redazione il torinese

La “clinica del telefono” cura con il dialogo i clienti-pazienti

Un negozio di telefonia mobile si può all’occorrenza trasformare in una sorta di “ambulatorio” o studio dello  psicologo. Non c’è il lettino, d’accordo. Ma il “paziente” che entra, più o meno consapevolmente può ottenere sconti non solo sulle tariffe telefoniche e sul traffico internet: anche la psiche avrà i propri vantaggi.

Certo, molto dipende da chi sta dall’altra parte del bancone. Se si incontra Beatrice, addetta alle vendite di una nota compagnia telefonica nel centro di Torino, 30 anni, carina nei modi e nell’aspetto, l’assistenza di “para-psicologa” è garantita. “I nostri clienti sono lo specchio della società. Ci sono quelli gentili, i maleducati, gli arroganti, gli impazienti e ogni altra tipologia che si trova al di là della vetrina, nel mondo esterno”, ci spiega. “Di sicuro non sono pochi quelli che, magari con la scusa di una ricarica, in realtà hanno solo bisogno di qualcuno con cui parlare”.

 

E tu ti presti a questa funzione di “confessore”?

“Spesso abbiamo una lunga coda di persone e non sempre è possibile ascoltare tutti. La gentilezza, comunque, deve essere la nostra prassi. Poi, quando ti capita il cliente che, come il sudamericano passato da noi tempo fa, aveva appena perso la figlia nel paese d’origine e la settimana dopo, improvvisamente, anche la mamma, la coscienza ti dice che devi ascoltarlo e cercare nel limite del possibile di rincuorarlo”.

 

Chissà quante “tipologie umane” avrai conosciuto. Qualche cliente curioso?

“Beh, per esempio mi è capitata la vecchietta con disturbi senili che non ricordava chi fosse e dove fosse. Si è seduta al bancone e si è messa a leggere il giornale per un bel po’. Faceva tenerezza. Le abbiamo offerto un caffè e abbiamo dovuto rivolgerci alla polizia per farle ritrovare casa. Curioso anche un gruppo di cinesi: solo uno di loro conosceva l’italiano. Circondato da una decina di suoi conterranei, ognuno dei quali aveva qualche richiesta da fare relativamente al proprio telefono, traduceva le mie spiegazioni. Poi sono diventati tutti clienti affezionati! Ci sono anche personaggi ricorrenti, come un orientale e un argentino che si fanno chiamare rispettivamente Mario e Marco, all’italiana, chissà perché! Oppure un romano che sembra un personaggio alla Carlo Verdone, con occhiali a specchio, camicia aperta sul petto villoso, giubbotto in pelle e  catena d’oro al collo. Simpatico e gentile. Una volta mi ha “difeso” da un terribile vecchietto convinto erroneamente che non gli avessimo effettuato la ricarica. Si era messo a sbraitare e il sosia di Verdone, in pesante romanesco, lo ha praticamente cacciato. E la coppia di sessantenni gay inglesi? Davvero squisiti. Uno dei due veste con naturalezza un abbigliamento stile Ottocento, con calzamaglia, pantaloni a pinocchietto e scarpe d’epoca. Mi viene in mente anche un’altra coppia maschile molto originale. Uno sui 60 e l’altro, giovanissimo, in abiti praticamente femminili.E anche tante coppie clandestine. Tipo il marito che porta prima la moglie e poi si ripresenta con la probabile amante alla quale regala il telefono, facendolo rateizzare sulla propria carta di credito. C’è pure il prototipo del benestante, classico borghese torinese, a dire il vero piuttosto spocchioso, immancabilmente accompagnato dal figlio con tanto di blazer d’ordinanza dai bottoni dorati, indossato sulla camicia immacolata. Insomma, una umanità davvero varia.”

 

Tipi simpatici e positivi, altri un po’ meno. Con un passaggio così affollato, mai avuto problemi di sicurezza? Furti, rapine…

“Una volta un tossico ha spaccato la vetrinetta all’interno del negozio e ha prelevato due cellulari: uno per lui, ha detto, e uno per la sua ragazza. Quando la polizia lo ha fermato mi ha chiesto se per caso non avessi qualcosa da fumare. Sono stata anche derubata della borsa che era nello stanzino. Qualcuno, approfittando del fatto che stavo seguendo i clienti si è introdotto nel retro. Mi è anche capitato di beccare due ragazzi che hanno rubato dei cellulari dalla vetrina, ma il mio titolare li ha inseguiti placcandoli letteralmente. Mi ricordo poi  di due arzille signore anziane che tentavano di fregarci con il resto, proprio in stile Toto’.”

 

Tutti cercano un dialogo, al di là delle esigenze legate a tariffe e telefoni?
“C’è chi confida le proprie ansie e i propri drammi personali. Oppure chi amabilmente ci parla del più e del meno. Ad esempio la signora che ho scoperto avere 60 anni, anche se ne dimostra 40. Un effetto, mi ha spiegato a lungo, dovuto al preparato da lei ideato, macerando le foglie di Aloe che coltiva sul terrazzo di casa: le rendono il viso liscio come quello di una bambina… Oppure l’anziano che ha partecipato a una famosa trasmissione televisiva. Lui però si è dimostrato piuttosto arrogante. Più che dialogare voleva far capire di essere una persona “famosa”, pretendendo di saltare la coda. Appena rientrato da Londra, invece,  un cliente era spaventato perché “sopravvissuto” al recente attentato a Westminster. C’è anche una signora napoletana che litiga con tutti i miei colleghi ma, chissà perché, non con me. E diverse persone che vanno nel panico, hanno il telefono che non funziona e chiedono di inserire la sim nel mio. Ci sono anche visite piacevoli. Una volta sono entrati due modelli californiani stupendi, sembravano i classici surfisti da telefilm, tutte le donne in coda girate a guardarli. Molto carini come modo di fare anche alcuni ragazzi stranieri che lavorano ai mercati generali. Si percepisce chiaramente che si sono profumati e  vestiti al meglio, magari dopo una lunga notte di lavoro hanno cercato di rendersi più che presentabili per venire da noi. Il colmo è quando alcuni soggetti mi propongono di barattare una ricarica con bigiotteria di infimo livello. Ovviamente il baratto non lo posso accettare! Ci sono anche clienti gentilissimi che offrono a me e ai miei colleghi caffè e cioccolatini. Diciamo che non c’è da annoiarsi!”.

 

Nella società interconnessa, che offre mille opportunità per comunicare, sembrerebbe un paradosso. Ma gli episodi che  Beatrice  ci ha raccontato  dimostrano il contrario. Anche un’addetta alla vendita di una compagnia telefonica può rappresentare un’appiglio, un sostegno, un antidoto alla solitudine. Una voce amica alla quale confidare le proprie ansie e frustrazioni. Come diceva quel vecchio spot televisivo? “Il telefono, la tua voce”. Appunto.

I Templari in Monferrato

Alla scoperta del Piemonte/ Gabiano, centro della Valcerrina è un comune ricco di storia e di tradizioni. Pertanto, nel viaggio alla scoperta della Valcerrina Sconosciuta sarà necessari tornarvi più volte nel prossimo futuro. La chiesa parrocchiale del capoluogo è dedicata a San Pietro Apostolo ma c’è nel borgo anche un altro edificio religioso, sia pure di minori dimensioni merita attenzione. E’ la cappella di San Defendente, situata nel centro storico del paese nella borgata cosiddetta del “Rollino” appena prima dell’ingresso principale del Castello, proprietà dei Cattaneo Adorno. Negli ultimi anni è diventata, la sera del Venerdì Santo, una delle tappe iniziali della Via Crucis Animata che è organizzata dalla parrocchia e che ormai attira molti partecipanti, anche dalle province vicine di Asti, Vercelli o della Città Metropolitana di Torino. Lo scorso anno, venendo incontro ad un’idea del parroco del paese, don Carlo Pavin, alcuni componenti dell’Associazione Templari d’Italia, a titolo assolutamente gratuito, ne hanno ripulito e risistemato gli interni. Intanto è stata avviata una precisa ricerca storica sulle origini dell’edificio di culto dalla quale sono emersi alcuni particolari interessanti. Molti ritrovamenti hanno portato a considerare particolarmente anche la figura di un altro Santo, San Biagio, al quale era dedicata una chiesa eretta sulle fondamenta di un castrum romano situato sulla collinetta che domina la borgata di Case Richetta (Ca’d’Ruchetta). Di questa antica chiesa risalente all’anno 1600 rimane poca cosa: nel luogo dove era sita si intravedono ancora tracce delle fondamenta; i mattoni di cui era fatta furono riutilizzati, dopo la sua decadenza, per costruire l’edificio dell’Asilo Infantile “Durazzo Pallavicini”, ora sede dello Story Park.

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La presenza della bella pala d’altare raffigurante San Biagio, traslata nella cappella di San Defendente insieme a diversi arredi ed oggetti sacri, catalogati scrupolosamente dai Templari, testimoniano quanto anche questo Santo fosse venerato dalla gente locale; inoltre, all’entrata del castello, una formella ritrae e ricorda il Santo Vescovo Biagio. Perciò il Parroco vorrebbe co-intitolare la chiesetta di San Defendente anche al Vescovo Martire San Biagio e ripristinare la festa di S. Defendente (2 gennaio), come da antica tradizione gabianese. Occorre a questo punto aprire un’incidentale e fare un riferimento alla chiesa di San Biagio. Una pregevole pubblicazione, a tiratura molto limitata di Mario Richetta, già sindaco di Gabiano, sulla storia della sua famiglia recupera alla memoria collettiva quanto accaduto e ricorda che “Sul Brik di San Biagio, vie era una chiesetta dedicata al Santo, con un suo quadro che fu poi portato nella chiesa di San Defendente vicino al Castello. Nel 1922 la chiesa era con il tetto distrutto e il fattore del Castello decise di portare il quadro a San Defendente e recuperare gran parte dei mattoni per usarli nella costruzione dell’Asilo Infantile di frazione Serra”. Ritornando a San Defendente giova ricordare che era un soldato della Legione di Tebe d’Egitto, guidata da San Maurizio, che fu martirizzato con alcuni compagni di fede ad Agauno, in Francia, presso l’odierna Marsiglia, dove la Legione era accampata. Il Santo è invocato contro il pericolo dei lupi. L’eccidio avvenne mediante decapitazione sembra intorno al 286 d.C. Durante l’episcopato di Teodoro, vescovo di Martigny, verso il 380, si trovò un cimitero gallo – romano e si pensò che fosse il luogo di sepoltura dei Martiri, per cui il presule fece erigere una chiesa in loro onore trasferendovi le reliquie. Il culto prse a diffondersi e a loro vennero dedicate chiese, basiliche, abbazie. Nell secondo XIV San Defendente gode va di un largo culto nell’Italia Settentrionale, venendo rappresentato vestito da militare.

Massimo Iaretti

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Si ringraziano per i loro contributi a questa tappa, don Carlo Pavin, Edi Trentin e Mario Richetta.

 

 

Il Caso Diabolich, assassino misterioso nella Torino Anni ‘50

Era il 14 febbraio 1958, l’ultimo giorno in cui Mario Giliberti, ventisettenne, dipendente Fiat che abitava in quel di Vanchiglia, storico quartiere di Torino, venne visto al bar del piccolo borgo ordinare due caffè. Undici giorni dopo si scoprì il suo cadavere, nella sistemazione trovata per lui da uno zio, nel retrobottega di un vecchio calzolaio, in via Fontanesi 20  Perché venne scelto proprio lui come vittima? Chi era Mario Giliberti? La risposta è sempre stata più o meno unanime: Mario Giliberti era un meridionale, arrivato a Torino l’anno prima. Aveva svolto qualche impiego saltuario per poi finalmente aver realizzato il sogno di molti dell’epoca: essere assunto in fabbrica.

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Schivo, silenzioso, un uomo che non amava l’attenzione su di sé. Con il proseguire delle

indagini,però, la sua figura si colorerà di mistero. Ma andiamo avanti con i fatti. Il corpo fu ritrovato il 25 febbraio, quando un dirigente della Fiat, preoccupato delle ripetute assenze sul posto di lavoro,si recò a casa del giovane per accertarsi che non fosse successo nulla di grave. Qualcosa di grave, invece, era successo: Mario giaceva sul letto in una pozza di sangue, con il segno di diciotto coltellate al petto. Con la scoperta del cadavere, cominciarono a delinearsi i pezzi di quel puzzle, la cui soluzione,per mesi e anni, assillò la polizia, i giornalisti, le strade, gli angoli dei bar, i ballatoi di periferia, le piazze e di cui, ancora oggi, si vocifera. Eh già, perché accanto al corpo, ormai maleodorante, fu ritrovato un biglietto con su scritto: “Troverete l’ASSINO”. Non è un errore di battitura, l’omicida aveva davvero scritto ASSINO. Altro pezzo di questo puzzle misterioso fu la telefonata arrivata, il giorno prima il ritrovamento del corpo, al quotidiano “Stampa Sera”. Una voce, con chiaro accento del Sud Italia, diceva:“Ho ucciso un uomo sulla via di Po”. I giornalisti non diedero peso a quella voce, troppo confusa, troppo vaga. Ma, fortunatamente, l’assassino era un tipo impaziente e quindi lo stesso 25 febbraio fece recapitare una lettera sia al giornale che al Commissariato di   Borgo Po.

Nel biglietto, fu proprio lui a fornire, nascosto tra le parole, l’indirizzo per il ritrovamento del corpo, firmandosi con il nome Diabolich. Di questa vicenda se n’è parlato a lungo. Il killer spietato di Via Fontanesi ha ispirato il famoso fumetto Diabolik, probabilmente ha ispirato anche il “collega” d’oltreoceano Zodiac, ma, soprattutto l’omicida ha fatto tanto parlare di sé per la bravura con cui si è preso gioco delle Forze dell’Ordine. Ma è stata davvero tutta bravura? Se Diabolich avesse compiuto oggi il suo “delitto perfetto” probabilmente non sarebbe stato così bravo.

 Gli investigatori dell’epoca non avevano gli strumenti tecnici per poter analizzare accuratamente le prove, avevano sì l’intuito, ma se questo si plasma all’interno di una cultura chiusa e perbenista, diventa difficile seguirlo. On line ci sono molti articoli che parlano di questo delitto; Maurizio Ternavasio ha scritto anche un libro interessantissimo su questa vicenda. In questa sede proviamo a farci una semplice domanda: perché l’assassino non è mai stato catturato? Aldo Cugini fu arrestato e per ben quattro mesi e mezzo rimase in prigione come presunto colpevole di questa brutale uccisione. La sua colpa fu quella di aver fatto il militare con la vittima, e di avergli scritto una dedica su di una foto che li ritraeva entrambi sorridenti e che fu ritrovata nel portafogli di Mario Giliberti. Si è supposta una relazione omosessuale tra i due avvalorata anche dalla scoperta di un vasetto di vasellina sulla scena del crimine e dal soprannome con cui i due, più una terza persona mai identificata, venivano chiamati dai compagni d’armi: le tre monachelle. Ma mentre Cugini era in carcere, Diabolich continuò a spedire lettere, in cui non solo cercava di scagionare l’uomo che avevano arrestato, ma attraverso le quali voleva farsi scoprire. Ma, facciamo un piccolo passo indietro. La vittima. Chi era? Mario Giliberti aveva “firmato”un bel po’ di volte. I ragazzi dell’epoca, senza occupazione, giravano di caserma in caserma e nel frattempo, oltre a dare il proprio Servizio alla Nazione, avevano pure vitto e alloggio gratuito. Fu scoperto, però, che il ragazzo di origini foggiane, aveva un bel gruzzoletto da parte e sulla scena del crimine vennero ritrovati dei buoni postali tagliuzzati e gettati sul pavimento, il cui ammontare era di circa 200 mila lire. Il ragazzo schivo e riservato aveva sempre una catenina al collo, mai più ritrovata e una fidanzata, residente a Lodi, di cui nessuno ha mai parlato se non con un accenno. L’assassino, nella sua prima lettera, parla di un torto subito. Con molta probabilità i due si conoscevano molto bene e di sicuro non è da escludere che avessero anche una relazione amorosa. Ma se il torto fosse stato non legato alla gelosia? La pista seguita dagli inquirenti dell’epoca e il movente attribuito ad Aldo Cugini fu, appunto, quello di un diverbio finito “molto”male perché il presunto assassino non voleva che la vittima raccontasse della loro tresca. Inoltre Aldo Cugini era una persona benestante, quindi con molta probabilità era anche ricattato economicamente dalla vittima. Le conoscenze odierne in ambito psico-criminologico ci suggeriscono che i delitti d’impeto, dettati dalla rabbia, dal tentativo di rivalsa sull’altro non hanno un modus operandi così lucido. Per quanto Aldo Cugini fosse stato in grado di premeditare il tutto, il grado di coinvolgimento nella storia e la preoccupazione dettata dagli scheletri che continuavano a popolare il suo armadio nonostante l’ingombrante presenza di un morto, non gli avrebbero permesso di essere così sprezzante e temerario tanto da instaurare un gioco con la polizia ed i giornali. Il killer è estremamente lucido, narcisista. Sente il bisogno inconscio di dire “Ci sono, e mi sto prendendo gioco di voi”. L’unica impronta non appartenente alla vittima ritrovata sulla scena del crimine, con molta probabilità seppur inserita nei database odierni della Polizia, non troverebbe nessun riscontro, perché una personalità come quella di Diabolich è poco ipotizzabile abbia ucciso nuovamente. In una sua lettera è proprio lui a dirlo: “Il mio delitto non è un gioco da ripetersi”. Come molti colleghi ed esperti hanno precisato, di sicuro l’intero piano delittuoso si è ispirato al libro di Italo Fasan, Uccidevano di Notte, pubblicato nel 1957. Ma dalla semplice riproduzione di una trama ispiratrice, l’intera vicenda si è trasformata in qualcosa di più grande. Diabolich non è più l’uomo vendicativo che cerca di dissetare la propria sete di sangue. I crimini, il cui movente è la vendetta, solitamente rappresentano il culmine, il punto finale in cui si vuole arrivare. Ma il delitto di via Fontanesi ha rappresentato per Diabolich il punto di partenza. Ci troviamo di fronte ad un uomo fortemente comunicativo che, attraverso le sue missive, racconta al mondo della sua bravura, della sua audacia. Questo ricalcare continuamente la “perfezione” dell’intero piano omicida attuato, potrebbe far pensare ad un uomo le cui potenzialità non sono mai state espresse o riconosciute nella quotidianità della vita. Un uomo che necessita di ribadire più volte quanto sia intelligente. Un uomo che di sicuro è intelligente e furbo, ma che ha bisogno di dirlo, probabilmente perché nessuno glielo ha mai detto. E probabilmente il primo a non averlo fatto è stato proprio Mario Giliberti. Analizzando il primo biglietto da lui inviato (riportato nell’immagine) si evince dal suo modo di scrivere che l’estetismo, il modo in cui “si appare” è un aspetto da lui molto curato. La tendenza a distaccare le lettere (con molta probabilità dettata anche dal fatto di voler essere chiaro agli occhi di chi leggeva) potrebbe nascondere un alto grado di diffidenza verso il prossimo, nonché precisione maniacale. L’ulteriore sottolineatura al proprio ego si evince dall’aver voluto scrivere le parole “Mio Delitto” entrambe con lettera maiuscola. Sono numerose le indicazioni che l’occhio attento e critico può riscontrare leggendo semplicemente i suoi scritti , acquisendo così ulteriori elementi al fine di delineare un profilo dell’omicida che, all’epoca, avrebbe permesso di prevedere le sue mosse. Uno dei motivi per cui, con molta probabilità, Diabolich non è mai stato catturato è perché in lui ha vinto la voglia di perfezione al gioco, ha vinto l’ombra alla luce e si è fermato. Inizialmente, dall’iter messo in atto, è visibile il desiderio di essere catturato per dimostrare al mondo chi era e cosa era in grado di fare, ma resta comunque l’uomo che sulla scena del crimine ha gettato sul pavimento molte foto della vittima con accanto una persona senza volto. Gli inquirenti dedussero che quell’uomo senza volto era Diabolich. Probabilmente sì, quasi certamente il motivo principale di quei tagli era il non farsi scoprire, ma la scelta di evidenziare la sua figura in quel modo nasconde il bisogno di farsi riconoscere come un’identità esistente. I poliziotti dell’epoca non hanno mai identificato il terzo uomo, l’altra figura delle “tre monachelle”. Strano, Aldo Cugini ed il resto del commilitone avrebbero dovuto averlo un nome. La domanda, alla luce di quanto detto fin ora, sorge in automatico: e quella persona nell’ombra? Chi era? Non si vuole trovare qui un colpevole, ma si vuole porre un dubbio. All’epoca non si avevano le conoscenze criminologiche adatte per effettuare indagini adeguate. Avere un profilo del criminale permette agli investigatori di non cadere nell’errore di seguire strade chiuse. Di strada chiuse questo caso ne è stato pieno.

 

Teresa De Magistris

Barbaroux, il saggio ministro che riformò il regno sardo

ALLA SCOPERTA DEI NOMI DI VIE E PIAZZE

Andiamo alla scoperta di Via Giuseppe Barbaroux. Parallela alla famosissima Via Garibaldi,  fa parte di una delle zone della “movida torinese”, il Quadrilatero. Composta principalmente da ristoranti, piole e cocktail bar, via Barbaroux è diventata soprattutto negli ultimi anni, una tra le zone più frequentate dai giovani

Giuseppe Barbaroux nacque a Cuneo il 6 dicembre del 1772 da Giovanna Maria Giordana (figlia di un noto medico cuneese) e Giovanni Pietro Barbaroux, mercante francese di velluti ma divenuto cittadino di Cuneo nel 1757. Provenendo quindi da una famiglia borghese di condizioni economiche discretamente agiate, Giuseppe ebbe la possibilità di frequentare le migliori scuole torinesi e all’età di soli 17 anni, conseguì la Laurea in Legge presso l’Università di Torino. Dopo la laurea egli decise di rimanere a Torino dove intraprese subito la carriera di avvocato mettendo in luce la sua abilità e le sue competenze; si affermò negli ambienti della migliore società piemontese ed il 10 aprile 1806, consolidò la sua posizione sociale sposando la nobildonna Sofia Scotti-Boschis, da cui ebbe sette figli.

Nel 1815 venne nominato avvocato generale presso il Senato di Genova e presidente di una commissione incaricata di redigere il nuovo corpo di leggi per quel ducato che era stato da poco annesso al Regno di Sardegna. Il compito fu particolarmente delicato e complicato ma il lavoro portato a termine da Barbaroux incontrò il gradimento del re che, nel dicembre del 1815, gli conferì il titolo di Conte. Nel 1816 venne inviato in missione straordinaria a Roma e dopo essere stato nominato ambasciatore del Regno Sardo, fu capace di appianare i contrasti e di ricucire i rapporti tra il pontefice Pio VII e il sovrano sabaudo, riuscendo nel contempo a ottenere che la città di Cuneo divenisse, a partire dal 1817, sede di una diocesi indipendente. Morto Carlo Felice e succedutogli Carlo Alberto, Barbaroux venne nominato, il 24 maggio del 1831, ministro Guardasigilli e qualche giorno più tardi, gli venne anche affidata la presidenza di una commissione per la revisione dei codici, in modo che il moderato e solido avvocato cuneese potesse riformare il codice dello stato sabaudo in senso progressista e già vagamente liberale.

Barbaroux si dedicò con grande passione all’impresa e iniziò un’attività veramente frenetica per la preparazione di ben cinque codici: nel 1837 terminò la riforma della parte civile e fece promulgare lo Statuto Albertino, introducendo modifiche al codice civile che si ispiravano al Codice Napoleonico. Subito dopo, nel 1839, completò la revisione del codice penale, mentre nel 1840, portò a termine quella del codice penale militare. Nonostante alcune lacune, la riforma dei codici operata da Barbaroux costituì senza dubbio un notevole progresso nei confronti della legislazione precedente, ma rimase ben lontana dai modelli a cui inizialmente si era ispirato e dai progetti che egli aveva elaborato. L’impresa che all’inizio era sembrata tanto gloriosa, si rivelò invece un compito che gli costò invidie, calunnie e che suscitò una vasta ondata di malcontento intorno alla sua figura politica: nel corso degli anni venne accusato dai conservatori perché intendeva abolire i privilegi dei nobili primogeniti e nello stesso tempo fu malvisto dai progressisti ai quali sembrò troppo freddo e moderato. Amareggiato nell’anima e fisicamente provato, nel settembre del 1840 Barbaroux si dimise da ogni incarico, mantenendo unicamente la presidenza della commissione istituita per rivedere il codice commerciale, ultima fatica che portò definitivamente a termine nel 1842.

Sentendosi ormai mal voluto ed abbandonato da tutti, Barbaroux mise fine alla sua vita l’11 maggio del 1843 gettandosi da una finestra della sua abitazione di Torino (all’odierno numero 29 di via Barbaroux, che dal 19 giugno 1860 gli venne dedicata dal comune). Dato il suo impegno per la creazione della Diocesi di Cuneo, ebbe comunque funerali religiosi nonostante a quel tempo non fossero previsti per i suicidi.

 

La guerra dei matti

C’erano una volta i matti
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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6. La guerra dei matti
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La Grande Guerra arriva anche a Collegno.  Il conflitto bellico costituisce un nuovo bacino di prova per la psichiatria, ora costretta a confrontarsi con una peculiare massa di malati mentali provenienti dalle trincee del fronte. Quarantamila soldati italiani vengono prima ricoverati negli ospedali da campo e poi trasferiti nei manicomi territoriali. Di vario tipo i disturbi riscontrati: confusione mentale, disgregazione della memoria, smarrimento, delirio, allucinazioni, regressione infantile, sordomutismo, afasia, spasmi muscolari, paralisi. L’esperienza in trincea, i bombardamenti, la ferrea disciplina che comporta ovviamente la perdita della possibilità di ogni decisione e un ingombrante senso di impotenza, sono le cause scatenanti della patologia del rifiuto, della diserzione e della pazzia. La guerra costringe i soldati a fronteggiare le paure, le angosce, gli incubi. Michelangelo Cornalis, 130° Reggimento Fanteria, nato a Torino nel 1898, arruolato nel 1917, viene ricoverato nel centro psichiatrico di Reggio Emilia e poi trasferito a Collegno, sotto le cure del dottor Socrate Raimondi. La diagnosi del soldato è “confusione mentale protratta, con grave agitazione e clamorosità, cui residua un evidente grado di decadenza mentale in forma dissociativa schizofrenica”. Raimondi comprende subito le cause della crisi mentale del soldato, e lo cura con una terapia di derivazione psicoanalitica, cioè inducendolo a scrivere un memoriale per portare al livello della coscienza il conflitto interiore, causa della nevrosi in cui è precipitato Michelangelo. La breve autobiografia permette a Cornalis di capire quali siano le proprie difficoltà di inserimento all’interno del plotone e nei confronti della guerra in generale.  Il 4 dicembre 1918 Michelangelo Cornalis viene dichiarato non matto e non passibile di ricovero in manicomio, tuttavia gli sono concessi sei mesi di licenza prima del rientro al fronte. Il servizio militare non piace nemmeno a Sante Pollastro, che il 15 dicembre 1919 si fa trovare completamente nudo, con una piccola valigia in mano, alla stazione di Reggio Emilia. La sceneggiata dovrebbe servire a farlo sembrare pazzo, in modo da non dover scontare i quindici anni di galera che pendono sulla testa di ogni disertore. Il bandito dal cuore d’oro, soprannominato “Rangognin”, viene riconosciuto come non matto, ma riesce comunque a sfuggire alle pene militari, verrà rinchiuso per quattordici mesi a Collegno tra il 1920 e il 1921. 
La Grande Guerra travolge tutti e tutto, le città e il fronte, gli uomini e le donne. Queste ultime diventano le vere protagoniste della vita sociale ed economica dello Stato italiano, sostituiscono il ruolo degli uomini nella produzione agricola, in quella bellica, negli uffici, negli ospedali, nelle ferrovie e nelle industrie tessili, senza che sia tolto nulla alle mansioni di loro competenza, che, in quanto donne, prevede che si occupino dei figli, degli anziani e della casa. Tra il 1915 e il 1918, 1422 donne vengono ricoverate nel manicomio di via Giulio, prevalentemente contadine e operaie che non sono riuscite a sopportare la tremenda tristezza e le gravi difficoltà che il conflitto ha fatto ricadere sulle loro teste. Il dramma provoca traumi psichici e ansie che non possono essere curati, ma solo raccolti all’interno delle palliative mura della struttura ospedaliera.  Nel periodo 1916-17 la condizione economica italiana è praticamente insostenibile, il malcontento generale sfocia in manifestazioni e rimostranze, durante le quali molte donne vengono arrestate e ovviamente rinchiuse, non in carcere ma in manicomio. Così accade a Luciana, detta Nina, studentessa torinese, arrestata a Genova l’8 maggio del 1917, dove si era recata per manifestare contro la guerra. L’accusano di aver “offeso l’onore, il decoro e la reputazione degli agenti di Pubblica Sicurezza con le parole: schifosi, vigliacchi, strappa-bottoni, carne venduta e ruffiani”. Nina viene assolta perché ha commesso il fatto in stato di d’infermità mentale e rinchiusa in una “Casa di Salute”. La studentessa arriva in via Giulio il 10 giugno, rimane nel manicomio tre anni e nella cartella clinica si legge: “recidiva, esaltata, disordinata”. 
Carolina, invece, ha ventun anni e lavora come operaia in un opificio. Il suo internamento è richiesto dalla madre, e il medico così descrive il suo caso: “ In seguito ad uno spavento provocato per lo scoppio di una granata nell’opificio in cui lavorava, incominciò a manifestare timore continuo, sussulti ad ogni rumore, e a rifuggire dai luoghi abitatati e dalle compagnie. Si diede a pratiche religiose. Ora sta tutto il giorno in un angolo in ginocchio, pregando e lamentandosi ad alta voce di essere dannata dall’Inferno”. Carolina tenta il suicidio due volte, la prima mettendo la testa tra gli ingranaggi di una macchina in movimento, la seconda gettandosi dal balcone per sottrarsi all’incubo di essere soggetta a grave e imminente pericolo. Rimane in via Giulio fino al 1939 e poi è trasferita a Cremona. La Grande Guerra ha provocato atroci profondi e gravi sconvolgimenti, alterando ogni cosa, anche l’idea che i veri matti sono quelli che manifestano per vivere in condizioni migliori, o quelli che si spaventano per la caduta di una granata.
Alessia Cagnotto

Sarajevo, la fontana e la neve di primavera

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L’appuntamento è per le venti, davanti alla fontana Sebilj. Non ci si può sbagliare: è il simbolo di Sarajevo. Situata nel bel mezzo della Baščaršija, dispensa da oltre un secolo la sua acqua potabile, circondata da un infinità di piccioni che sembra d’essere in piazza San Marco a Venezia

 

 Progettata nel 1891, sotto il protettorato austro-ungarico, ha la forma orientale di un gazebo e porta la firma dell’architetto ceco Alexander Wittek che la intese come interpretazione in chiave moderna delle fontane ottomane, prendendo a modello una fontana in pietra di Istanbul. Con il calare delle luci della sera s’accende di una luce dorata che emana un fascino straordinario. Per questa fontana vale la stessa leggenda di quella della moschea Gazi Husrev-beg: bevuta anche una sola volta la sua acqua, sarà impossibile lasciare Sarajevo per troppo tempo o non tornare ogni volta che il cuore lo desidera.Ovviamente, come ogni volta, non manco di berne una sorsata. Samir arriva, affannato, dal vicino ponte che attraversa la Miljacka. Si era recato, per una commissione, alla Sarajevska Pivara, il birrificio rosso e crema, con le grondaie in rame, dove si produce l’ottima Sarajevsko pivo. Con un quarto d’ora di ritardo arrivano anche gli altri e tutti insieme si sale in taxi, alla modica cifra di tre marchi,cioè di un euro e cinquanta centesimi, per le vie che s’inerpicano sulla collina verso il cimitero ebraico dove abbiamo prenotato il nostro aperitivo in un locale che sembra un balcone sulla città vecchia. Il tempo di due chiacchiere sorseggiando uno Spritz Rosso (ma ci sono anche le versioni azzurro,verde e giallo, in base allo stato d’animo di chi lo beve) e si ridiscende. Il taxista è un matto. Conoscerà anche le vie come le sue tasche ma si butta giù a rotta di collo per le viuzze. A tempo di record ci scarica in Mule Mustafe Bašeskije, a due passi da Sebilj. Paghiamo la corsa e scendiamo in fretta dall’auto pubblica. Samir ha prenotato per quattro la cena in una Ašćínica, i locali specializzati in zuppe e verdure ripiene che rappresentano, in assoluto, la vera cucina casalinga bosniaca. Non ce ne sono molte in città e questa – Hadžibajrić , al numero 59 di Veliki Čurčiluk – è la migliore della Baščaršija. Il menù è semplice ma gustoso: pita ripiena di spinaci, uova e kajmak, il formaggio di panna acida (la Zeljanica);punjene paprika, cioè peperoni ripieni; il ( o la, non saprei) grah, gustosa zuppa di fagioli cucinata alla moda di Mostar e cipolle ripiene, le sogan dolma. Ovviamente,per favorire la digestione,dove si va? In uno dei caffè orientali dove, con cinque marchi, si può fumare la Šiša (quello che noi, genericamente, chiamiamo narghilè) e bere i tipici tè bosniaci, ascoltando le sevdalinke, lente e malinconiche canzoni d’amore della tradizione ottomana.Siamo fortunati. In quello che scegliamo, sedendoci sugli sgabelli tra coloratissimi tappeti, si sta esibendo un duo,piuttosto attempato, che suona dal vivo il violino e il saz ,tipico mandolino orientale. L’atmosfera è di quelle giuste, da meditazione. Io non fumo, limitandomi a sorseggiare un amarognolo tè verde.La parola giusta,in questi casi,è “polako”, che significa “con calma”. Ed è con calma che Samir tira fuori dalla tasca un libro e inizia a leggere. Lui, l’italiano lo parla bene. Anche Dina se la cava mentre Goran, nonostante la buona volontà che ci mette,incespica in molte parole che a sentir lui gli “ingarbugliano la lingua”. In quanto a me, confesso la mia ignoranza: il bosniaco che si differenzia solo leggermente dal serbo e dal croato, è e rimane “arabo”, come usiamo dire spesso e impropriamente. Il brano che legge rappresenta “l’essenza della città, lo spirito notturno di Sarajevo”. E’ tratto da “Lettera del 1920″, di Ivo Andric. “A Sarajevo, chi soffra d’insonnia può sentire strani suoni nella notte cittadina.Pesantemente e con sicurezza batte l’ora della cattedrale cattolica: le due dopo mezzanotte. Passa piú di un minuto (esattamente settantacinque secondi, li ho contati) ed ecco che si fa vivo, con suono piú flebile, ma piú penetrante, l’orologio della Chiesa ortodossa, e anch’esso batte le due. Poco dopo, con voce sorda, lontana, il minareto della moschea imperiale batte le undici: ore arcane, alla turca, secondo strani calcoli di terre lontane, di parti straniere del mondo. Gli ebrei non hanno un orologio proprio che batta le ore, e solo Dio sa qual è in questo momento la loro ora, secondo calcoli sefarditi o ashkenaziti. Cosí, anche di notte, mentre tutto dorme, nella conta di ore deserte d’un tempo silenzioso, è vigile la diversità di questa gente addormentata, che da sveglia gioisce e patisce, banchetta e digiuna secondo quattro calendari diversi, tra loro contrastanti, e invia al cielo desideri e preghiere in quattro lingue liturgiche diverse. E questa differenza, ora evidente e aperta, ora nascosta e subdola, è sempre simile all’odio, spesso del tutto identica ad esso”.Terminata la lettura chiude il libro e lo rimette in tasca. Non c’è nulla da commentare perché in quelle parole c’è tutto. La musica, intanto, ci avvolge. Gli amici mi dicono che ci sono diverse traduzioni e spiegazioni per la parola “sevdah”. Alcuni giurano che viene dalla parola turca “sevda”, l’amore. Altri insistono sul termine persiano “soda”, che equivale a malinconia, oppure la parola “sawda”, che in arabo significa qualcosa di nero. Comunque la si metta, quello delle sevdalinke è un genere di nostalgia cantata e suonata, melodiosa, struggente. Si sta bene ma d’improvviso “s’incunea crudo il freddo e la città trema”,come nella canzone dei Csi. Era previsto un brusco abbassamento delle temperature ma all’improvviso quest’ariaccia fredda è scesa nel giardinetto all’aperto, sollevando polvere da terra e tovaglie dai tavolini. Dai pesanti bracieri d’ottone scintille rosse e gialle volano in aria, disegnando arabeschi infuocati nel buio. In fretta e furia due ragazzi ritirano tutto, mentre cadono le primi, pesanti gocce di pioggia. In un attimo ripassiamo davanti alla fontana di Sebilj e, ancora con un taxi, andiamo verso l’albergo, nei pressi della stazione ferroviaria. Piove a dirotto. Al mattino dopo,in un silenzio profondo,ovattato, ecco la sorpresa: nevica, e viene giù anche bene, a larghe falde. Fa freddo e nevica, a Sarajevo.

 

Poco importa se siamo a metà aprile. Ieri c’erano diciotto gradi e poi, tutto di un colpo, dalle vette della Bjelašnica e dell’Igman è sceso il soffio gelido della retroguardia del generale Inverno, ultimo e disperato colpo di coda della stagione dei brividi. Quando raggiungo la Baščaršija un nevischio gelato che pare ghiaccio tritato ci fa rabbrividire tutti. Trema, “livida trema”, Sarajevo. Nonostante il maglione ,la giacca con il bavero alzato e la bella, calda sciarpa che ho comprato al bazar il freddo mi entra nelle ossa. Anche Goran e Samir soffrono il freddo. Dina ha le gote e le mani arrossate, sulle quali soffia un fiato che si condensa in nuvole dense al contatto con l’aria gelida che, a folate, mulina nel dedalo delle viuzze. Sembra pieno inverno, con i tetti delle case e le cupole delle moschee bianchi come i paesaggi infarinati dei presepi. Capita, non è una novità. E Sarajevo è, in tempo di pace, più bella e seducente che mai.

Marco Travaglini

Asti, la Rotonda e i Cavalieri di Malta

Asti e il suo passato, dal Medioevo all’epico Cinquecento, dalle rovinose invasioni del Barbarossa ai pellegrini e ai crociati diretti in Terra Santa fino ai valorosi Cavalieri astigiani che combatterono con l’Ordine di Malta contro i turchi

Al fondo di corso Alfieri una “Rotonda” medioevale con pianta ottagonale ricorda la chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Fu costruita, nei primi decenni del 1100, a imitazione della celebre chiesa della Città Santa, sulla scia dell’entusiasmo e dell’esaltazione della conquista di Gerusalemme nella prima crociata. La “Rotonda” fa di Asti una piccola “Gerusalemme italiana”, una delle tante Gerusalemme d’Italia disseminate sul territorio della penisola. Gerusalemme è ovunque in Italia, si direbbe. La presenza musulmana nei luoghi santi e l’avanzata in Asia degli ottomani nel Quattrocento avevano reso più complicato e rischioso il tradizionale pellegrinaggio dei cristiani verso la città di Gesù. Per sostituire il cammino religioso in Terra Santa sorsero così i Sacri Monti, di cui il Piemonte è costellato, una serie di cappelle collocate sulle fiancate delle montagne per riprodurre i luoghi santi gerosolimitani oppure vennero edificate in varie città riproduzioni della Rotonda dell’Anastasis o dell’edicola del Santo Sepolcro.

 

La Rotonda astigiana, purtroppo oggi soffocata dal traffico della zona, fa parte del complesso del Battistero di San Pietro o Chiesa di San Pietro in Consavia, costituito in origine da quattro edifici eretti tra il XII e il XIV secolo nel borgo omonimo, che per molti secoli ospitò i Cavalieri gerosolimitani di San Giovanni. Asti stessa fu sede del Priorato Gerosolimitano di Lombardia (comprendeva Piemonte, Liguria, Lombardia, Parma e Piacenza) il cui Priore risiedeva nella chiesa di San Pietro in Consavia. La Rotonda vuole essere una copia del luogo santo, fatta costruire dal vescovo Landolfo quasi mille anni fa, per dare la possibilità a molte persone di seguire un pellegrinaggio nella propria regione, che era molto meno pericoloso, meno lungo e meno costoso di quello in Palestina. All’interno della Rotonda si trovano otto colonne collegate tra loro da archi circolari e un fonte battesimale marmoreo del Cinquecento. Nei secoli successivi il complesso fu utilizzato come Battistero e subì molte ristrutturazioni che alterarono la sua architettura caratteristica e solo negli anni Trenta un restauro conservativo riportò la chiesa alla sua antica struttura medievale.

 

Attualmente il complesso del Battistero di San Pietro è costituito da tre edifici: la chiesa quadrata di San Pietro del Quattrocento, la Rotonda, innalzata come chiesa del Santo Sepolcro, con la torre del XII secolo e il chiostro, una parte del quale era occupato dall’ospedale dei pellegrini, e una Casa Priorale, sede oggi del Museo archeologico e paleontologico. Furono numerosi i Cavalieri astigiani che combatterono in Oriente per l’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, fin dai tempi della sua nascita nel 1113, e tanti furono quelli che difesero l’isola di Malta dal Grande Assedio della flotta ottomana nel 1565, una delle pagine gloriose della storia militare dell’Ordine. Tra questi ultimi si ricordano in particolare Giovanni Francesco Pelletta, morto combattendo per difendere il forte di Sant’Elmo, Vasino Malabaila e Giorgio Cacherano che diede, tra l’altro, un ingente contributo per la costruzione della città della Valletta. Va ricordato anche Pietrino del Ponte, priore di Asti, che giunse a Rodi all’inizio del Cinquecento, partecipò alla trionfale battaglia navale di Alessandretta del 1509 e diventò Gran Maestro dell’Ordine di Malta dal 1534 al 1535, anno della sua morte, succedendo a Philippe Villiers de l’Isle Adam. È sepolto nella concattedrale di San Giovanni a Malta. Sir Steven Runciman, nella sua monumentale Storia delle Crociate, ci parla anche di un altro famoso astigiano vissuto nel Trecento. Si tratta di Enrico d’Asti, della nobile famiglia astese dei Comentina, patriarca latino di Costantinopoli. Al comando di una squadra navale cristiana Enrico d’Asti sconfisse l’emiro di Smirne che infestava le acque dell’Egeo con atti di pirateria. Dopo l’occupazione della città i cavalieri cristiani cercarono di invadere anche l’entroterra ma furono sconfitti. Enrico d’Asti morì da martire e fu beatificato dalla chiesa cattolica. Le sue spoglie si trovano nel Duomo di Asti.

Filippo Re

 

Alici marinate, sapore di mare e di estate

E’ il pesce azzurro il protagonista della nostra ricetta, ricco di nobili proprieta’, economico e gustoso. Le alici, freschissime, si cuociono in una stuzzicante marinatura a base di limone o aceto. Un piatto saporito ideale per un fresco antipasto o delle sfiziose bruschette.

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Ingredienti

500gr. di alici freschissime

3 limoni succosi

1 spicchio di aglio

1 peperoncino

½ bicchiere di olio evo

1 cucchiaio di aceto bianco

Sale, pepe, prezzemolo q.b.

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Pulire bene le alici eliminando testa e lisca, lavarle e surgelarle per 24 ore. Scongelare, asciugare bene e disporre i filetti in una teglia (non di metallo) in un unico strato, coprire tutto con il succo dei limoni e l’aceto, lasciar macerare per almeno sei ore o comunque sino a quando sono tutte “cotte” (bianche). Scolare le alici dalla marinatura, sistemarle in un contenitore in vetro con coperchio, condirle con l’olio evo, poco sale, pepe, peperoncino, fettine di aglio e il prezzemolo tritato. Lasciare insaporire bene per qualche ora in frigorifero e servire fresche a piacere.

Paperita Patty

Vintage, lo stile viene dal passato e non passa mai di moda

Acquisti di qualità, scelte d’eleganza e buon gusto. Anche online

 

La moda è frenetica e impaziente, le tendenze cambiano velocemente e ci guidano negli acquisti pilotando le nostre scelte e i nostri gusti senza lasciare molto spazio alla nostra creatività. Si crea così una sorta di educazione all’acquisto in base ai must del momento (lo devi avere!), a volte un vero e proprio diktat considerando che nei negozi, soprattutto dei grandi brand, non si trova altro. Non è del tutto scorretto, anzi c’è una certa comodità nell’essere indirizzati e conformi alla tendenza del momento, ma ritrovarsi in un luogo dove ciò che ci spinge all’acquisto è unicamente il nostro gradimento, il nostro senso dell’eleganza e la voglia di distinguerci è un momento di shopping puro, libero da ogni condizionamento e da ciò che è in voga. Tutto questo è possibile acquistando vintage.Ci sono davvero buoni motivi per cedere allo shopping del passato, per esempio il poter acquistare capi di qualità, a volte veri pezzi sartoriali, a costi accessibili, avere uno stile unico combinando capi e accessori di periodi diversi e non meno importante praticare la via dell’acquisto etico ed ecologico comprando capi già esistenti. Insomma comperare di seconda mano conviene, stimola la nostra passione per il bello e ci rende più responsabili, cosa possiamo desiderare di più?

 

A Torino sono diverse le possibilità di acquistare il passato, il fuori moda:

 

Pandora – Via Giolitti 49 b, uno dei primi negozi Vintage a Torin aperto dagli anni ’90 dove trovare soprattutto usato firmato dalle borsette agli abiti.

 

Charly Vintage and flowers -Via Giuseppe Pomba 29, qui anche il wedding vintage dagli anni ’20 ai ’90, capi coloratissimi di svariati periodi e una sartoria che propone modelli d’altri tempi.

 

Epoca – Via San Domenico, 45/c – vestiti, cappelli, borse, scarpe, bigiotteria, ombrelli, guanti tutto in stile retrò, un lungo cammino dai primi del ‘900 ad oggi.

 

Annarita Mattei – Via San Domenico 6 d – la proprietaria è anche una personal shopper pronta a dare degli ottimi consigli, qui si unisce la modernità al vintage. I capi vanno dagli anni ’50 agli anni ’80, arrivi ogni 15 giorni.

 

Elena B. – Via Saluzzo 40 – nel cuore di San Salvario una vera e propria ricerca del capo sartoriale dagli anni Trenta fino agli Ottanta del secolo scorso, molti pezzi sono veri e propri capi di alta moda.

 

Infine chi è interessato ad un acquisto retrò non può mancare ogni secondo sabato del mese a piazza Carlo Alberto a Extravaganza, il primo mercato in Italia dedicato alla moda del passato.

Maria La Barbera

 

 

 

 

La felicità in questo mondo

Guardando oltre la pandemia / Tutti abbiamo pensato, almeno per un attimo, che la felicità fosse un concetto universale, uno stato di grazia valido per tutti, vissuto con le stesse modalità, sentito semplicemente attraverso le conosciute emozioni positive

Forse in parte è così perché quando siamo felici le espressioni e le vibrazioni che il nostro corpo trasmette sono comuni ovunque, ma ciò che ci fa felice può cambiare in base a dove viviamo, al mondo a cui apparteniamo.

L’origine latina del termine, felicitas, ci dice che il prefisso fe è sinonimo unanime di abbondanza, prosperità e ricchezza ma il modo con cui percepiamo la felicità, con cui la viviamo e persino attraverso cui cerchiamo di raggiungerla dipende però da variabili che ne determinano spesso anche il significato.L’educazione, la cultura di cui siamo parte, il nostro vissuto emotivo ci fanno relazionare in maniera diversa rispetto a questo stato di appagamento, di ottimismo ed entusiasmo, di serenità e pace.Il nostro ambiente, geograficamente parlando, è infatti un microcosmo fatto di abitudini, esperienze storiche e culturali, valori e credenze che diventano parte integrante della nostra vita e ne influenzano il modo di condurla e concepirla. La ricerca del benessere, sia esso corporeo o immateriale, può essere differente in base alla latitudine, ogni civiltà dunque possiede la sua endemica felicità.

Helen Russell ha scritto un libro, un guida pratica, una mappa di questo giubilo emotivo, come viene ricercato e vissuto nei diversi paesi del mondo: l’Atlante della Felicità.

In Cina, per esempio, si pratica lo xingfu, vivere con l’essenziale, in assenza della continua ricerca di beni materiali ma apprezzando invece quello che si ha e non nutrendo continue aspettative su quello che si desidera. L’elemento fortuna è importante perché non tutto è sotto il nostro controllo.

In Norvegia, invece, vivere all’aria aperta, friluftsliv, è un vero e proprio felice stile di vita, una filosofia che procura gioia perché, secondo questo pensiero, permette di allineare il nostro ritmo con quello della natura. Camping, trekking e ogni altra attività outdoor equivale ad una totale immersione verde e benefica, sia a livello fisico che spirituale.

In Thailandia ridimensionare i conflitti e vivere secondo il concetto buddista di pen rai, ovvero non ti preoccupare, è il fondamento per essere felici. Se una cosa va male, se i nostri obiettivi non sono raggiungibili, se qualcosa va storto forse non è semplicemente il momento giusto, meglio pensare ad altro e rimandare i nostri propositi. Non è una manifestazione di inattività ma semplicemente un elogio all’accettazione.

In Spagna uscire e fare tardi con gli amici davanti un aperitivo, possibilmente fatto di birra e meravigliosi stuzzichini, il tapeo, rende gioiosi e appagati. Similmente in Irlanda passare una serata al pub, ovviamente al suon di drink alcolici, fa dimenticare i problemi in completo abbandono alla allegria e al buon umore.

In Brasile, la saudade, il ricordo di una passata letizia, una malinconica assenza riferita sia a persone che a cose, fa vivere la felicità con una nota nostalgica, ma con la consapevolezza che ciò che abbiamo nel presente non deve essere dato per scontato.

In Giappone si celebra il wabi sabi, il senso dell’effimero e del fugace, “la bellezza imperfetta, impermanente e incompleta” secondo la dottrina buddista. Un approccio al minimalismo, all’incompiutezza che suggerisce di rendere più lento il nostro cammino e di considerare accettabili le cose difettose e persino di dargli valore maggiore una volta riparate, “una cicatrice che ci arricchisce“.

Infine eccoci in Italia, come raggiungono la felicità gli italiani? Secondo la Russell grazie al dolce far niente, che non vuol dire letteralmente e unicamente passare il tempo oziando, ma godersi la vita ritagliandosi pause rilassanti dedicate al cibo e ad un bicchiere di vino, possibilmente in compagnia, e viaggiando. Lo shopping poi, nel bel paese, è un grande alleato della felicità, comprare oggetti alla moda e possedere status symbol infatti rappresenta un modo che fa sentire gli italiani appagati e soddisfatti. Il piacere dato dal possesso però è spesso passeggero e questo è dovuto alla velocità con cui oramai ci si abitua alle cose che generano spesso entusiasmi iniziali, ma vengono prontamente abbandonate per essere sostituite con altre. Allora meglio cercare la felicità e investire non in oggetti ma in esperienze, in relazioni che ci arricchiscono e in conoscenze che lasciano tracce di indelebile beatitudine.

Maria La Barbera