redazione il torinese

Fiori di zucchine in pastella a modo mio

Croccanti, dorati, saporiti…una bonta’!

Ingredienti:
12 Fiori di zucchine
150 gr. di farina bianca
1 Tuorlo d’uovo
2 cucchiai di Parmigiano grattugiato
200 ml di acqua frizzante
Sale, pepe, olio di oliva per friggere.

Lavare con molta cura i fiori dopo aver tolto il pistillo interno e asciugare tamponando con carta da cucina. Intanto preparare la pastella sbattendo con energia la farina con il tuorlo, l’acqua, il sale, il parmigiano, il pepe. Mettere il preparato in frigo per almeno 30 minuti. Immergere i fiori uno per volta nella pastella, friggere in olio bollente e lasciar dorare da ambo i lati. Consumare caldi.

Paperita Patty

 

Gina Lombroso: quando le donne fanno scienza

/

Torino e le sue donne

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce. 

Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Emmeline Pankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan. Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.  (ac)

***

2. Gina Lombroso: quando le donne fanno scienza

Nell’articolo precedente ho voluto ripercorrere, per sommi capi, la storia delle “Venusiane”, (se vogliamo seguire la leggenda secondo cui le donne vengono dal pianeta “Venere” e gli uomini da “Marte”), e sottolineare le numerose battaglie e inauditi sforzi che esse hanno coraggiosamente affrontato in passato e che continuano a fronteggiare a testa alta nell’eterna sfida della vita quotidiana. Moltissime sono state le protagoniste femminili che hanno dato il loro contributo rivoluzionario per modificare il mondo negli ambiti più svariati, dalla politica alla cultura, dalla letteratura alla scienza.  Anche Torino ha avuto le sue paladine coraggiose, le quali hanno lasciato una forte impronta nel tempo, si pensi, ad esempio, a quanto hanno contribuito le Madame Reali per lo sviluppo delle arti e la magnificenza della città, promuovendo costruzioni di chiese, palazzi e residenze. In tempi più recenti le donne torinesi si sono messe in luce anche per il loro intelletto, infatti proprio di Torino era Maria Fernè Veledda, seconda donna laureata del Regno d’Italia in Medicina, nel 1878, e, sempre torinese, è stata la brillante Rita Levi Montalcini, nota per le scoperte nel campo delle neuroscienze, ma che ci ha lasciato anche pensieri profondi e illuminanti sulla condizione femminile, su cui, forse, dovremmo soffermarci a meditare ogni tanto. Un’ultima considerazione in chiave poetico-esoterica sulla nostra città, da sempre divisa in due, in cui alla sfera maschile rappresentata dal Po, ha sempre fatto da contraltare una lunare sfera femminile, silenziosa ma non meno importante, rappresentata dalla Dora. Non a caso a Torino è una delle poche città in cui sorge una chiesa specificatamente dedicata alla Grande Madre: ognuno ne tragga le proprie conclusioni. Le vicende sono molte e bisogna pur scegliere e da qualche parte iniziare. Con piacere mi accingo a raccontare la storia di alcune donne torinesi, con l’intento che le loro vicende possano ispirare la nascita di altre storie. 
Gina Lombroso nasce a Pavia nel 1872 da Nina De Benedetti e Cesare Lombroso. La famiglia appartiene ad una alta e colta borghesia legata alle tradizioni ebraiche, in cui è centrale la figura del padre, Cesare, celebre antropologo, sociologo e filosofo, padre della moderna Criminologia. Già da adolescente Gina partecipa al lavoro scientifico del padre in veste di segretaria e collaboratrice, seguendo la corrispondenza e affiancandolo nel lavoro redazionale della celebre rivista l’“Archivio di psichiatria”, fondata nel 1880. Fondamentale per la crescita di Gina è la figura di Anna Kuliscioff, ospite frequente del salotto di casa Lombroso. E’ grazie all’influenza di Anna che Gina si avvicina agli ideali socialisti, che si concretizzeranno poi in alcuni studi svolti insieme alla sorella Paola, su temi quali la condizione di vita degli operai, il problema dell’analfabetismo e gli scioperi. Sempre nello stesso periodo Gina collabora alle riviste “Critica sociale” e “Il socialismo”. Nel 1895 Gina si laurea in Lettere presso l’Università di Torino e, successivamente, si iscrive alla Facoltà di Medicina. Pubblica poi alcuni saggi, tra i quali “L’atavismo nel delitto” e “L’origine della specie”. Nel 1901 conclude gli studi di medicina a pieni voti discutendo una tesi intitolata “I vantaggi della degenerazione” davanti ad una commissione che includeva l’igienista Luigi Paliani e il Fisiologo Angelo Mosso. L’argomento della tesi si dimostra estremamente rilevante per il dibattito scientifico dell’epoca, tant’è che verrà approfondito in un volume dallo stesso titolo pubblicato nel 1904. La giovane Lombroso affronta il tema della degenerazione in modo nuovo, avvicinandosi all’ottica biologica con una prospettiva sociologica. I caratteri della degenerazione vengono letti non tanto come un progressivo deterioramento dell’umanità, quanto come la capacità di adattamento dell’uomo alla conseguenze dell’industrializzazione, con particolare attenzione alla relazione uomo-ambiente.

 

*

Dopo la laurea prosegue la sua attività di ricerca con il ruolo di assistente volontaria nella clinica psichiatrica dell’Università di Torino, tale incarico verrà portato avanti fino a i primi anni del matrimonio avvenuto nel 1901 con Guglielmo Ferrero, collega di Cesare Lombroso, con cui egli aveva collaborato per scrivere nel 1893 la monografia “La donna delinquente, la prostituta, la donna normale”. Sempre in questo periodo Gina svolge studi clinici sulla pazzia morale, sull’epilessia e sulla criminalità, non tralasciando mai l’intensa collaborazione con la rivista del padre. Nel 1907 segue il marito in un viaggio in sud America, visitando carceri, scuole e manicomi. Le sue riflessioni su tale esperienza verranno stampate l’anno successivo in un volume intitolato “Nell’America meridionale (Brasile Uruguay Argentina)”. Gina, per non farsi mancare nulla, è anche studiosa di lingue straniere, e, grazie a tale competenza, rimane a stretto contatto con l’ambiente scientifico internazionale oltre che italiano. Alla morte del padre, nel 1909, Gina si dedica con affetto alla risistemazione e ripubblicazione delle opere paterne, nell’intento di mantenerne vivo il pensiero nella comunità accademica. Nel 1916 lascia Torino e si trasferisce con la famiglia a Firenze, qui la sua casa diviene sede di incontri e scambi con l’ambiente intellettuale cittadino. Tra i frequentatori più assidui i Salvemini e i Rosselli. In questi anni la Lombroso si dedica allo studio della condizione femminile, teorizzando l’“alterocentrismo” della donna, cioè un innato altruismo fondato biologicamente e legato alla “missione” della maternità. Nei numerosi scritti su tale argomento, Gina intende negare la convinzione imperante dell’inferiorità femminile, in nome di una forte differenziazione dei sessi, che dovevano essere concepiti non in un rapporto gerarchico ma in uno di “complementarietà”. Nel 1917 pubblica l’“Anima della donna”, testo che vede diverse traduzioni e ristampe in Italia e all’estero; nello stesso anno fonda con Amalia Rosselli e Olga Monsani la “Associazione divulgatrice donne italiane”(ADDI) con lo scopo “indurre la donna italiana a prendere parte allo sviluppo scientifico, sociale, politico, filosofico del paese”. A seguito delle persecuzioni politiche da parte del Regime, nel 1930 Gina e il marito Guglielmo sono obbligati a trasferirsi a Ginevra, rimanendo però in contatto con l’ambiente antifascista. Durante l’esilio, Gina approfondisce la problematica del rapporto uomo-macchina, affrontando gli sviluppi della nuova epoca industriale in una prospettiva sociologica. In “Le tragedie del progresso” e “Le retour à la prosperité”, di fronte alle profonde trasformazioni introdotte dalla industrializzazione, viene messa in discussione la fiducia positivista in un progresso indefinito. 
La storia di Gina non ha un lieto fine, l’amore per la scienza che dalla giovinezza l’accompagna non riesce a salvarla né a riportarla a casa. Gli anni dell’esilio vedono la morte del figlio Leo Ferrero, giovane poeta e intellettuale. Gina Lombroso morirà nel 1944 due anni dopo il marito, assistita dalla sorella Paola che l’aveva raggiunta nella città Svizzera. L’ignoranza violenta della guerra ogni tanto vince e l’oscurantismo allarga di un po’ la sua ombra, ma non dobbiamo dimenticarci che “senza cultura e la relativa libertà che ne deriva, la società, anche se fosse perfetta, sarebbe una giungla.” (Albert Camus). Gina ha contribuito a estirpare le erbacce, anche da lontano.

 

Alessia Cagnotto

Aromatiche cipolline in agrodolce

/

Un contorno sfizioso realizzato con le cipolline borettane piccole e dolci dalla classica forma schiacciata. Si preparano facilmente con pochi ingredienti, si possono consumare sia calde che fredde, ideali per accompagnare carni o formaggi.
***
Ingredienti
500gr.di cipolline borettane
60ml.di acqua
2 cucchiai di zucchero di canna
2 cucchiai di aceto di vino bianco
Burro, olio, sale qb
1 foglia di alloro
***
Pulire le cipolline, togliere la prima pelle, lavarle e lasciarle in acqua fresca per circa mezz’ora poi, scolarle, asciugarle e rosolarle con una noce di burro ed un filo di olio. Aggiungere lo zucchero, l’aceto, la foglia di alloro e l’acqua. Mescolare bene e lasciar cuocere per 30 minuti poi, far ridurre il sugo a caramello, mescolare, lasciar intiepidire e servire a piacere.

Paperita Patty

“…E la Lippa roteava nell’aria”

Mai capitato di sentirvi dire, in varie forme dialettali, “…ma vai a giocare a lippa ! “, che era poi – spesso – un modo come un altro per esprimere una scarsa considerazione nei mezzi e nelle qualità del prossimo ?

Riordinando i ricordi dei giochi d’infanzia, da “praticare” all’aperto, nei prati ( dove non c’erano vetri da rompere e, di conseguenza, non c’erano nemmeno botte da prendere..), un posto di tutti rispetto va assegnato – per simpatia e particolarità – alla “Lippa”. Mai capitato di sentirvi dire, in varie forme dialettali, “..ma vai a giocare a lippa ! “, che era poi – spesso – un modo come un altro per esprimere una scarsa considerazione nei mezzi e nelle qualità del prossimo ? Un modo, a dire il vero, piuttosto improprio ed ingeneroso vista la discreta abilità che era richiesta ai praticanti della “lippa”, vera antesignana – secondo alcuni – del baseball. Ma, tralasciando l’aspetto storico sul quale ritorneremo dopo, vediamo in che cosa consiste il gioco. Si comincia dagli attrezzi, che sono due: il bastone e la “lippa” vera e propria, entrambi di legno, non di rado ricavati da un manico di scopa o, in mancanza, da qualsiasi ramo purché diritto ( era molto diffuso l’uso del nocciolo, flessibile, sinuoso e robusto ). La “lippa”, di solito lunga una spanna e mezza, aveva due punte che permettevano – colpendone una con il bastone – di alzarla e batterla al volo per “tirarla” il più lontano possibile. E la “lippa”, roteando nell’aria, tesseva la fitta trama del gioco. Il bastone – lungo più o meno un metro – aveva due funzioni: da una parte quella, già detta, di “battere” la lippa e dall’altra quella di fungere da unità di misura nella determinazione dei punti. Il gioco era aperto a tutti, da due ragazzi in su, e ci si accordava innanzitutto sulla scelta del campo, sulla direzione del tiro e sul numero dei punti necessari a vincere la partita.

***

Prima di dare il via alla sfida bisognava “segnare” la base, cioè un cerchio di circa 150 centimetri di diametro, da tracciare “grattando” il terreno con il bastone, muovendosi su se stessi in senso rotatorio come in una sorta di “compasso vivente”. Sorteggiato l’ordine di battuta dei giocatori, la “lippa” poteva cominciare, ovviamente rispettando le regole che non erano poche.Vediamole, nella successione dei “gesti”. Il battitore si poneva dentro la base con lippa e bastone in mano, gli avversari si disponevano ad una distanza – ritenuta dagli stessi “giusta” – per poter valutare direzione e lunghezza del tiro. Il battitore, che disponeva di un solo tiro, chiedeva l’apertura del gioco pronunciando una parola convenzionale ( da noi diceva “lippa” ) e gli altri gli esprimevano il loro consenso rispondendo con un’altra parola ( nel caso che ricordo era “dàgla”, cioè dagliela.. intendendo la bastonata ), ma potevano anche rispondere diversamente, per ingannare il battitore e – secondo le regole – eliminarlo qualora questo avesse iniziato ugualmente il gioco. Tuttavia il battitore, a scanso di spiacevoli sorprese, sventava le insidie mettendosi al riparo con la formula liberatoria ed universale del ” Tutto vale! “. Sgombrato il gioco da preliminari e trabocchetti, avveniva il lancio della “lippa” che, colpendola a mezz’aria, si voleva mandare il più lontano possibile dalla base. Se sbagliava il tiro lo si dichiarava “cotto” e doveva lasciare il passo a chi seguiva. Se il tiro era valido, gli avversari tentavano di acchiappare al volo la “lippa” e se l’operazione aveva successo il battitore era “cotto”. Nel caso che la presa al volo falliva bisognava recuperare la “lippa” dal punto di caduta e rispedirla al battitore che doveva , a sua volta, ribatterla al volo e mandarla il più lontano possibile per “difendere” la base e poter avere ancora in mano gioco e battuta. Scontato che, se non riusciva, la cosa si faceva più complessa: se la “lippa” cadeva entro il perimetro della base o entro la misura di un bastone dalla medesima, il battitore era “cotto”; se cadeva oltre queste misure il battitore aveva diritto a tentare tre tiri alzando e battendo al volo la “lippa” dal punto in cui era caduta. I punti venivano calcolati in modo piuttosto singolare. Se il battitore andava a segno, proponeva lui stesso un numero di punti equivalente ( a sua valutazione ) a tante misure di bastone quante ne intercorrevano tra la base ed il punto di caduta della “lippa”. Gli avversari accettavano la proposta ? I punti venivano assegnati.

***

Gli avversari però potevano fare una controproposta ( ovviamente inferiore.. ) : se il battitore l’accettava quella diventava legge, se la rifiutava si arrivava alla misurazione. Se la distanza risultava più vicina a quella proposta dal battitore i punti che aveva richiesto venivano raddoppiati, se viceversa era più giusta la controproposta il battitore restava con un palmo di naso e all’asciutto. Un bel regolamento, vero? In realtà il gioco della “lippa” offriva tre varianti: quella soltanto “battuta”, in cui si cercava di far arrivare la “lippa” in un certo punto o alla massima distanza – con delle gare molto semplici in cui ognuno giocava per se – , la versione della “lippa” in cui un giocatore la tirava e l’altro doveva afferrarla al volo ed infine la “lippa” tirata, afferrata e rilanciata, la più complessa ed anche la più bella, che abbiamo prima descritto. Ed è lei, per tornare al punto di partenza, la probabile antenata del baseball. Il gioco più famoso d’America – che in origine venne chiamato Town-ball, successivamente New York Game e dal 1839 con l’attuale Baseball – deriva dal Cricket portato in America ( come il Bowling… ) dai coloni inglesi. E se il “nobile Cricket ” discendesse dalla popolare “lippa”? Il cerchio sarebbe chiuso. E tutto torna, com’è successo per il Baseball. Dall’Europa si trasferì in America dove si rifece un nome per poi tornare nella terra d’origine. In Italia l’americano Max Ott ( forse una modifica anglofona di Massimo Ottino.. ), nel 1919, a Torino, organizzò la prima squadra italiana di Baseball. Una prova della “capacità migratoria” della lippa ? Di quella lippa che in Italia aveva molti nomi a seconda delle regioni ( dall’Aré Brusé fiorentino alla Bricca canavesana ) ed una comune radice antica ? Non saprei rispondere. So però che mentre mister Ott organizzava il Baseball tricolore con più o meno le stesse regole della “lippa”, i nostri bisnonni ed i nostri nonni ( allora ragazzini ) almeno qualche volta provavano la battuta al volo. E non è detto che non riuscissero a fare anche un bel po’ di punti.

Marco Travaglini

 

Quella strana boule dell’acqua… fredda

Il corteo che ieri ha accompagnato il povero Tugnin al camposanto non aveva la mestizia dei soliti funerali. Era arrivato quello che lui stesso chiamava “il giorno in cui staccherò il biglietto di sola andata”.

Diceva proprio così, rimasticando i modi di dire appresi in una vita “da rotaia”, da ferroviere. Al circolo aveva fatto avere i soldi perché gli amici, terminata la cerimonia, potessero ricordarlo alzando i calici in una bella bevuta. “Ricordate che se vi viene voglia di intonare qualcuna delle canzoni che cantavamo da giovani a me farà solo piacere. Ed anche se non potrò aggiungere la mia voce al coro e non potrò sentire se sarete stonati come una campana ciucca, sarò lì con voi, almeno in spirito”. Quando disse queste parole aveva le lacrime agli occhi e fece venire a tutti un gran magone. Anche per la banda musicale, che doveva accompagnarlo nell’ultimo viaggio, aveva compilato di suo pugno il “borderò:la marcia funebre di Franz Listz o il Requiem di Mozart, la Leggenda del Piave, Bella Ciao , l’Internazionale e, dulcis in fundo, il Silenzio. Un bel casino, perché non è stato possibile trovare una banda in grado di eseguire tutt’intero il repertorio che Tugnin aveva “dettato”. Così ci siamo accontentati della Leggenda del Piave, Bella Ciao ed il Silenzio. Quest’ultimo, eseguito dal Birella, cantoniere di mestiere e trombettiere per passione. A dire il vero è stato uno strazio ma, vivi a parte che –  conoscendolo – non  si aspettavano di meglio, il morto non ha avuto da lamentarsi. Il più affranto è stato, com’era ovvio, il “Giuri”. Adriano Arbusti si era guadagnato il nomignolo di “Giuri” dove averlo detto e ripetuto migliaia di volte alla moglie, soprattutto quando quest’ultima era fuori dagli stracci perché tornava a casa un po’ “brillo”. “ A tal giuri, Maria: sun mia ciucc! Gò gnanca vardà drè alla buteglia” ( tradotto:” Te lo giuro, Maria: non sono ubriaco! Non ho nemmeno guardato la bottiglia”). Ma lo tradiva l’alito e allora, giù mazzate sul groppone con la scopa di saggina. Lui e Tugnin erano amici da quando, entrambi venticinquenni, avevano preso parte alla Resistenza. “Giuri” era barcaiolo e portava da una sponda all’altra del lago e da queste in Svizzera, armi e fuoriusciti. Tugnin, ferroviere addetto alla manutenzione degli scambi sulla tratta Arona-Baveno della linea Milano-Domodossola, aveva aiutato diversi ebrei a mettersi in salvo dopo la proclamazione delle leggi razziali e – nel gennaio del 1944 – era andato in montagna con i partigiani. Fu sulle colline del Vergante e sulle pendici del Mottarone che si ritrovarono insieme, mitra in mano, a dar filo da torcere alle camicie nere. Dopo la “calata al piano” erano tornati alle loro professioni. Tugnin s’occupò ancora di binari ma stavolta per la tratta tra Stresa e Mergozzo, riducendo di molto il “campo d’azione”. L’Arbusti, con il suo cappello da marinaio calcato sulla “crapa”,  faceva la spola  tra le isole e la terraferma con la sua “ Iolanda” , una bella barca da pesca a sei posti, dotata di un potente motore da 15 cavalli. Capitava spesso che, senza darsi appuntamento, si trovavano all’osteria dei Quattro Cantoni per una partita di briscola “chiamata”, al Circolo operaio per un mezzino di rosso o dalla Maria, all’osteria dei Gabbiani, per una “merenda”. Tra loro si era rafforzata un’amicizia “solidale”. Tutti ricordano quando Tugnin ebbe l’incidente fuori dalla stazione di Baveno, cadendo dalla “Truman”, vecchia e robusta locomotiva diesel americana, giunta in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Aveva perso l’equilibrio, finendo lungo e tirato sulla massicciata. Una brutta botta che gli era costata la frattura di un femore e della scapola sinistra. Ricoverato per diverse settimane nella traumatologia dell’ospedale S.Biagio di Domodossola, aveva ricevuto – ogni due giorni –  le puntuali visite dell’amico “Giuri”. Quest’ultimo, partiva alla buonora con il treno da Baveno, dopo aver fatto – la sera prima – il “carico” da Luigino Bottecchia, vinaio di Oltrefiume che commerciava una barbera monferrina di buona qualità. Il carico consisteva, ovviamente, in due fiaschi che – per Tugnin – rappresentavano la razione delle quarantott’ore. Così, quando una decina d’anni più tardi, toccò al Giuri fare i conti con la “costrizione” dell’ospedale per una brutta polmonite, l’amico ferroviere ( ormai pensionato ) non aveva  esitato un attimo a rendere il servizio. La casa di cura, per sua fortuna, era quella di Stresa, gestita dalle suore. Prendeva “la tradotta” dopo aver fatto anch’esso il “pieno” ad un paio di bottiglioni. Solo che, già alla prima volta, si era scontrato con un ostacolo insormontabile: l’arcigna e “invalicabile” portiera dell’ospedale stresiano, suor Clementina. A differenza del nome, soave e mite, suor Clementina era un donnone di più di cento chili ed era un vero mastino. Antonio Galletti subì la perquisizione ed il sequestro del vino, protestando tanto animatamente quando inutilmente. “Caro il mio ometto, qui il vino non entra. Quindi, se vuol salutare il suo amico passi pure ma a mani vuote”. La suora era come la linea Maginot. Se la pigliavi di petto era invalicabile e ogni tentativo era destinato a mal partita. “Allora mi sono fatto furbo e l’ho aggirata”, confidò Tugnin. Concordò la tattica con l’amico barcaiolo e la mise in pratica. Giuri doveva affacciarsi alla finestra d’angolo che dava sulla scalinata del retro.Lì, con fare lesto, “allungava” la boulle dell’acqua calda all’amico che, in un baleno, svitava il tappo e la riempiva di barbera. Giuri, dopo essersi infilato nel suo letto tenendosi stretto la boulle opponeva una fiera resistenza ai tentativi delle suore di prelevargliela per cambiare l’acqua,  secondo le religiose, “ormai fredda” . “Ferme lì, sorelle”, intimava con voce che non ammetteva repliche. “La boulle va bene così. A me piace fredda, brut demoni”. Il sistema funzionò fino a quando le suore non mangiarono la foglia e il barcaiolo, privato del “carburante”, si rassegnò ad un periodo di forzata astinenza, soffrendo e brontolando. Ed oggi, eccolo qua, il nostro Giuri. Sembra un vecchio tronco spezzato dalla saetta. Ha accompagnato, insieme agli altri, Tugnin al camposanto e ora si trova perso, spaesato. “Cari miei – ci ha detto – ; siete più giovani e a certe cose non ci pensate, e fate bene. Ma io, alla mia età, mi sentivo già perso quando è morta la mia Marietta. E ora? Eh?  Morto anche Tugnin, che era come un fratello, sono solo come un cane”. Ci ha fatto una tenerezza da non credere e l’abbiamo portato con noi a pranzo. E pure a cena.  D’ora in poi, un po’ del nostro tempo, lo dedicheremo a fargli compagnia quando passerà dal Circolo Operaio. Smazzando le carte ci parlerà del lago, dell’onda vagabonda e del suo amico Tugnin. Del resto, i ricordi sono come i pesci del lago. S’impigliano nella rete della memoria e, ogni tanto, li tiriamo in secca.

Marco Travaglini

Giulio Einaudi e lo Struzzo che non mise mai “la testa sotto la sabbia”

Lo spirito digerisce le cose più dure”, era il motto della casa editrice Einaudi. A raffigurarlo, nella marca editoriale, uno struzzo che stringe un chiodo nel becco e, sullo sfondo, un paesaggio con un castello.

A fondarla, il 15 novembre 1933, l’appena ventunenne Giulio Einaudi. La prima sede era a Torino, al terzo piano di via Arcivescovado 7, nello stesso palazzo che era stato sede del settimanale L’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci. Da lì la casa editrice si spostò in piazza San Carlo e, successivamente, al n.2 di via Biancamano. Nato a Dogliani, nella Langa cuneese, patria del Dolcetto ( il padre Luigi , fu il secondo presidente della Repubblica Italiana; il figlio Ludovico è il noto musicista e compositore), Giulio frequentò il Liceo classico Massimo d’Azeglio a Torino, partecipando in seguito alla “confraternita” di ex-allievi fra i cui membri figuravano Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Fernanda Pivano, Vittorio Foa, Giulio Carlo Argan, Ludovico Geymonat, Franco Antonicelli e molti altri. Quasi tutti collaborarono e pubblicarono per la casa editrice dello Struzzo, accanto ai nomi più importanti della cultura italiana del ‘900. Fu Einaudi, tra l’altro, a pubblicare nel dopoguerra  i  “Quaderni e le Lettere dal carcere” di Gramsci. Scriveva, Norberto Bobbio: “E’ uno struzzo, quello di Einaudi, che non ha mai messo la testa sotto la sabbia”. E come dar torto al filosofo del dubbio? Dopo più di sessant’anni di lavoro come editore, Giulio Einaudi andò in pensione nel 1997 (morì  due anni dopo, all’età di ottantasette anni) lasciando in eredità un lavoro immane che – nel tempo – ha fatto di Torino una delle capitali europee della cultura. Eppure non c’è un luogo, nella toponomastica della prima capitale d’Italia, che porti il suo nome. Tranne, come ricorda qualcuno, quella “E” sul citofono dell’ultima sua dimora, al n. 8 di via Pietro Micca.

Marco Travaglini

La regola numero uno…

L’allegra combriccola stava marciando da più di un’ora nel bosco di latifoglie, guidata da Serafino Lungagnoni, in versione vecchio Lupo. Il suo cappellone boero grigio spiccava sui cappellini con visiera verde suddivisi in sei spicchi bordati di giallo, segno distintivo dei lupetti.

Tutti in divisa – camicia azzurra, pantaloncini di velluto blu, calzettoni dello stesso colore, lunghi fino al ginocchio,e l’immancabile fazzoletto al collo – , con passo marziale scandito dalla loro guida,erano ormai in procinto di sbucare sulla radura dove, alta e maestosa, li attendeva la quercia secolare. Albero simbolo del bosco Negri , al confine della Lomellina, all’interno del Parco del Ticino, alle porte di Pavia, era stato scelto dal Lungagnoni perché i ragazzini potessero abbracciarlo. Il buon Serafino era convinto che, abbracciando le piante, si potesse stabilire una forma di comunicazione con il mondo vegetale dal quale trarre giovamento. Il bosco, tra l’altro, era bellissimo: una ventina d’ettari che rappresentavano un ottimo campione della vegetazione che ricopriva gran parte della pianura Padana prima dell’arrivo dei Romani. Non solo alberi d’alto fusto ma anche tanti fiori e arbusti come il Biancospino e il Ciliegio a grappoli, che offrivano spettacolari e profumatissime fioriture all’inizio della primavera. I lupetti del suo Branco, disposti in cerchio attorno alla quercia, cinsero l’albero in un grande e tenero abbraccio, sotto lo sguardo compiaciuto di Lungagnoni che, ad alta voce, rammentava non solo il valore del gesto ma anche le due regole fondamentali del branco: “Il Lupetto pensa agli altri come a se stesso” e “Il Lupetto vive con gioia e lealtà insieme al Branco”. L’educazione dei piccoli era per lui una missione alla quale, nonostante l’età e il fisico corpulento che gli strizzava addosso la divisa,non intendeva rinunciare.

Eh, vorrei vedere. Se non ci fossi io a tenere insieme questi qui, chissà come crescono.. Io mi do da fare, cerco di portarli sempre a contatto con nuove realtà che prima mi visualizzo per conto mio, evitando pericoli e sorprese”. Sì, perché il nostro Vecchio Lupo amava “visualizzare” prima ogni cosa: fosse un percorso, un campetto da calcio, una baita o un ricovero per passarci la notte. “Nulla va lasciato al caso,eh?Cavolo, quando mi ci metto io le cose vanno lisce come l’olio e le mamme sono tutte contente. E’ una bella soddisfazione,no? ”.Così era stato anche in quell’occasione, visitando il bosco Negri. E, terminato il rito dell’abbraccio alla quercia, diede l’ordine perentorio di rimettersi in marcia. “Forza, ragazzi. Dobbiamo arrivare alla fine del bosco entro mezz’ora, poi ancora un’oretta e saremo alla stazione ferroviaria dove, con il locale delle 18,30, si rientra al paese. Sù, avanti, marsch!”. Lungagnoni, sguardo fiero e petto in fuori, dettava il passo senza rinunciare a quelle che lui stesso chiamava “pillole di saggezza scout”. Con voce possente, si mise a declamarle. “ Regola numero uno, guardare bene dove si mettono i piedi. Regola numero due, mai scordarsi della prima regola. E’ chiaro? Basta un attimo di disattenzione e si rischia di finire a terra, lunghi e tirati, o di inciampare e farsi male. Il bosco è pieno di ostacoli quindi, state atten…. “. Non terminò la frase che sparì alla vista del gruppo che precedeva di due o tre metri.

Dov’era finito? I lupetti si fecero avanti con circospezione e lo videro, dolorante e imprecante, sul fondo di una buca che era appena nascosta dalla vegetazione. Non senza fatica, usando la corda che si erano portati appresso ( “ in gite come questa non serve un tubo”, aveva sentenziato,improvvido, Serafino “ ma è sempre bene abituarsi a non dimenticare nulla di ciò che potrebbe, in altri casi, essere utile”), scontando una serie di insuccessi, riuscirono alla fin fine a trarre il vecchio Lupo da quella imbarazzante situazione. Così,ripresa la marcia in silenzio, Lungagnoni– rosso in volto come un peperone maturo – non gradì affatto la vocina che , in fondo al branco, quasi sussurrò “eh, sì. Regola numero uno:guardare bene dove si mettono i piedi”. Nonostante ciò stette zitto, rimuginando tra se e se: “Vacca boia, che sfiga. Mi viene quasi voglia di mandarmi a quel paese da solo, altro che regola numero uno”.

Marco Travaglini

L’anatra Dolores e gli uccelli sul lago d’Orta

Dal Piemonte / C’è una importante via di passaggio degli uccelli sulle sponde del lago d’Orta. Stormi di chiurli, gallinelle, beccaccini, attraversano il cielo insieme alle anatre che, volando in formazione, disegnano una grande “V”.

Anche i trampolieri, in certe occasioni, passano al volo sulle sponde del lago, senza però farvi sosta a causa delle rive tagliate a picco nella roccia e dell’assenza di quelle spiagge acquitrinose che prediligono.Tra i palmipedi nuotatori si distinguono senz’altro i germani reali, frequentatori assidui da novembre ad aprile, quando tirano il fiato riposandosi sulle acque. Garganèl e morette dal ciuffo, cazzulott e fischioni dalle allegre grida si accompagnano, a fasi alterne, con maestosi cigni, smerghi, resegott e svassi. Tra le varie colonie di gabbiani c’è n’è uno, il gabbianello (marenchìn) che un tempo appariva solo con le grandi piene e a grossi stormi, per la gioia dei cacciatori che – dalla terraferma o in barca – non perdevano l’occasione di mettere alla prova la loro mira. Le folaghe, a coppie o in piccoli stormi, si fermano nell’anfiteatro cusiano per tutta la durata dell’inverno, sfruttandone il clima lievemente più mite. I martin pescatori e le cincie, come i merli acquaioli, si trovano nei pressi dei torrenti che si versano nel lago.

Quante volte siamo stati in barca, silenziosi e immobili, per assistere alle evoluzioni, alla pesca, ai canti e agli amori di questi pennuti? Un’anatra che ribattezzammo Dolores perché con il becco, quando le gettavamo dei pezzi di pane, imitava il suono delle nacchere, si avvicinava spesso alla barca, mostrando di non aver timore. Nessuno di noi è cacciatore. Non ci va nemmeno giù che, tra le canne delle rive tra Pettenasco e Orta, dalle parti di Pella o nei pressi delle foci del Pescone e della Fiumetta, si nascondano quei predoni a due gambe, armati di doppietta, pronti a sparare ad ogni volatile. Non di rado, insieme a Giuanin, passando davanti ai canneti abbiamo fatto un chiasso del boia, affondando rumorosamente i remi in acqua o cantando a squarciagola: le anatre così scappavano via e i cacciatori restavano lì, con il colpo in canna e la rabbia in corpo. Una rabbia che, a volte, si scaricava in urla e male parole nei nostri confronti, quando non addirittura in minacce più pesanti. Ma noi non ci siamo mai fatti intimorire; nemmeno quella volta che uno di quei matti ci sparò addosso una rosa di pallettoni che si conficcarono nella fiancata della barca di Giuanin Luccio che, in preda all’ira, guadagnata la terraferma batté palmo a palmo la riviera con l’intenzione di prendere a calci nel sedere quel matto con la spingarda.

Una mattina d’inverno, dopo che i paesi del lago si erano svegliati sotto uno strato leggero di neve che incipriava tetti e alberi, siamo rimasti a lungo a guardare le anatre che s’immergevano nell’acqua fredda. Durante le loro immersioni erano capaci di percorrere anche più di duecento metri senza riemerge, questi straordinari sottomarini pennuti. Persino la nostra Dolores, forse per compiacerci e ottenere in cambio il boccone di pane, passava da un lato all’altro della barca nuotandoci sotto. Il dottor Rossini, un giorno, venne in barca con noi con tanto di macchina fotografica. Era, secondo le nostre regole, un aggeggio consentito, canne da pesca a parte. Scattò un’infinità di foto, molte delle quali veramente belle con quei giochi di riflessi sull’acqua, i colori dei piumaggi, i tuffi e le emersioni, le scie iniziali delle zampette palmate a tracciare momentanei solchi nell’acqua prima che si librassero in volo. Le foto, stampate in bianco e nero e a colori furono montate su grandi pannelli ed esposte nel salone di Santa Marta a Omegna. Non solo: il dottore, da alcune di queste immagini trasse l’ispirazione per alcuni straordinari acquerelli, confermandosi un artista di rara sensibilità. E di ferma e indiscussa impronta animalista che, tanto per esser chiari, non guasta mai.

Marco Travaglini

Arrigo e “I Trambusti”, tra fiori e balere

Arrigo Molinetti, di professione fiorista, cantava sempre.Ogni occasione era buona per allenare l’ugola: sia che stesse recidendo i gambi delle rose per una composizione a beneficio di una coppia d’innamorati, sia che stesse legando con il fil di ferro i garofani a una corona funebre.

Prima di scoprire d’avere il “pollice verde” era stato per una decina d’anni impiegato – come tornitore – in una ditta metalmeccanica di Omegna, sul lago d’Orta. Ma tra un mestiere e l’altro, non aveva mai smesso di coltivare la sua grande passione per la musica. Il suo idolo era Enzo Jannacci. Si era talmente immedesimato nell’interpretazione del repertorio del cantautore e cabarettista milanese che, per amici e conoscenti, era ormai diventato lui stesso lo “Jannacci“. Smesso di fare l’operaio e aperto il negozio di fiori sul lungolago, aveva deciso di dedicare più tempo alla sua passione. Posate le forbici e levati i guanti si chiudeva alle spalle la saracinesca e, chitarra in spalla, correva ad esibirsi nelle balere, nei circoli e anche per strada. Capitava di incontrarlo, tutto trafelato, mentre inforcava la sua lambretta per andar a fare il “cantante“. Salutava tutti con un “Oilà.. Si parte! Stasera facciamo muovere le gambe ai ballerini“. E si riferiva agli amanti del ballo in piazza a Cesara e aNonio, ai “danceur” del circolo di Luzzogno o delle sale da ballo del borgomanerese. Parlava al plurale, riferendosi al sodalizio che aveva stretto con Virgilio Galaverna, l’altro componente della sua band, “I Trambusti“. Quest’ultimo era un suo “pari”, anche se di ceppo più nobile. Il Galaverna, infatti, era giardiniere all’isola Madre, situazione che – come potete ben capire – comportava una certa responsabilità. Sulla più grande delle “Borromee” aveva a che fare con un patrimonio botanico di tutto rispetto. L’isola, larga 220 metri e lunga 330, é occupata soprattutto da giardini. Discendente di una delle famiglie più celebri  di quegli hortolani che , dal ‘500, accudivano quel ben di Dio che aveva  nel romantico giardino all’inglese la sua perla più rara e invidiata, era anch’esso un musicomane. Potava, piantava, travasava, innaffiava e innestava ma soprattutto cantava. Accompagnandosi con la sua Soprani classica, una signora fisarmonica, dava il ritmo alle canzoni del Jannacci.  I Trambusti, sul palco, perdevano quella timidezza che li contraddistingueva quando maneggiavano i fiori e avviavano il concerto seguendo, da consumati professionisti, la scaletta del loro “borderò” , partendo – immancabilmente – da ” El portava i scarp da tennis” .

In breve snocciolavano a perdifiato  le canzoni dei primi tempi come Andava a Rogoredo, La luna è una lampadina, T’ho compràa i calzett de seda , Faceva il palo, Ho visto un Re, Giovanni telegrafista e la celeberrima  Vengo anch’io. No, tu no. La seconda parte era tutta una tirata a perdifiato con Mexico e nuvole, Ci vuole orecchioSilvano, Bartali, Soldato Nencini eQuello che canta onliù . Se gli chiedevano il bis, cosa che accadeva molto spesso, i due si lasciavano andare ad una terna di canzoni ad effetto: Veronica, L’importante è esagerare e L’Armando.Erano ricercatissimi e nel tempo, dopo aver battuto in lungo e in largo la zona del lago d’Orta e del Mottarone, la bassa novarese e persino il Verbano su fino alla sbarra doganale con la Svizzera, arrivarono a sconfinare in terra lombarda, sulla sponda magra del Maggiore, suonando nelle sale da ballo e in qualche “pub” di Angera, Laveno, Luino e Maccagno. Quando passavo davanti al negozio dell’Aristide, in via Mazzini, a fianco dell’Albergo Croce Bianca, mi salutava intonando a voce piena“..Che scuse’ ma mi vori cuntav d’un me amis.. el purtava i scarp de tennis,  el parlava de per lu e rincorreva gia’ da tempo un bel sogno d’amore..l’avea vista passa’ bianca e rossa che pareva il tricolore..”. Questo accadeva nei giorni feriali perché se lo incrociavo la domenica mattina, mentre usciva da messa ( era un praticante molto devoto e pur di non mancare alla funzione festiva era disposto a tradire anche la passione per la musica), mi salutava con un“Forza,maestro, tira fuori la voce che  cantiamo insieme” e, senza attendere la mia risposta, attaccava con “L’Armando“: “..Tatta tira tira tira tatta tera tera ta .Era quasi verso sera  se ero dietro, stavo andando che si è aperta la portiera è caduto giù l’Armando”.  I Trambusti sono andate avanti per quasi vent’anni. Poi al Galaverna è venuta un’artrite alle mani. Colpa dell’umidità, dello stress e dei veleni dei diserbanti. Non riusciva più a farle correre sulla tastiera della “fisa” e così, immalinconito e giù di corda, aveva smesso di suonare. L’Arrigo “Jannacci“, senza la sua spalla, ripose nell’armadio la chitarra e si limitò a fischiettare le sue canzoni lavorando in negozio. Con i concerti non avevano tirato su più di tanto. Per le loro prestazioni non chiedevano mai somme di denaro ( “il soldo fa arrugginire le corde vocali. Se lo dovessi fare per denaro non riuscirei più ad intonare un fico secco“, diceva Molinetti, gonfiando il petto con un moto d’orgoglio). Accettavano solo pagamenti in natura. Un pollo, un coniglio nostrano, mezzo tacchino arrosto, un “cavagnin” di prodotti dell’orto, marmellate fatte in casa e, qualche volta, i baci carnosi di qualche bella ostessa, ben felice di provare a vedere se quelle labbra erano poi così morbide e dolci come le parole di alcune canzoni.

Marco Travaglini

Alpinia, la storia del giardino di piante alpine e di montagna

Le piante e i fiori per l’uomo hanno sempre rappresentato qualcosa di molto importante

 

Inizialmente erano l’espressione della natura in cui poteva riconoscere un interesse pratico, concreto: erano le piante (alimentari, medicinali o tessili) che lo aiutavano a vivere, cibarsi, curarsi, vestirsi. Alcune piante erano considerate “magiche” e rappresentavano un punto di vista religioso rilevante. Con il passare del tempo furono costruiti i primi giardini botanici, per piacere estetico e puro spirito di ricerca, senza nessun legame con le eventuali applicazioni pratiche delle loro proprietà. Questi giardini erano luoghi frequentati per imparare a riconoscere le piante tant’è che, attraverso la testimonianza di Diogene Laerzio, si è saputo che Teofrasto aveva fondato ad Atene, a questo scopo, un giardino botanico. Dai giardini pensili di Babilonia ai giorni nostri, per varie fase e con tecniche e finalità diverse, il giardino è diventato uno degli ambienti che hanno accompagnato le varie civiltà. Una delle forme più originali è quella del “ giardino di piante alpine e di montagna”. In Italia il giardino alpino, in senso stretto, nacque nel 1897 con la fondazione di “Chanousia” sul Piccolo S.Bernardo e proseguì trentasette anni dopo, nel 1934, con l’apertura di “Duxia” (l’attuale “Alpinia”) sulle pendici del Mottarone, la “montagna dei milanesi” che domina Stresa, sulla sponda piemontese del lago Maggiore. In questo caso, si trattò – anche grazie alla non elevatissima ma pur sempre rispettabile altitudine d’Alpinia – di un felice compromesso tra un giardino roccioso (con funzioni estetico-decorative) e un giardino alpino (dove sono riunite specie floristiche proprie dei monti, a scopo di studio e conservazione).

Un balcone sul golfo Borromeo

L’orto botanico Giardino Alpinia, di fatto, è uno splendido balcone naturale sul golfo Borromeo del Lago Maggiore e, con gli anni, è diventato una meta irrinunciabile per il turista e per l’appassionato naturalista. C’è chi lo visita, e sono molti, solo per sostare al “Belvedere” – posto nel punto più alto e panoramico del giardino – e godersi lo spettacolo offerto dalla vista che si perde sul lago Maggiore verso Luino e la sponda lombarda, sul golfo Borromeo e le sue isole, sul lago di Mergozzo e sul semicerchio di oltre 150 chilometri di montagne, dalla cima del Fletschhorn alla Zeda, dal Limidario allo Spluga, dal Bernina al monte Generoso fino alle prealpi lombarde. Non vi è dubbio che il verdazzurro del contrasto tra boschi, prati e lago crea una suggestione del tutto particolare. Ma ad Alpinia si va anche per ammirare, passeggiando nei viali, le specie botaniche, soprattutto alpine, che vivono in aiuole e terrapieni. Alpinia è collocato a circa 800 metri d’altitudine, in territorio di Stresa, appena dopo la località “Alpino” di Gignese ed è raggiungibile agevolmente e comodamente sia passando da Gignese e salendo le curve nervose che portano sulla strada che conduce alla vecchia via “Borromea”, sia con la funivia che dal Lido di Carciano a Stresa raggiunge la vetta del Mottarone, fermandosi alla stazione intermedia, che dista poche centinaia di metri dall’entrata del giardino. Sorto per tutelare dall’interesse privato la sua affascinante posizione panoramica, è stato il secondo giardino botanico alpino fondato in Italia, dopo quello di Chanousia in valle d’Aosta. La fruibilità dell’area nuova del giardino (i due ettari d’ampliamento “sotto” l’area storica, che anni fa hanno consentito il raddoppio della superficie del giardino, oggi di 4.000 mq) ha reso possibile la realizzazione della passeggiata sul nuovo percorso, permettendo di visitare questa parte d’Alpinia che è stata espressamente dedicata alle specie autoctone, alla flora spontanea del Mottarone, realizzando così una saldatura con la parte storica del giardino dove dimorano le essenze botaniche più pregiate. In aggiunta venne predisposta anche un’area umida con tutte le essenze acquatiche.

“Tanto magro era il suolo, quanto pregiato era l’ambiente”

Nei primi anni ‘30, il terreno sul quale sorge Alpinia era incolto e quasi improduttivo per la sua natura acida e silicea. Eppure, tanto magro era il suolo quanto pregiato era l’ambiente, grazie soprattutto alle visioni panoramiche di grande ampiezza e bellezza. “In quegli anni – scriveva l’Ambrosini nel 1953 – una sola panchina di legno grezzo, su un dosso a 800 metri d’altitudine, prospiciente il gran quadro del bacino centrale del Lago Maggiore, era quanto di turistico esisteva in posto; vi si giungeva per mezzo di uno stretto sentiero tra ginestre e felci. Quello era il “belvedere” e si sapeva che da quel posto, nel gran silenzio dell’isolamento dal resto del mondo, la vista poteva spaziare su laghi e monti fino a più di centocinquanta chilometri di lontananza “. Il terreno era comunale ma vi furono dei privati che pensarono che lassù potesse sorgere una bella villa, con una vista da sogno. Per non dar nell’occhio, furono offerti venti o trenta centesimi al metro quadro. Appena si seppe della proposta, scattò l’allarme e un ristretto gruppo di “innamorati della montagna “ (come li definì Ambrosini) chiese all’allora Podestà di Stresa di non vendere la località ai privati per conservarla al godimento pubblico. E fu lanciata l’idea: “Farne un giardino di piante alpine aperto a tutti”. Era appena uscito, in ristampa, un libro di Penzig e Fenaroli sulla flora alpina e i “buongustai della scienza gentile”, cioè la botanica, si entusiasmavano per il giardino alpino Chanousia, al piccolo S.Bernardo. In breve la proposta fu formalizzata e il 28 gennaio del 1934, accettata l’idea dal comune di Stresa, nell’aula di segreteria del Municipio, dall’iniziativa d’Igino Ambrosini e Giuseppe Rossi nacque Alpinia (che inizialmente si chiamò “Duxia”, poi ribattezzato “Alpinia” nel 1944). Avviatosi come iniziativa turistica, il progetto divenne anche botanico-forestale. Fu subito redatto il programma iniziale, quello che si può a buona ragione definire il “manifesto” d’Alpinia.

“E’ il più bel posto tra quanti ne vidi girando il mondo!”

“ L’iniziativa di ornare uno dei più bei posti panoramici del nostro paese, il Belvedere d’Alpino sopra Stresa con un giardino di piante alpine, ha i seguenti scopi: conservare al pubblico godimento un luogo di primissimo ordine che altrimenti avrebbe avuto la sicura destinazione a villa privata; dar vita, col giardino, ad un’opera di bellezza aristocratica e popolare insieme, istruttiva, educativa, ricreativa; offrire un ambiente di serena poesia che costituisca un importante richiamo turistico per i visitatori italiani e stranieri...”. La descrizione, più dettagliata, del giardino seguiva lo slancio di queste frasi ma soprattutto, nel concreto, (“con ben scarsa competenza ed esperienza”) prese forma il progetto. Dalla ditta Correvon di Ginevra furono acquistate un centinaio di specie di piantine tipiche delle Alpi. Il prof.Correvon non fece un grande affare con quella fornitura perché, per disporre le prime aiuole, mandò espressamente e gratuitamente suo nipote per insegnare come si doveva procedere e venne poi egli stesso in Italia, prima al giardino (e lo definì “ il più bel posto tra quanti ne vidi girando il mondo”) e poi a Milano, dove tenne una memorabile conferenza sotto gli auspici del Cav.Giuseppe Rossi, uno dei fondatori del Club alpino Italiano. Un evento che costituì l’inaugurazione ufficiale della fondazione d’Alpinia. Iniziatosi il giardino con una cinquantina di piante alpine, nei due-tre anni successivi le specie salirono di numero rapidamente, sfiorando le 500, in gran parte molto preziose, dono di Chanousia, il giardino alpino del Piccolo S.Bernardo, unico all’epoca in “funzione” in Italia, dov’era custode il prof. Lino Vaccari, continuando in alta quota (tra Valle d’Aosta e Savoia, a 2170 metri) l’opera dell’abate Pietro Chanoux.Un passo alla volta continuarono le semine, le piantagioni, le erborizzazioni e – in pochi anni – Alpinia raggiunse le 2500 specie (delle quali 200 di piante officinali – con la campionatura di pressoché tutte le specie che riescono a vivere all’aperto in un clima temperato piuttosto freddo – e 150 arboree).

 

La collina brulla iniziò a fiorire..

Il lavoro mutò il panorama della collina brulla: nei 12.ooo metri quadrati recintati furono disposte scogliere e aiuole, ruscelletti e cascatelle, prati e macchie di bosco. Il giardino fu aiutato,Chanousia a parte, da molti orti botanici universitari che inviarono semi e piantine. E’ un lungo elenco, che si snoda tra Parigi, Coimbra, Losanna, Basilea, Ginevra, Dublino, Graz, Uppsala, Stoccolma, Glasgow, Copenaghen, Cambridge, New York, Vienna, Edimburgo e ancora Pavia, Torino, Sanremo, Firenze, Genova, Napoli, Palermo, Villa Taranto a Pallanza. Una vera e propria “gara di cortesia e altruismo in onore della scienza” che fu per anni a senso unico, con Alpinia che “riceveva senza poter contraccambiare” ma che vide poi, alla fine degli anni ‘40, anche il giardino affacciato sul lago Maggiore partecipare attivamente agli scambi, entrando nell’elenco dei donatori d’altri orti botanici. La crescita d’Alpinia, in quegli anni, fu impetuosa. Le piante e i fiori non seguirono un itinerario prestabilito, suddiviso per specie e classificazioni, ma si badò di più all’estetica, al piacere di stupire il visitatore con i lampi cromatici delle fioriture stagionali. Si prestò molta attenzione alle erbe alpine, alle piante pioniere, belle e tenaci. Una filosofia, che venne riassunta da Ambrosini in un rustico cartello, posto all’entrata del giardino: “ Non cercare qui, visitatore, vegetazioni di lusso, fiori doppi, disposizioni sapienti. Questo è un giardino di piante alpine, minuscole, feconde, frementi di vitalità, come offre natura”. Un risultato veramente straordinario, che valse l’approvazione, l’aiuto e la medaglia d’argento del Ministero per l’Agricoltura e foreste. Igino Ambrosini aveva compiuto, con i suoi collaboratori, un miracolo, che descriveva così:“..le piante alpine, con le loro magnifiche fioriture ed il loro modo di vivere, raccolgono sempre l’incantata ammirazione dei visitatori e sono per quanto possibile in aiuole, rocce , scogliere, ruscelli, il che costituisce pure una singolarità del giardino” . In quegli anni si erano succedute anche alcune coltivazioni (l’orto di Guerra, ndr) di piante alimentari e industriali. Venne dimostrata, ad esempio, la possibilità della coltivazione in luogo della valeriana, della digitale, lavanda e cumino. E, com’era inevitabile, non mancarono per altre specie di piante i risultati negativi, seppur “ugualmente istruttivi”.

“Portentoso calmante per lo spirito in questi tempi turbinosi”

Agli inizi del gennaio 1944, in piena guerra, cogliendo l’occasione del “decennale” del giardino, la Commissione Direttiva , presieduta da Giuseppe Rossi e composta da Ambrosini e Rovelli, tirò le somme di un primo bilancio, ammettendo innanzi tutto che il giardino “ha sempre presentato un notevole interesse turistico e scientifico: molto maggiore il primo,più contenuto il secondo”. Il giardino alpino “Duxia” svolgeva anche un’azione di “portentoso calmante per lo spirito in questi tempi turbinosi”. I numeri parlavano di un successo: 86.862 visitatori in dieci anni,con una media di dodicimila all’anno in tempo di pace e cinquemila in tempo di guerra. Di questi visitatori, in tempo di pace, 900 all’anno erano stranieri. Allora le automobili che affluivano al giardino, arrancando sui tornanti che da Baveno e Stresa salivano all’Alpino erano circa 1200 all’anno. I costi di “impianto” e manutenzione del giardino furono contenuti in 154.802 lire e …5 centesimi, ripianati dai contributi del Comune di Stresa (proprietario, tra l’altro, del terreno) e di vari enti e privati. La Commissione non mancò, nella relazione, di rilevare come “ gli Enti che ci hanno sussidiato hanno compiuto un eccellente affare sia per l’attività turistica che il giardino ha permesso di svolgere, sia perché esso ha valorizzato in modo cospicuo i terreni circostanti, in pratica per qualche milione di lire”.

Il dopoguerra e il “salotto” d’Alpinia

Nel 1946 Alpinia segnò una notevole ripresa. I visitatori furono 8942 in confronto dei 4215 del 1945 e dei 12 mila d’anteguerra. Il 31 gennaio 1947, nella sua “Relazione sull’attività d’Alpinia durante il 1946”, la Commissione Direttiva, presieduta da Giuseppe Rossi e composta da Ambrosini e Rovelli, scriveva: “Tra i motivi di soddisfazione, oltre alle consuete manifestazioni di simpatia dei visitatori, segnaliamo l’intensificata corrispondenza con Istituti nazionali e stranieri; gli scambi di semi e piantine con Istituti esteri;le richieste avute da amatori intenzionati di dar vita ad altri giardini alpini; le visite d’alte autorità governative, scientifiche, turistiche; l’aver ospitato artisti di buon nome per riprese cinematografiche; l’essere stato oggetto di citazione in numerose pubblicazioni”. L’eccezionale vista panoramica che si godeva dal “belvedere”, dove fu costruita una capanna, il “salotto d’Alpinia”, dotata di un potente cannocchiale, la raccolta di una moltitudine d’essenze botaniche e l’acqua oligominerale di sorgente furono gli “ingredienti” del successo e il giardino divenne meta di moltissimi visitatori. Nel 1953 sorse , all’entrata, la “casa d’Alpinia”. Igino Ambrosiani, insieme all’associazione degli “amici d’Alpinia”, presieduta da un infaticabile divulgatore delle bellezze botaniche come il professor Albano Mainardi, rappresentarono per molti anni il braccio operativo, colto e appassionato, che fece crescere “Alpinia” in valore e prestigio. E fu proprio Mainardi a ricordare come “ i fondatori non ne fecero un “orto botanico” con rigide , scientifiche divisioni per famiglie, provenienze, terreni adatti. Finalità principale è stata quella di far conoscere ed amare, senza pesantezze, una serie di vegetazioni in modo che il visitatore generico, quando girerà per i monti, le riveda, le riconosca e le rispetti, e “l’amateur” non più profano possa, nella sintesi del giardino, salutarle come vecchie conoscenze e rinsaldarne l’amicizia”.

“Ogni filo d’erba ha la sua storia da raccontare”

In quegli anni Ambrosini pubblicò “Alpinia intimo”, un utilissimo e documentato tascabile, una sorta di trattato di “botanica leggera”. Il volumetto si soffermava anche sulle virtù salutari d’alcune erbe officinali che “oggi ridivengono attuali di fronte a questo pover’uomo contemporaneo, obbligato per fuggire ai suoi mali, ad ingurgitare passivamente pastiche, vitamine, ormoni, antibiotici, sonniferi, ansiolitici, analgesici e antistaminici”. L’anima del giardino era condensata in questo “flash” d’Ambrosini che,   ispirandosi alla memoria dello scrittore Amiel, scrisse “..ogni filo d’erba ha la sua storia da raccontare”. Sono le “creature” che amava crescere e che descriveva come “piccole, minuscole piante “tutto fiore”, avvinghiate da robuste radici alla terra, ma capaci coi loro minuscoli e vitalissimi semi di disseminarsi ovunque, portati dal vento, uncinarsi a nuova terra, conquistarla, germogliarvi, moltiplicarsi. Piantine minuscole, non flaccide, capaci di vivere sul magro, unite strette per difendersi, organismi di lunghissima vitalità che sanno – con cento mezzi – nutrirsi e mantenersi sani, senza l’assistenza dell’uomo e senza alimentazioni pletoriche; esseri che cedono alla carezza dell’aurora mattutina ma non temono la bufera; che si muovo senza darlo a vedere, che utilizzano la collaborazione altrui e la compensano traendo beneficio; generazioni d’aristocrazia millenaria, depositarie di segreti e di misteri. Piantine che camminano in cerca di nutrimento, che emettono anche dai rami, radichette laddove sentono che vi è alimento o sostegno; che si difendono con spine, peli, ragnatele, verniciature, veleni; che girano il fiore in cerca di luce ed il seme in cerca di terra; che impazziscono per azione di parassiti; ma soprattutto di mostrano frementi nell’attività riproduttiva”.

Drosera e Parnassia, una tenera “associazione a delinquere”

Alcune di queste piantine sono talmente minuscole che occorre osservarle con la lente e, conoscendole, non mancano di stupire. E’ il caso della Drosera rotundifolia, pianta carnivora, e della Parnassia che vivono l’una accanto all’altra in una specie di simbiosi o, se vogliamo, in una vera e propria “associazione a delinquere”. La Parnassia, col suo bianco flabello richiama i piccoli insetti che, posandosi anche sulla Drosera, ne sono da questa invischiati, asfissiati e poi digeriti. Nello stesso tempo, la Parnassia – complice della “killer” – cacciando le sue radichette sotto la Drosera, succhia quei sali minerali che alla vicina (nutrendosi specialmente di sostanze organiche) non interessano.

Il declino e la “svolta” del 1977

Dopo molti anni difficili e bui, seguiti al ritiro d’Igino Ambrosini dalla carica di Direttore, con il rischio che tutto andasse in malora e che Alpinia imboccasse la via del degrado ambientale, dell’incuria e dell’oblio,ci fu la svolta del 1977. La fase di rinnovamento coincise con la nuova gestione del giardino, assunta da un consorzio d’enti pubblici guidato dall’allora Comunità montana Cusio-Mottarone. Su Alpinia, gradualmente, si riaccesero i riflettori. Aiuole e roccere tornarono ad essere curate e le poche decine d’essenze sopravvissute ricevettero nuove cure e attenzioni. Il passo decisivo, dopo questi primi interventi, avvenne con il progetto degli architetti paesaggistici Giacomo Prini e Patrizia Pozzi. L’area del giardino si ampliò, raddoppiando. Furono aperti nuovi percorsi e sentieri, creando la zona umida a nord, aumentò il patrimonio vegetale con nuove essenze arbustive, arboree ed erbacee. Gli sforzi degli enti che gestirono il giardino, accompagnati dalla passione e competenza del giardiniere-custode Michele Ferrier, fecero “rifiorire” Alpinia.

Le mille specie d’Alpinia

Questa è, in sintesi, la storia di questa straordinaria realtà, tutt’oggi meta – da aprile a metà ottobre – di decine di migliaia di visitatori. La “filosofia” di Ambrosini, nel tempo, è stata rispettata. Infatti, il successo di un giardino come Alpinia deriva da questa mescolanza di specie diverse: erbe, felci, bulbose, licheni, piante legnose, arbusti, provenienti da regioni e habitat differenti, da aree geografiche in quota non solo sulle Alpi ma anche in zone più remote ed esotiche, dagli Urali al Giappone, alla catena Hymalaiana. Piante diverse ma unite dall’obiettivo comune di dare senso e immagine al giardino e da caratteristiche morfologiche abbastanza simili. Una delle prime, e più ardue difficoltà nella formazione di un giardino roccioso alpino come questo consiste nella conoscenza delle esigenze delle piante, la cui sopravvivenza è strettamente legata alla specificità degli elementi naturali. La natura del suolo per l’apparato radicale e gli elementi nutritivi, le proprietà chimiche del terreno, le necessità d’acqua e di drenaggio, l’esposizione alla luce del sole e il riparo dai venti: nulla è lasciato al caso e le scelte sono frutto di tecniche, esperienza, ripetuti tentativi e sperimentazioni, successi e fallimenti. Una delle caratteristiche d’impianto adottate ad Alpinia è stata quella delle “aiuole rialzate”, che propongono due vantaggi. Innanzi tutto, sopraelevando il suolo dell’aiuola dal terreno naturale si ottiene un drenaggio più efficace e , in secondo luogo, con materiale di riempimento molto differente rispetto alla composizione del terreno, si possono assicurare alle piante tutti gli elementi minerali più opportuni per la loro crescita. Attualmente le aiuole e le roccere d’Alpinia ospitano centinaia di specie, appartenenti ai vari generi di piante alpine. Fra i gerani (geranium) ci si può sbizzarrire: dai più comuni come i geranium sanguineum al geranium platypetalum, nativo del Caucaso, alto circa 30 cm e capace di formare masse compatte di foglie lobate e magnifici fiori azzurri-purpurei del diametro di 4-5 cm, che si aprono in successione. Altro genere tipicamente alpino è quello dei garofanini (Dianthus), che spesso nell’ambiente montano costituiscono formazioni a tappeto o a “monticello”, con foglie lineari, fusti eretti e petali profumati e multicolori. Le diverse specie di campanule sono una delicata e affascinante presenza ad Alpinia: dalla più comune Campanula Medium, biennale sudeuropea di media altezza, a piante d’assoluta rarità come la Campanula Marchesettii, pianta endemica dei boschi del Trentino. Si trovano piante ornamentali come il mediterranei lino giallo, il talittro (Thalictrum aquilegifolium) con i suoi fiori formati non da petali ma solo da organi sessuali, la celebre stella alpina (Leontopodium alpinum) dalle strane e singolari brattee biancastre, ai gigli. L’elenco può essere lunghissimo, quasi interminabile, di piante che le montagne crescono, esibiscono e, a volte, nascondono. Appare evidente anche al profano come il “valore” di un Orto Botanico sia determinato dal numero delle specie che ci vivono. Per una buona germinazione delle due semine annuali, autunnale e primaverile, le terrine sono poste nel semenzaio, in un lettorino freddo e , successivamente, la plantula è invasata singolarmente o a mazzetti. Così, al riparo in un tunnel ombreggiato fino alla crescita, si consente un sicuro trapianto a dimora. Questo lavoro ha permesso nel tempo di arricchire Alpinia di molte nuove specie, tra le quali un certo numero arbustive. In questo modo si passò dalle 400 specie del 1987 alle circa mille attuali con l’obiettivo , molto ambizioso ma non impossibile, di tornare alle quasi duemila del 1953.

Una “vetrina” sui fiori, tra lago e montagna

Alpinia, negli anni a venire, dovrà essere sempre più un museo a cielo aperto, un laboratorio di conoscenze botaniche, una “vetrina” sui fiori montani, collegandolo alle migliori tradizioni floricole del lago maggiore che,in tutto il mondo, è conosciuto per le sue produzioni d’acidofile, in particolare azalee e rododendri. Un progetto meno ambizioso di quanto possa apparire e comunque “ in linea ” con quanto aspirano i tanti che, dopo aver percorso i viali d’Alpinia, manifestano il loro entusiasmo per aver potuto godere di quest’angolo di natura sulle pendici del Mottarone, tra l’azzurro del lago e quello del cielo.

Marco Travaglini