualche altro ritrovo. Si guardano in cagnesco come se dovessero litigare su ogni cosa, e poi si sfidano a proverbi e scioglilingua. Sì, proprio così: una gara incruenta ma ricca di colpi di scena. Volete un esempio? Stamattina, appena si sono visti è iniziato il solito duello. “Il calzolaio non giudichi oltre la scarpa”, ha sentenziato Berto, lasciando intendere all’altro che farebbe bene a fare il suo mestiere standosene zitto. “Sai qual è il colmo per un panettiere come te? Avere una madre che si chiama Rosetta”, ha risposto Guido, sganasciandosi dalle risate. L’altro, con una smorfia e una punta di perfidia, risponde: “Sai qual è il colmo per un calzolaio come te? Trovare un concorrente che ti faccia le scarpe. Ma non c’è pericolo: vedo che hai sempre le scarpe rotte”. Guido, scuro in volto, non lascia cadere la cosa e ribatte: “Dai, Berto, non esagerare, eh? Dagli un taglio. Non è pane per i tuoi denti e non provarti a rendere pan per focaccia, caro il mio mangiapane a tradimento. Vai a insaccare la nebbia invece che la farina, và… Sempre lì ad aprire la bocca e parlare a vanvera”.
Meno male che sono amici, altrimenti la disputa finirebbe male. Così, raggiunto l’apice della polemica, come d’incanto, si danno delle gran pacche sulle spalle e vanno, tenendosi a braccetto, fino all’Osteria per il primo brindisi della giornata. Insieme agli altri amici formano un bel gruppo, senza legami di parentela tra loro (“I parenti sono come scarpe. Più sono stretti e più fanno male”, dice Guido che di scarpe, com’è ovvio, se ne intende.)Sono tutti di Oltrefiume e, ovviamente, sono degli Zulù, portando con spavalderia il soprannome degli abitanti della frazione raccolta tra il Selvaspessa, la Tranquilla, la Viscanìa e il confine di Feriolo. Tutti pronti a far “baracca”, magari anche a litigare tra di loro ma disposti anche a farsi in quattro quando uno di loro è in difficoltà e necessita dell’impegno solidale degli altri. Sembrano quasi una confraternita, come ha detto un giorno Don Piero, scuotendo la testa. “ Come no! Siamo la confraternita degli Zulù. Un po’ matti, un po’ balordi ma di buon cuore”, ci tengono a precisare. Per essere originali lo sono senz’altro. Forse anche un tantino troppo originali. Berto, Guido, Merico, Gianni e Luciano sono compagni di briscole e bisbocce, gran giocatori di carte ma soprattutto di bocce. Luciano è il “puntatore” del gruppo. Preciso come uno svizzero nell’accostare la boccia al pallino. Guido e Gianni, esperti nella “raffa”, bocciano al volo che è un piacere, mostrando dei tiri da veri cecchini.
Berto e Merico sono, come dire? più “universali”: non eccellendo in nessuna specialità, si arrangiano un po’ con l’una e un po’ con l’altra. Insieme, però, nelle gare sui campi dei Circoli e delle bocciofile, dimostrano d’essere una squadra mica male. Si sono dati anche un nome: “Le bocce degli Zulù”. Che, volendo, può essere esteso all’altra loro caratteristica: l’essere dei testoni, avere delle “bocce” dure come il granito delle cave sul monte Camoscio. In questi giorni, finito di lavorare, si trovano a far due chiacchiere ai tavolini del Circolo. Si sta ancora bene, all’aperto, perché è un autunno strano. Sul calendario di Frate Indovino, affisso nella bacheca a fianco dell’entrata del consorzio agrario, la pagina d’ottobre, con le sue fasi lunari, sta per lasciar posto a quella di novembre, ma l’aria resta tiepida e la luce più viva del solito. Pare più stagione di mosto spumeggiante d’uva americana e di funghi più che di nebbie, primi freddi e caldarroste. Nessun dubbio che, presto o tardi, le cose andranno a posto, immergendo il lago e le colline in quell’opaca e lattiginosa aria triste che solo novembre sa dare al paesaggio. Ma, intanto, è un gran bella cosa potersi godere il clima mite di questa primavera fuori stagione. Così passano le ore, chiacchierando e “trincando”, con le bottiglie che diventano leggere e le teste pesanti. Merico, alzando un po’ la voce, ricorda quella volta che presero in giro stresiani e bavenesi, impegnandosi – in quanto Zulù- a tagliare il fieno del codino dell’Isola Pescatori con i “falcett” di Stresa per dar da mangiare il raccolto ai “gòss” di Baveno, prendendo in giro gli uni e gli altri, utilizzando i soprannomi che gli abitanti dei due comuni si portano addosso da una vita. Ride, ricordando, Merico. E ridono anche gli altri, rammentando che quella volta dovettero affidarsi alla velocità delle loro gambe per scansare le botte che gli uni e gli altri avevano loro promesso in quantità non certo modica. Sono dei burloni ma anche, in fondo, dei creduloni.
E così, guardando la luna fare capolino in cielo, proprio dietro al cucuzzolo tondo della vetta, Gianni si alza di scatto, quasi avesse il fuoco sotto il sedere, gridando: “E se andassimo su con la scala del Gioacchino a prenderla e portarla giù, quella luna là? Avremmo luce gratis sempre e per tutti. Eh, che ne dite?Finiremmo su tutti i giornali”. L’idea è così balzana che più balzana non si può. Gli altri quattro guardano Gianni con stupore, come si guardano i matti quando straparlano, quando sono “fora da testa”. Ma, stupore nello stupore, tre di loro dicono all’unisono, a conferma del loro essere dei balordi che, per di più, hanno alzato il gomito più del solito: “Dai… che idea fantastica!”. Solo Guido, scuotendo la testa, mormora “Ma va a Bagg a sunà l’organ, ciaparàtt d’un ciaparàtt!” (che, tradotto per chi non è un mezzo sangue lombardo-piemontese come noi, equivale a “vai a Baggio a suonare l’organo! Buono a nulla di un buono a nulla!”. Un modo per mandare a quel paese chi s’accusa di falsità poiché nella chiesa di Baggio, alla periferia milanese, l’organo per esserci c’è ma è dipinto sul muro dato che la chiesa non poteva permettersene uno vero.) Ma non perdiamoci in particolari. Fatto sta che alla Confraternita degli Zulù l’idea di un’impresa così strampalata piace. Ad essere sinceri, piace molto. Anche Guido, nonostante il suo scetticismo, non può tirarsi indietro. Guarda storto Gianni e, tradendo le origini meneghine, borbotta a mezza voce un “te ghè ciapà la vaca per i ball”, traducendolo per tutti in un “stai facendo un lavoro sbagliato, alla rovescia”. Ma ormai è tardi e la decisione è presa: si va su al Mottarone per acchiappare la luna. Occorrono, però, una scala bella lunga e delle corde . “Non possiamo andar su per boschi e sentieri con in spalla una scala”, dice Berto.
A maggior ragione se si tratta di una scala lunga. Dove si può trovare un attrezzo del genere? L’idea viene a Merico: “ Cavolo, ce n’è una che fa al caso nostro, la scala a pioli del Gìmell, su in Scerèa”. Recuperate delle lunghe corde nel magazzino della Navigazione (“Si chiamano Pietro-torna-indietro, eh? Ci siamo capiti, balordoni? Devono tornare qui”, si raccomanda Duilio Ripari, vociando dal suo ufficio all’Imbarcadero), si parte. Con passo svelto, in breve, si guadagna il sentiero che sale dopo il ponticello sul Selvaspessa fin su, oltre la Fraccaroli. Da lì, tra boschi di castagni e faggi, a mezzacosta, si va a Loita e poi a Campino. Dietro la casa del prevosto s’incontrano il campo di patate e l’orto, dove don Gallia coltiva la verdura. Il sole sta tramontando e le ombre si allungano tra gli alberi. All’alpe Scerèa una volpe svicola via in mezzo al prato, disturbata mentre – con ogni probabilità – sta architettando l’assalto alle galline del Gìmell. In fondo la fulva predatrice ha avuto una gran botta di fortuna. Non può sapere che l’anziano alpigiano la sta aspettando con la sua doppietta, pronto a scaricarle addosso le cartucce caricate a pallettoni. “Bruta logia d’una vulp”, impreca l’Aurelio Gemelli, conosciuto da tutti come il Gìmell, agitando in aria il pugno. Si era appostato dietro al pollaio, pronto a far fuoco, e l’arrivo dei cinque Zulù gli ha rovinato la sorpresa. “Anche stavolta, quella bestiaccia, ha salvato la ghirba ma non è sempre festa. E voi, cocomeri, cosa fate qui all’alpe? Non potevate stare giù in paese a fare i fannulloni? Siete amici miei o amici della volpe?” Tocca a Gianni, titolare dell’idea, esaurite le scuse, spiegare il perché e il per come di quella visita.
Non è ben chiaro, a questo punto, cosa stia dicendo il Gìmellma dal colorito del volto, rosso come un peperone maturo, è meglio lasciar perdere. Comunque, il prestito della scala è concesso. Con una raccomandazione: “Attenti, balordi. La scala è vecchia e qualche piolo malfermo. Io l’usavo per salire sul tetto del fienile ma ora non mi fido più, alla mia età…”. Raggiunto l’obiettivo, i cinque salutano e, torce elettriche alla mano perché è ormai buio, attraversano il prato. Berto davanti e Gianni dietro, portano la scala e, per poco, non calpestano un riccio che sta lì, vicino al vecchio melo selvatico. Intento a caricarsi una raggrinzita mela sulla schiena, dopo averla inforcata con i suoi aculei, viene evitato per un soffio dallo scarpone numero quarantasei di Berto. Pochi centimetri più in là e addio riccio. Gianni impreca: “Stai attento a dove metti i piedi, crapone!“. Berto bofonchia qualche parola di scusa e il riccio, ignaro del rischio corso, continua lentamente nel suo intento d’accumular provviste per l’inverno che non tarderà ad arrivare. Ritornati nel bosco, camminano in fila indiana sul sentiero che sale verso la Vidabbia, accompagnati dallo stridire acuto di una civetta. A notte inoltrata, giunti al margine del bosco di querce, restano lì, impalati e a bocca aperta, davanti allo spettacolo della luna che inonda di luce la vetta senz’alberi. E’ bellissima. Grande, lucente e tonda. Così bella da far male al cuore. Da ieri è tornata piena e, a sentir Berto, pare una gran bella pagnotta. “Sì, di quelle dorate, gonfie, che facciamo al venerdì nel forno di mia madre, della Rosetta”, aggiunge. “Ma no, dai”, lo interrompe Gianni. “Sembra piuttosto una polenta. Guarda bene. La vedi com’è gialla?”. “Ma la polenta non è tonda e questa è perfetta come un cerchione delle bici del Carlin, quello che ha aperto l’officina da ciclista sul lungolago”, sottolinea a sua volta Merico. Insomma, ognuno la vede a modo suo ma tutti restano incantati quando, giunti sulla sommità del cucuzzolo, si voltano verso il lago e, giù in fondo, tra una riva e l’altra, oltre alle luci dei paesi tremolanti come fiammelle, vedono i larghi riflessi sull’acqua. La luce lunare gioca con l’acqua e risalta le sagome scure delle imbarcazioni attraccate all’Isola Pescatori. Si vede anche la costa e, spostandosi in posizione più favorevole, Baveno e il suo lungolago.
Dal Molino di Ripa alla pianta storta, dall’imbarcadero alle sagome scure nei pressi del Marmo Vallestrona, più in là, verso Feriolo e Fondotoce. La luna ricama di luce l’acqua del Maggiore, dondolando al ritmo delle onde. I cinque amici, pur essendosi resi conto dell’assurdità della loro impresa, almeno un tentativo decidono di farlo. La scala a pioli viene issata in direzione dell’astro lucente. In tre – Berto, Merico e Guido – hanno il compito di tenerla ferma mentre Gianni sale su con la corda che gli ha passato Luciano. Dondolando pericolosamente, con la mano libera, Gianni lancia la corda che cade di sotto, in testa a Luciano che, imprecando, reclama più attenzione. Anche la seconda corda finisce nel vuoto con un sibilo, senza afferrare un bel nulla, frustando il malcapitato di turno che, stavolta, è Merico. La scala, già malferma, persa la presa di uno dei tre, cade con Gianni che lancia un urlo mentre finisce a terra. Il crinale erboso e i cespugli attorno attutiscono la caduta e Gianni se la cava con poco, cadendo di terga, lamentandosi. La luna resta là, in cielo. Irraggiungibile, per quanto appaia vicina, quasi a portata di mano. L’impresa è fallita. L’operazione “acchiappa la luna” si è rivelata ciò che era: una goliardata, un folle disegno al quale nessuno dei cinque credeva davvero. In fondo, la luna sta bene dove sta. E’ di tutti. E di tutti deve rimanere. Nessuno si potrebbe permettere il lusso di tenersela tutta per se. Per i cinque non è una sconfitta, come diranno poi all’osteria, tra i sorrisi maliziosi e le battute degli altri. “E’ stata una rinuncia”, dice serio Gianni, facendo capire che si è trattato, per scelta loro, di un gesto generoso, altruista. Lasciare la luna in cielo, libera, è stata una cosa che va bene così. E poi, non avrebbero saputo dove metterla. Così sono scesi allegri, cantando, a mani vuote. Solo che, giunti in vista delle prime case di Oltrefiume, si accorgono di aver lasciato la scala del Gìmell in vetta. Un rapido sguardo basta per decidere che sarà recuperata in un altro momento. Per quella volta lì, bastava e avanzava.
Come l’acqua di Sebilj
“Come l’acqua di Sebilj”, libro del torinese Alessandro Cerutti (Edizioni Visual Grafika,2019) può essere considerato un romanzo “di formazione”, dove il protagonista vive un’esperienza che lo farà evolvere verso la maturazione e l’età adulta, raccontandone emozioni, sentimenti, i progetti di vita.
La vicenda si svolge tra Torino e la Slovenia, nel 1993. Marco, 26 anni, vive incurante di tutto ciò che gli accade attorno. Gli amici sono solo compagni di divertimento e le ragazze una piacevole distrazione. Scuola e calcetto rappresentano gli interessi di un’esistenza vissuta con una certa spensieratezza e un po’ di cinismo egoistico, forse in ragione dell’età. Il protagonista ha un carattere irruento, emotivo. E la “bolla” artefatta in cui vive esploderà quando Marco Veroni, seppur controvoglia, parteciperà ad un viaggio che gli farà incontrare la durezza di un campo profughi che, in Slovenia, ospita dei bosniaci fuggiti dal paese in guerra. La lotta per la sopravvivenza, il ricordo dei cari scomparsi, l’amore e la speranza sfidano la violenza, perché, anche se sembra che non ci sia alcuna ragione per sognare, esiste la possibilità di trovare un posto migliore dove riprendere a vivere. Nei giorni in cui inizia il viaggio dei protagonisti del libro a Mostar veniva distrutto a cannonate il ponte sulla Neretva. Accadeva, forse non per caso, nello stesso esatto giorno – il 9 dicembre –in cui quattro anni prima, nel 1989, veniva abbattuto il muro di Berlino. Gorbaciov riceveva il nobel per la pace. A Maastricht, cittadina olandese sulla Mosa, un trattato più economico che politico sanciva la nascita dell’Unione europea. La “cortina di ferro” non c’era più e l’est europeo si disgregava, paese dopo paese. In Israele veniva raggiunto l’accordo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin. L’Italia era alle prese con “mani pulite” e di fatto il “Bel Paese” passava dalla prima alla seconda repubblica. Ancora pochi mesi e Gino Strada fondava Emergency, l’IRA annunciava lo storico cessate il fuoco, a Mogadiscio venivano uccisi la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il suo cameraman, Miran Hrovatin. In Ruanda si consumava il genocidio messo in atto dagli Hutu contro la minoranza Tutsi. E intanto, nel cuore dell’europa, l’ ex-Jugoslavia bruciava. Nel campo profughi sloveno il protagonista di “Come l’acqua di Sebilj” prova un disagio che, giorno dopo giorno,evolve in una lenta presa di coscienza su ciò che accade attorno a lui: il dramma dei profughi, l’esperienza umanitaria dell’associazione “Pace adesso” e altri sentimenti che lo scuotono nel profondo. Pietà, tenerezza, tristezza e paura, mescolate l’una con l’altra, iniziano a scavare dentro la sua tormentata coscienza a confronto con il dolore di quelle persone alle quali la guerra prodotta da un nazionalismo cieco e violento ha portato via famiglia, casa, affetti, amici. Il racconto di Alessandro Cerutti – docente, laureato in Teologia, autore versatile che ha sperimentato diversi generi letterari – è una piccola ma significativa lezione di vita. Vedere da vicino gli effetti della guerra senza esserne vittime. E tentare di capire, fare qualcosa, scegliersi la parte. Cosa non facile, soprattutto durante la “decade malefica” degli anni ’90 nei Balcani, nel cuore dolente dell’Europa.
Marco Travaglini
Un piccolo borgo vicino alla più grande Umago, in una terra di frontiera, questa dell’Istria, punto d’incontro di tante etnie (Italiani, Slavi e Croati), nei secoli assoggettati alla Repubblica Veneta, all’Impero Austro-Ungarico, all’Italia e infine inglobati nell’allora nascente Jugoslavia. Terra aspra, ricca di contrasti, che si riflettono anche nei suoi abitanti, spesso diffidenti, in ragione della precarietà dello stesso luogo di vita
In “Materada”, scritto nel 1960 da Fulvio Tomizza, si narra la storia dell’esodo istriano molto meglio di quanto possa fare un qualsiasi trattato storiografico o sociologico. Parole e storie dove s’incastrano – come tessere di un mosaico – frasi, fatti e vita. Un romanzo crudo, dove la narrazione è sofferta e il ricordo della propria terra (Tomizza vi era nato nel 1935) riemerge con forza. Claudio Magris, a proposito di Materada, ha scritto: “Quando uscì nel 1960 “Materada” – il primo e forse miglior romanzo dell’allora giovanissimo e sconosciuto Fulvio Tomizza – arricchì di una nuova e forte pagina la poesia della frontiera, delle sue lacerazioni e della sua unità. Il mondo da cui nasceva il libro – l’Istria nel momento dell’ultimo esodo, nel 1954 – era un mondo realmente straziato dai rancori, torti e vendette sanguinose fra italiani e slavi e Tomizza l’aveva vissuto e patito”.
Materada è un piccolo borgo vicino alla più grande Umago, in una terra di frontiera, questa dell’Istria, punto d’incontro di tante etnie (Italiani, Slavi e Croati), nei secoli assoggettati alla Repubblica Veneta, all’Impero Austro-Ungarico, all’Italia e infine inglobati nell’allora nascente Jugoslavia. Terra aspra, ricca di contrasti, che si riflettono anche nei suoi abitanti, spesso diffidenti, in ragione della precarietà dello stesso luogo di vita.
Al termine dell’ultima guerra mondiale, dopo lunghe trattative diplomatiche si definì un nuovo assetto territoriale che assegnò alla Jugoslavia gran parte della Venezia Giulia (in pratica quasi tutta l’Istria e le terre ad Est di Gorizia). Il trattato di Parigi del 1947 ratificò questo passaggio di Istria e Dalmazia alla Jugoslavia, scatenando l’esodo del novanta per cento della popolazione italiana (circa 300.000 persone), che abbandonò la casa e gli averi e cercò rifugio in Italia o emigrò oltreoceano. Con i trattati del 1954 la zona B dell’Istria, in cui Materada era inclusa, venne assegnata definitivamente alla Jugoslavia anche se fu permesso scegliere se restare o passare a Trieste, verso l’Italia: è in questo lacerante scenario storico che Tomizza, allora venticinquenne, ambientò”Materada”. L’autore, che visse quei periodi, ne fece un romanzo corale, per quanto incentrato sulla famiglia Kozlovich, in cui si rifletteva la sua esperienza personale. Un libro in cui speranze, delusioni e rassegnazioni si avvicendano, emergono, si assopiscono, ritornano.
E’ palpabile lo stato d’animo degli italiani, l’emarginazione nei loro confronti del regime comunista di Tito, un intreccio di storie di tanta povera gente la cui unica e ultima scelta è di restare, perdendo la propria identità nazionale, o andarsene verso l’ignoto. Da circa un decennio, il 10 febbraio, si celebra il Giorno del Ricordo ( istituito con la legge 30 marzo 2004/92) per conservare e rinnovare “la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Grazie anche a “Materada” e a Fulvio Tomizza, scrittore di frontiera, quella storia non sarà dimenticata.
Marco Travaglini
Plum cake dolce di zucchine
Una ricetta insolita un dolce a base di zucchine, vero? Il risultato credetemi vi stupira’, e’ un dolce soffice e profumato, veloce da realizzare, adatto a tutti, ideale per ogni momento della giornata, provare per credere!
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Ingredienti
250gr. di farina 00
3 uova intere
180gr. di zucchero
80ml di olio di semi
30gr. di uvetta
50gr. di cioccolato fondente
20gr. di noci
200gr. di zucchine fresche
1 bustina di lievito per dolci
1 pizzico di cannella (facoltativo)
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Lavare le zucchine, grattugiarle e lasciarle scolare per almeno un’ora per eliminare l’acqua di vegetazione. Nel mixer sbattere lo zucchero con le uova, aggiungere la farina, la bustina di lievito e l’olio di semi. Aggiungere all’impasto le zucchine, il cioccolato ridotto a scaglie, l’uvetta precedentemente ammollata in acqua tiepida e strizzata, le noci tritate e un pizzico di cannella in polvere. Mescolare bene e versare in uno stampo da plum cake foderato con carta forno. Cuocere in forno preriscaldato a 180 gradi per circa 45 minuti. Lasciar raffreddare e servire a fette.
Paperita Patty
Passi stracciati
RILETTI PER VOI / “Passi stracciati” (Voglino editrice), il libro di Erri De Luca racconta l’incontro con i reclusi di un ospedale psichiatrico in Bosnia. Il testo, un vero e proprio romanzo poetico, è accompagnato dalle foto in bianco e nero di Claudio Massarente che “restituiscono l’abbandono di un popolo lasciato a se stesso”.
Uno squarcio duro su un paese che scompariva, dopo la dissoluzione della ex Jugoslavia e l’incedere drammatico del conflitto che l’insanguinò nella prima metà degli anni ’90. “Eravamo troppo pochi per diventare lago e troppi per essere inghiottiti dalla terra”, diceva lo scrittore Mehmed Mesa Selimovic, bosniaco d’origine musulmana. L’incontro coi reclusi dell’ospedale psichiatrico bosniaco, dove la pazzia risulta essere più “normale” della guerra che si sta combattendo, si accompagna ai gesti di solidarietà verso la gente che soffriva, verso quel paese al quale la comunità internazionale aveva riservato una colpevole indifferenza che sfociò in silenziosa complicità con violenti e assassini. Una vicenda che annunciava come il dopoguerra sarebbe stato altrettanto duro quanto la guerra stessa. Dal testo è stato poi tratto l’omonimo spettacolo di Assemblea Teatro. Scrive Renzo Sicco, scrittore e regista, direttore artistico della compagnia teatrale torinese: “Ci impressionò:c’erano dentro guerra, dolore, violenza e amore. Decidemmo un allestimento per voce e percussioni, una batteria per simulare mitragliatrici e bombe. Un’assordante continua esplosione contro una voce flebile,che però diventa superiore perché la forza è motivata dall’amore”. “Passi stracciati” è una riflessione sull’assenza della comunità internazionale nella “guerra fredda” compensata, solo in parte, dal volontariato di tanti che, come Erri De Luca (a quel tempo autista di camion per il trasporto di viveri e medicinali),si prodigarono a garantire aiuti umanitari. Resta indelebile la terribile testimonianza di dolcezza della protagonista, Glazba. La ragazza, con la sua lucida follia, cancella la sua precedente identità ( Sjenka, “ombra”) e diventa “Glazba”, parola che in superficie appare dura ma dal significato dolce che, tradotta, equivale, a “musica”. La pazzia permette a lei di intravedere ancora un gesto possibile d’amore, negato invece nella realtà vissuta tutt’attorno e descritta con terribile efficacia dalle fotografie scattate nei luoghi in cui è ambientata la storia nel periodo immediatamente successivo alla guerra. Una lezione poetica contro i conflitti, i muri che vengono eretti, il nazionalismo esasperato al punto da generare odio e violenza. Una buona lettura utile per riflettere sul recente passato e – per dirla con le parole di Predrag Matvejević, indimenticabile e finissimo intellettuale – riflettere sul recente passato per capire il presente e pensare al futuro, “poiché un popolo non esiste senza la sua memoria”.
Marco Travaglini
Tradotto in moltissime lingue, con la sua intelligente leggerezza, resta uno degli omaggi più belli alla terra dove lo scrittore nacque il 23 ottobre del 1920
“In mezzo alle montagne c’è il lago d’Orta. In mezzo al lago d’Orta, ma non proprio a metà, c’è l’isola di San Giulio. Sull’isola di San Giulio c’è la villa del barone Lamberto,un signore molto vecchio (ha novantatre anni),assai ricco (possiede ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore, eccetera),sempre malato.
Le sue malattie sono ventiquattro.Solo il maggiordomo Anselmo se le ricorda tutte.Le tiene elencate in ordine alfabetico in un piccolo taccuino:asma, arteriosclerosi, artrite, artrosi,bronchite cronica, e così avanti fino alla zeta di zoppia. Accanto ad ogni malattia Anselmo ha annotato le medicine da prendere, a che ora del giorno e della notte,i cibi permessi e quelli vietati,le raccomandazioni dei dottori..“Stare attenti al sale, che fa aumentare la pressione”, “Limitare lo zucchero, che non va d’accordo con il diabete”,”evitare le emozioni, le scale, le correnti d’aria,la pioggia, il sole e la luna”. Così inizia “C’era due volte il Barone Lamberto ovvero I misteri dell’isola di San Giulio” , uno dei racconti più belli scritti per i ragazzi da Gianni Rodari , utilizzando la forma del romanzo breve. L’intera narrazione si dipana attorno al rocambolesco tentativo, messo in atto dal barone Lamberto, insieme al fido maggiordomo Anselmo, di evitare un ormai inevitabile trapasso a miglior vita. L’isola di San Giulio, il Lago d’Orta e i suoi dintorni diventano protagonisti, insieme al barone e ai vari personaggi, del racconto rodariano. Il vecchio e ricchissimo novantaquattrenne barone Lamberto vive in una villa sull’isola di San Giulio con il maggiordomo Anselmo e sei persone il cui impiego consiste nel ripetere sempre , a turno, lungo le ventiquattr’ore, il nome del barone in un microfono: Delfina, Armando, il signor Giacomini, la signora Zanzi, il signor Bergamini e la signora Merlo.
Queste sei persone, per ogni “Lamberto” pronunciato vengono profumatamente pagate poiché questo è il segreto che tiene in vita il barone, e Lamberto ha iniziato a metterlo in pratica dopo aver sentito una profezia a riguardo (colui il cui nome è sempre pronunciato resta in vita) da un arabo durante un viaggio in Egitto. Così, mentre le voci dei sei si diffondono nel palazzo del barone attraverso un sistema di piccoli altoparlanti posizionati ovunque, il nobiluomo ringiovanisce ogni giorno sempre di più, nonostante le 24 malattie di cui soffre ( che il fido Anselmo ha scritto in ordine alfabetico nel suo taccuino). Ma un giorno l’isola di San Giulio viene occupata da una banda di malfattori che sequestrano il barone, chiedendo ai direttori delle ventiquattro banche che possiede forti somme di denaro in cambio della sua libertà. La storia va letta e non raccontata: solo così si scopriranno i progetti del nipote del barone, Ottavio, e come finirà l’intera vicenda. Le storie di Rodari offrono divertimento e una girandola di situazioni e personaggi esilaranti: un modo di comprendere questo nostro mondo. E, come ha fatto spesso, anche in questo caso lascia che il finale sia deciso dal lettore. L’idea del racconto venne spiegata così dallo stesso autore : “…il barone Lamberto è nato diversi anni fa, in un appunto a margine di un libro sulla religione dell’Antico Egitto”, In quel libro avevo trovato un versetto che mi aveva colpito: “L’uomo il cui nome è detto resta in vita”. Lì per lì sembrava solo una poetica immagine dei rapporti tra vivi e defunti: questi, in qualche modo, continuano a vivere fin che si parla di loro, fin che il loro nome e la loro memoria tornano nei discorsi dei loro cari. Io però ho preso il versetto alla lettera come si vedrà. Così è nato il libro. Di più non posso dire, altrimenti toglierei ogni sorpresa al racconto”. Gianni Rodari confessò di aver scritto questa storia “ dopo averla raccontata a voce decine e decine di volte ad altrettante scolaresche, delle elementari e delle medie, da un capo all’altro della penisola. Ogni volta ricevevo critiche, suggerimenti, proposte. Ogni volta arricchivo la storia di nuovi episodi, vi scoprivo nuovi significati…Dovendo preparare un’edizione per le scuole medie ho subito rinunciato ad aggiungere, pagina per pagina, note esplicative, chiarimenti di parole, informazioni sui luoghi e simili. Non mi sembravano indispensabili: per i luoghi, basterà dare un’occhiata alla carta geografica del Piemonte, per le parole, basterà un vocabolario, e il piacere di sfogliarlo”. Così venne alla luce “C’era due volte il Barone Lamberto” che , tradotto in moltissime lingue, con la sua intelligente leggerezza, resta uno degli omaggi più belli alla terra dove lo scrittore nacque il 23 ottobre del 1920.
Marco Travaglini
Quando guidavano le stelle
Di porto in porto, di tappa in tappa, si frequentano epoche diverse, vivendo il clima di Atene nel V secolo avanti Cristo, di Cartagine alla vigilia della terza guerra punica oppure della stupenda Valencia del Cid Campeador per non parlare della Genova medievale, dell’affascinante Istanbul
“Quando guidavano le stelle. Viaggio sentimentale nel Mediterraneo” è l’interessante libro di Alessandro Vanoli pubblicato da Il Mulino nella collana Intersezioni. Un viaggio dove conta il sentimento ma anche la realtà delle rotte, di incontri e storia perché “troppo poco quello che gli storici sanno davvero degli uomini di cui scrivono, delle loro paure e dei loro sogni; troppo distanti le loro passioni, le loro voci. Proprio per questo è necessario issare le vele e, con gli occhi alle stelle, raccontare semplicemente un viaggio”.In quattro navigazioni , il viaggio si snoda dall’Egeo dei tempi di Ulisse alle coste romane di Ostia, da Costantinopoli all’Andalusia, da Ragusa a Cipro e infine da Alessandria d’Egitto a Ravenna. Di porto in porto, di tappa in tappa, si frequentano epoche diverse, vivendo il clima di Atene nel V secolo avanti Cristo, di Cartagine alla vigilia della terza guerra punica oppure della stupenda Valencia del Cid Campeador per non parlare della Genova medievale, dell’affascinante Istanbul, sospesa tra mondi e culture, e la Napoli dell’inizio del Novecento. Ogni approdo in un porto narra un pezzo di storia del Mediterraneo, talvolta evocando il ricordo di grandi eventi o riscoprendo personaggi ormai dimenticati, ma sempre parlando di questo mare: il Mediterraneus, che significa in mezzo alle terre, il “mare bianco” dei turchi o il “mare nostrum” dell’antica Roma.
Marco Travaglini