redazione il torinese

Crostata sorrentina, dolce raffinato

La crostata che vi presento e’ assolutamente da non perdere! Buonissima, profumata, friabile e raffinata e’ un dolce davvero speciale . Un guscio di frolla che racchiude una cremosa farcia avvolgente di crema, amaretti e amarene, un dessert indimenticabile.
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Ingredienti
Per la frolla:
300gr. di farina 00
80gr. di zucchero semolato
130gr. di burro
1 uovo e 1 tuorlo
2gr. di lievito per dolci
Buccia grattugiata di mezzo limone
 
Per la farcia:
 
400ml. di latte intero
80gr. di zucchero semolato
3 tuorli
30gr. di maizena
24 amaretti
Amarene Fabbri q.b.
Liquore Alchermes q.b.
Zucchero a velo
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Impastare nel mixer farina, burro tagliato a tocchetti, zucchero, uova, lievito e la buccia grattugiata del limone. Formare una palla, volgerla nella pellicola e riporla in frigo per almeno un’ora. Preparare la crema pasticcera, lavorare i tuorli con lo zucchero, aggiungere la maizena e versare a filo il latte bollente, cuocere a bagnomaria, sempre mescolando, per 7/8 minuti. Lasciar raffreddare. Dividere la pasta frolla a meta’, stenderla con il mattarello e trasferirla in una teglia da crostata da 24cm. di diametro rivestita di carta forno, bucherellare il fondo con una forchetta. Spennellare il fondo con lo sciroppo di amarena, aggiungere le amarene e 2/3 amaretti sbriciolati. Coprire con la crema pasticcera e livellare bene. Posare sulla crema gli amaretti precedentemente bagnati con un pennello nell’Alchermes. Stendere la rimanente frolla sugli amaretti, chiudere bene i bordi. Cuocere in forno preriscaldato a 180 gradi per 45 minuti. Lasciar raffreddare nella teglia, prima di servire cospargere di zucchero a velo.

Paperita Patty

Il Duca d’Aosta a vent’anni

I monumenti di Torino  / La statua in bronzo fu  trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento

Il monumento è situato all’interno del Parco del Valentino, in asse con corso Raffaello e nel centro del piazzale nel quale confluiscono i viali Boiardo, Ceppi e Medaglie D’Oro. La statua che raffigura, sul cavallo ritto sulle zampe posteriori, il poco più che ventenne Amedeo di Savoia Duca d’Aosta durante la battaglia di Custoza, è posta su un dado di granito che poggia a sua volta su un basamento contornato da una fascia di coronamento in bronzo,rappresentante (in altorilievo) 17 figure tra cui numerosi personaggi celebri della dinastia sabauda. Ai gruppi di cavalieri si alternano vedute paesaggistiche come la Sacra di San Michele, il Monviso e Torino con il colle di Superga sullo sfondo.Sul fronte del basamento, poggiata sulla chioma di un albero al quale è appeso lo stemma reale di Spagna, un’aquila ad ali spiegate regge tra gli artigli lo scudo dei Savoia.Nato il 30 maggio 1845 da Vittorio Emanuele (il futuro re Vittorio Emanuele II) e da Maria Adelaide Arciduchessa d’Austria, Amedeo Ferdinando Maria Duca d’Aosta e principe ereditario di Sardegna, crebbe seguendo una rigida educazione militare.Nel 1866 gli venne affidato il comando della brigata Lombardia e partecipò alla battaglia di Custoza nella quale, nonostante fosse stato ferito da un proiettile di carabina, continuò a battersi distinguendosi così per il suo coraggio ed il suo valore.In seguito alla rivoluzione del 1868 e alla cacciata dei Borboni, in Spagna venne proclamata la monarchia costituzionale e nonostante la situazione risultasse molto difficile, Amedeo di Savoia accettò l’incarico così, il 16 novembre 1870, venne eletto Re di Spagna con il nome di Amedeo I di Spagna.Ma la situazione politica risultò ancora più instabile di come lui se la fosse prospettata e davanti a rivolte e congiure (nel 1872 sfuggì miracolosamente ad un attentato), nel 1873 abdicò rinunciando per sempre al trono.Tornato in Italia, venne nominato Tenente Generale e Ispettore Generale della Cavalleria; si spense il 18 gennaio 1890 a causa di una incurabile broncopolmonite.

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Signorilmente affabile con tutti, sempre pronto a prodigarsi per il bene della sua amata città, fu (anche durante il periodo della sua sovranità in Spagna) un personaggio molto popolare e ben voluto tanto che, neanche una settimana dopo la sua morte, la città di Torino costituì un comitato promotore per l’erezione di un monumento a lui dedicato, sotto la presidenza del conte Ernesto di Sambuy. Venne aperta una sottoscrizione internazionale alla quale, la stessa città di Torino, partecipò con la somma di L. 25.000 e in seguito, il 6 marzo 1891, venne bandito un concorso tra gliartisti italiani per stabilire chi sarebbe stato l’autore dell’imponente opera. Tra i ventinove bozzetti presentati ne furono scelti sei che vennero esposti nei locali della Società Promotrice di Belle Arti, in via della Zecca 25 ed in seguito, tra i sei artisti vincitori, venne bandito un nuovo e definitivo concorso che vide come vincitore (nel dicembre del 1892) Davide Calandra. La decisione, secondo le parole della Giuria, fu motivata “dal poetico fervore immaginoso della concezione, dall’eleganza decorativa dell’insieme, dalla plastica efficacia del gruppo equestre e dalla vivace risoluzione del difficile motivo della base“. Inizialmente l’ubicazione del monumento avrebbe dovuto essere, secondo la proposta del Comitato Esecutivo approvata dalla Città di Torino nella seduta del Consiglio Comunale dell’11 giugno 1894, il centro dell’incrocio dei corsi Duca di Genova e Vinzaglio, ma a causa delle dimensioni maestose del basamento si decise che fosse necessario uno spazio più ampio per ospitare l’opera. Dopo avere effettuato delle prove con un simulacro di grandezza naturale in tela e legname (costato alla Città la somma di L. 2480), si decise di collocarla nel Parco del Valentino sul prolungamento dell’asse di Corso Raffaello, presso l’ingresso principale dell’Esposizione Generale Italiana tenutasi del 1898: il 9 novembre 1899 il ConsiglioComunale approvò la scelta della Giunta di tale ubicazione.

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La statua in bronzo fu dunque trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento. Il monumento venne inaugurato il 7 maggio 1902, in occasione della Prima Esposizione Internazionale di Arte Decorativa e Moderna di Torino, durante la quale lo scultore fu anche premiato per aver inserito nell’opera elementi di “Art Noveau”. Nel corso dell’inaugurazione il conte Ernesto di Sambuy, a nome del Comitato, consegnò l’opera al Sindaco di Torino. Originariamente il monumento venne circondato da una cancellata in ferro dell’altezza di circa 130 centimetri, disegnata dallo stesso Calandra, che venne rimossa probabilmente a causa delle requisizioni belliche durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 2004 il monumento è stato restaurato dalla Città di Torino. Per fare un piccolo accenno al Parco del Valentino, di cui certamente parleremo in modo più approfondito prossimamente, bisogna ricordare che ilmonumento ad Amedeo di Savoia è situato nell’area nella quale, fra Ottocento e Novecento, si tennero a Torino alcune tra le più importanti rassegne espositive internazionali. Nel 1949, proprio a fianco del monumento, sorse il complesso di Torino Esposizioni, un complesso fieristico progettato da Pier Luigi Nervi che, durante le Olimpiadi Invernali di Torino 2006, ha ospitato un impianto per l’hockey su ghiaccio dove sono state giocate circa la metà delle partite dei tornei maschili e femminili. Al termine delle Olimpiadi, la struttura è tornata all’originario uso abituale ripredisponendo un padiglione come palaghiaccio per i mesi invernali. Cari lettori anche questa ennesima passeggiata tra le “bellezze torinesi” termina qui. Mi auguro che il monumento equestre ad Amedeo di Savoia vi abbia incantato ed incuriosito proprio come ha fatto con me; nel frattempo io vi do appuntamento alla prossima settimana alla scoperta o meglio “riscoperta” della nostra città.

Simona Pili Stella

Lenticchie saporite (e sane)

Sono un alimento prezioso per la nostra salute, sano e facilmente digeribile

 

Un piatto semplice dall’inconfondibile sapore. Un contorno sano e gustoso, ottimo per accompagnare carni o, per sostituirle grazie al loro alto apporto proteico. Le lenticchie sono un alimento prezioso per la nostra salute, sano e facilmente digeribile.

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Ingredienti:

 

250gr. di lenticchie di Castelluccio secche a cottura rapida

1 piccola cipolla

1 costa di sedano

1 carota

1 spicchio di aglio

1 peperoncino

2 cucchiai di concentrato di pomodoro

Brodo vegetale q.b.

1 foglia di alloro

Sale, olio evo q.b.

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Soffriggere in due cucchiai di olio la cipolla affettata con l’aglio, la carota e il sedano tritati grossolanamente. Aggiungere le lenticchie, precedentemente lavate in acqua fredda e scolate, la foglia di alloro e lasciar insaporire per qualche minuto. Versare il brodo vegetale caldo fino a coprirle completamente. Aggiungere il concentrato di pomodoro,il peroncino sminuzzato, il sale. Mescolare, coprire e lasciar cuocere per 45 minuti a fuoco lento. Servire subito con due fette di cotechino a piacere.

Paperita Patty

I “Discorsi per il Natale” di Olivetti

Discorsi per il Natale”, agile e interessante pubblicazione delle Edizioni di Comunità, raccoglie e propone tre testi di Adriano Olivetti scritti per le feste di fine anno tra il 1949 e il 1957

 

 I discorsi fotografano tre dei momenti più importanti della storia della fabbrica di Ivrea e rendono, in una mirabile sintesi, il profilo dell’autore che va annoverato – a tutti gli effetti – tra le figure più singolari e straordinarie del ‘900. Le idee innovative e comunitarie in campo sociale di questomprenditore e intellettuale  – ancor oggi  attualissime –  ne testimoniano pienamente la capacità visionaria. Adriano Olivetti fu  capace di portare l’ azienda di famiglia a competere alla pari con i giganti del mercato mondiale della sua epoca, trasformando la città del Castello “dalle rosse torri” nella capitale dell’informatica. Un sogno industriale, il suo, che logicamente mirava al successo e al profitto, ma proponeva anche un progetto sociale che implicava una relazione del tutto nuova e compartecipativa tra imprenditore e operai, oltre a un rapporto qualitativamente alto e molto stretto tra quella che era stata la “fabbrica in mattoni rossi” e la città, capoluogo del Canavese. Tornando al libro, nel primo discorso, datato 24 dicembre 1949, l’imprenditore racconta i primi anni del dopoguerra per condividere il sollievo e l’orgoglio della compiuta ripresa dell’azienda dopo la difficile esperienza del fascismo e del conflitto mondiale. Nel secondo, sei anni dopo, il 24 dicembre 1955, Adriano Olivetti rievoca proprio quel discorso per ripercorrere i nuovi traguardi della fabbrica, che ha assunto ormai una dimensione internazionale ma non ha mai perso di vista le proprie radici morali, memore degli insegnamenti del fondatore Camillo. E dice, tra le altre cose: “Tutta la mia vita e la mia opera testimoniano anche – io lo spero – la fedeltà a un ammonimento severo che mio padre quando incominciai il mio lavoro ebbe a farmi: “Ricordati” – mi disse – “che la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna;perciò ti affido una consegna:devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano a subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro”. Una grande lezione morale alla quale, nei fatti, accompagnò il suo agire concreto  di imprenditore illuminato. In questi discorsi di Natale emerge la volontà di ringraziare tutti i lavoratori della fabbrica per la loro partecipazione a qualcosa di più grande, a una comune dimensione di riscatto del lavoro che, per usare le stesse parole di Olivetti, “non si esaurisce semplicemente nell’indice dei profitti”. Nell’ultimo discorso della breve raccolta, pronunciato in occasione del Capodanno del 1957, alla vigilia del cinquantenario della fondazione della Olivetti ( datata ottobre 1908) l’augurio dell’imprenditore di Ivrea, ormai all’apice del successo, è quello di non perdere mai di vista, nell’anno e negli anni a venire, il senso di giustizia e di solidarietà umana che è alla base di ogni vero progresso e rappresenta il valore più profondo e ultimo di tutta l’esperienza olivettiana. Vi è l’orgoglio per quello che lui stesso definisce “lo spirito della fabbrica” e una potente visione di futuro. Resta, leggendo queste righe, il rammarico per ciò che potevano diventare l’Olivetti , l’industria italiana e il modello sociale del paese se l’utopia di Adriano non si fosse spenta dopo la sua improvvisa e tragica morte, nel febbraio del 1960, quando non aveva ancora compiuto sessant’anni.

Marco Travaglini

Simil-pesto semplice ma gustoso

Lo so, nulla a che fare con il vero pesto ma, e’ una valida alternativa alla pasta in bianco

 

Questa e’ una versione low-cost e super veloce del pesto per le vostre trenette. Non me ne vogliano i lettori liguri…

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Ingredienti:

1 bel mazzo di basilico
1 spicchio di aglio
1 presa di sale
1 pugno di mandorle spellate
1 bicchiere di olio

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Lavare ed asciugare le foglie di basilico. Mettere gli ingredienti nel bicchiere del frullatore con meta’ olio. Frullare ad intervalli per pochi secondi, aggiungere il rimanente olio, aggiustare di sale.
Condire la pasta aggiungendo al pesto un mezzo mestolino di acqua e abbondante pecorino.

Lo so, nulla a che fare con il vero pesto ma, e’ una valida alternativa alla pasta in bianco.

 

Paperita Patty

Cinghiale in salmì con polenta

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Il cinghiale ha carne magra  dal sapore intenso che si abbina perfettamente con un piatto di polenta

 

 Un piatto rustico e saporito ottimo da gustare negli ultimi giorni freddi prima dell’arrivo della primavera. Il cinghiale ha carne magra  dal sapore intenso che si abbina perfettamente con un piatto di polenta. La carne ha bisogno di una lunga marinatura in un ottimo vino piemontese ed aromi per smorzare il retrogusto selvatico. I tempi sono un po’ lunghi ma il risultato ripaghera’.

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Ingredienti per la marinatura:

1 cipolla, 1 carota, 1 costa di sedano, 5 bacche di ginepro, 2 chiodi di garofano, 2 foglie di alloro, 2 foglie di salvia,1 spicchio di aglio

vino rosso corposo q.b.,1 bicchierino di grappa, sale e pepe q.b.

 

Ingredienti per la polenta:

1 kg. di farina da polenta,2 cucchiai di sale, 2 litri di acqua

 

Ingredienti per lo spezzatino

1 kg. di polpa di cinghiale, le verdure della marinatura, vino rosso ½ litro, olio, farina bianca e sale q.b.

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Tagliare la polpa di cinghiale a bocconcini e metterla a marinare con le verdure e le spezie coperta di vino e grappa per almeno 24 ore. Trascorso tale tempo, scolare la carne e le verdure dalla marinatura. In un tegame, preferibilmente di coccio, versare l’olio e fare rosolare le verdure scolate, aggiungere i bocconcini di carne precedentemente infarinati, lasciar insaporire, versare a poco a poco il vino nero, lasciar evaporare, abbassare la fiamma e lasciar cuocere sino a quando si sara’ formato un sughetto denso (minimo per 2 ore)

Preparare la polenta portando ad ebollizione l’acqua salata, versare a pioggia la farina evitando la formazione di grumi e lasciar cuocere 90 minuni.

Ed ora… tutti a tavola!

Paperita Patty    

Il delicato risotto ai carciofi e funghi

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Poco calorici, saporiti e versatili, ricchi di ferro, hanno proprieta’ toniche e digestive ideali per il nostro organismo

Una ricetta delicata e raffinata con i carciofi che in questo periodo sono nel pieno del loro sapore. Molto amati in cucina, dal tipico sapore amarognolo, i carciofi sono ortaggi che si prestano a gustosi abbinamenti, poco calorici, saporiti e versatili, ricchi di ferro, hanno proprietà toniche e digestive ideali per il nostro organismo.

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Ingredienti:

350gr. di riso per risotti

5 carciofi

15gr. di funghi porcini secchi

1 scalogno (o mezza cipolla)

1 spicchio di aglio

1 ciuffo di prezzemolo

1 bicchiere di vino bianco secco

Brodo vegetale q.b.

Olio evo, burro, sale q.b.

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Pulire i carciofi, lavarli in acqua acidulata con gocce di limone, affettarli grossolanamente. Mettere i funghi secchi a rinvenire in una tazza di acqua calda.

In un largo tegame soffriggere lo scalogno e l’aglio con una noce di burro e due cucchiai di olio evo, versare il riso e lasciare tostare mescolando poi, sfumare con il vino bianco e lasciar evaporare. Unire i carciofi affettati, i funghi strizzati e tritati, salare e versare poco alla volta il brodo caldo sino ad ultimare la cottura. Spegnere la fiamma, mantecare con una noce di burro, cospargere di prezzemolo tritato e servire subito. Delizioso !

Paperita Patty

Il fascino dei Jukebox, costruiti a Torino

Tra i primi in Italia  a costruirli ci fu la Microtecnica di Torino, un’azienda con sede in piazza Arturo Graf, nei pressi  via Madama Cristina

Era un mercoledì, il 22 giugno del 1927. Un giorno apparentemente come tanti altri se non fosse che proprio quel mercoledì vennero messi in vendita i primi Jukebox. E fu una vera e propria rivoluzione per la musica. Bastava introdurre una moneta e girare una manovella per selezionare un disco tra quelli esposti in una vetrina rettangolare. Così funzionavano i fonografi a moneta, antesignani dei jukebox moderni, che furono messi in commercio per la prima volta dalla Ami, un’azienda già nota per la produzione di pianoforti a gettoni, la cui diffusione aveva aperto la strada ai mitici “contenitori armonici” (traduzione letterale del termine). Le prime versioni di jukebox erano in legno e contenevano 12 dischi a 78 giri. I prodotti Ami si affermarono soprattutto in Europa mentre negli Usa conquistarono il mercato marchi come Wurlitzer, Seeburg e Rock-Ola. Tra i primi in Italia  a costruirli – su licenza della Ami – ci fu la Microtecnica di Torino, un’azienda con sede in piazza Arturo Graf, nei pressi  via Madama Cristina, nel rione di San Salvario, specializzata nelle lavorazioni meccaniche di precisione. I cari, vecchi jukebox, hanno sempre esercitato un grande fascino, offrendo la colonna sonora per intere generazioni che si sono incrociate, magari nel lido di una spiaggia o in un bar di uno sperduto paesino. Del jukebox , i meno giovani, rammentano non solo i motivi delle canzoni ma anche il rumore del gettone o della moneta, il clank clank della meccanica che si muoveva per selezionare il disco, il fruscio dei 45 giri di vinile suonati decine di volte al giorno. In Italia il jukebox divenne celebre grazie al Festivalbar, trasmissione che premiava la canzone più “gettonata” nei jukebox di tutto il paese. Non si contano i film dove i  jukebox accompagnano le scene, come in Grease ma non vi è dubbio che una delle figure mitiche è stata quella di Arthur Fonzarelli, il “Fonzie” della  famosissima serie televisiva Happy Days, che faceva partire quello del ristorante diArnold’s con un pugno, ascoltando i successi di Elvis Presley. Poi, nel tempo,  sono venuti i mangiadischi (i giradischi portatili), le audio cassette da infilare nel registratore o nell’autoradio,  i cd dei Walkman  e infine i lettori Mp3 e chissà qual’altra diavoleria. Ma il jukebox rimane il jukebox. E niente e nessuno potrà prenderne il posto nella storia.

 

Marco Travaglini

Susanna: l’importanza di chiamarsi Agnelli

Torino e le sue donne

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, EmmelinePankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan.  Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.  

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3. Susanna: l’importanza di chiamarsi Agnelli

Difficile, se non impossibile, parlare di Torino e non della Fiat.  La vicenda della Fiat inizia l’11 luglio 1899, quando viene fondata la Società Anonima Fabbrica Italiana di Automobili-Torino su iniziativa del Cavalier Giovanni Agnelli. Passa davvero poco tempo e la ragione sociale diventa Fabbrica Italiana Automobili Torino, FIAT, (fortunato acronimo che in latino significa “che sia!”). Il primo stabilimento viene inaugurato nel 1900, nei primi anni la produzione è di poco più di venti automobili all’anno realizzate da circa una trentina di operai, nel 1903 arriva la quotazione in Borsa e inizia la grandezza della storia di una delle industrie più conosciute al mondo. Con il trascorrere del tempo la produzione aumenta, così come le esportazioni all’estero che arrivano fino in Australia e in America. Nel 1926 si avvia la costruzione della fabbrica del Lingotto e si fanno i primi passi verso la produzione di massa. Nel 1930 nasce la Littorina, la prima automotrice di tutto il mondo, nel 1937  viene inaugurato lo stabilimento Mirafiori. Nel 1943 Agnelli si ritira dall’azienda e suo nipote Gianni entra nel Consiglio di Amministrazione. Dopo la crisi della Seconda Guerra Mondiale il gruppo è protagonista del miracolo economico italiano con ben più di quattrocentomila macchine prodotte ogni anno. Nel 1955 viene lanciata la “600”, dopo due anni l’iconica “500”, a cui seguono la “850”, la “124” e la “128”. Negli anni Settanta la società viene convertita in “holding”. Il “boom economico” arriva negli anni Ottanta, segnato dalla mitica “Panda” e da altri successi come la “Uno” e la “Tipo”. Nel 1993 la FIAT accoglie il gruppo Maserati. Altri anni difficili arrivano con il Duemila, quando la crisi si fa sentire di nuovo dopo decenni. Viene avviata l’alleanza con la General Motors che però si conclude dopo poco, Con le morti di Gianni e di Umberto la situazione si complica ulteriormente. Il presidente diventa Luca Cordero di Montezemolo con Sergio Marchionne come Amministratore Delegato. È proprio quest’ultimo a seguire di persona l’accordo con Chrysler, (FCA, Fiat Chrysler Automobiles, nasce il 29 gennaio 2014). Lo stesso Montezemolo viene sostituito da John Elkann. Alla FIAT è legato un altro primato torinese, quello di Ernestina Prola, la prima donna patentata, nel 1907. La più grande industria d’automobili d’Italia segna il destino anche di un’altra donna, quello di Susanna, la quale da subito è conscia del fatto che non potrà mai trovarsi ai vertici della fabbrica del nonno. La chiave dell’esistenza di Susanna è anche legata all’affermazione che le rivolse l’austera istitutrice Miss Parker: “Non dimenticare di essere una Agnelli”, parole che le rammentano costantemente di far parte di una famiglia che decide le sorti di ogni suo componente, esattamente come una dinastia reale.  Susanna Agnelli nasce a Torino il 24 aprile del 1922, da Edoardo Agnelli e Virginia Bourbon del Monte. È la terza di sette figli; insieme ai fratelli Umberto e Gianni, Susanna è stata una esponente di spicco della famiglia torinese proprietaria della FIAT. A vent’anni, durante la Seconda Guerra Mondiale entra nella Croce Rossa per portare il suo aiuto sulle navi che trasportano soldati feriti. Alla fine della guerra sposa il Conte Urbano Rattazida cui avrà sei figli, l’amore però non dura e la coppia divorzia nel 1975 dopo aver vissuto per diverso tempo in Argentina. Dal 1974 al 1984 Susanna si dedica alla politica, diventando sindaco del comune di Monte Argentario (Grosseto). Nel 1976 viene eletta deputato e nel 1983 Senatore nelle liste del partito Repubblicano italiano. Durante la sua carriera politica parlamentare ha ricoperto la carriera di Sottosegretario agli Esteri dal 1983 al 1991 sotto varie Presidenze del Consiglio. Ricopre, inoltre, il ruolo di Ministro degli Esteri (prima e unica donna nella storia italiana ad accedere al Dicastero della Farnesina), durante il governo guidato da Lamberto Dini tra il 1995 1996. Susanna è già laureata in lettere ma nel 1984 riceve una seconda laurea honoris causa in Legge dalla Mount Holyoke University del Massachusetts USA. Nel 1979 viene eletta alle elezioni europee per le liste del PRI, in ambito comunitario è  membro della Commissione per le Relazioni Economiche Esterne. Aderisce al gruppo parlamentare liberal-democratico, rimanendo in carica fino all’ ottobre 1981. Negli anni Settanta è presidente del WWF, negli anni Ottanta è l’unico membro italiano all’ ONU della “Commissione Mondiale per l’ambiente e lo sviluppo” (rapporto Brundtland). Autrice di diversi libri come sc
rittrice e memorialista, tra le pubblicazioni particolarmente importante è la sua autobiografia intitolata “
Vestivamo alla marinara”, testo divenuto un best seller in Italia e all’estero. Il libro racconta della sua infanzia e della sua giovinezza, dalla nascita a Torino fino al matrimonio con Rattazzinel ’45, sono ventitré anni particolari, che coincidono con l’ascesa e la caduta di Mossolini. Cura l’edizione Cesare Garboni, che definisce il lavoro: “la storia di una ragazza e del suo nome”.  Per diversi anni Susanna continua a seguire una rubrica di posta intitolata “Risposte private” sul settimanale Oggi, ed è nominata Presidente del Comitato Direttivo di Telethon onlus sin dai primi anni Novanta, quando la maratona benefica è arrivata in Italia. Nel 1997 fa nascere la fondazione “Il Faro”, organizzazione che ha l’obbiettivo di insegnare un mestiere a giovani italiani e stranieri in difficoltà, consentendo loro di acquisire capacità professionali spendibili sul mercato. Susanna muore a Roma all’età di 87 anni, il 15 maggio 2009, all’ospedale Gemelli, dopo il ricovero per i postumi di un intervento traumatologico subito qualche settimana prima.  Di lei raccontano Thea Scognamiglio, sua nipote, Carlo Scognamiglio, presidente del Senato tra il 1994 e il 1996, Giorgio La Malfa, segretario del Partito Repubblicano dal 1987 al 2001, Ilaria Borletti Buitoni, sua amica dai tempi della prima campagna elettorale del 1976, già Sottosegretario al Ministero dei Beni Artistici e Culturali, Pasquale Terracciano, ambasciatore d’Italia per il Regno Unito, suo stretto collaboratore alla Farnesina, e molti altri. Di lei ha scritto il giornalista Enzo Biagi: “E’ una donna coraggiosa che ha soprattutto un merito, la sincerità”.

 

Alessia Cagnotto