redazione il torinese

Daniele Lunelli e la “comunità dei pesci” del lago Maggiore

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Quella dei pesci era ed è una vera “comunità” che vive nel lago Maggiore da Sesto Calende fin su in Svizzera. Ci sono dei  salmonidi diffusissimi  come i coregoni o più rari come le trote fario e marmorata che, finite nel lago dai fiumi, si sono ambientate fino a “cambiar pelle”, assumendo una livrea argentata con pochi e piccoli segni scuri a forma di ics

Il mio amico Daniele Lunelli è l’ultimo discendente di una famiglia di pescatori che si tramandano il mestiere di generazione in generazione. Con il tempo è diventato bravo nel maneggiare le “reti volanti” quasi come suo padre Gioacchino e suo zio “Lisca”, al secolo Mariano Lunelli. Con le “volanti”, zavorrate di sotto coi piombi o con dei sassi tondi e tenute  di sopra a pelo d’acqua grazie alle file dei galleggianti, bisogna saperci fare. Soprattutto occorre aver “naso” per i venti e le correnti e farsi un’idea più o meno precisa sui posti dove si può trovare il pesce. Quasi nulla viene lasciato al caso anche se  il movimento di quelle reti calate al largo nel tardo pomeriggio e lasciate libere di muoversi fino all’alba, a seconda delle “rotte” delle correnti dominanti, può apparire casuale. “ In realtà, quando le ritiriamo in secca – mi dice Daniele – troviamo che sono rimasti impigliati , a seconda delle maglie della rete,  trote di lago e coregoni, agoni ed alborelle”. Quando invece si “punta” su tinche, scardole, persici o lucci sono necessarie le reti fisse, “da posta”,  posizionate sul litorale. Ma la sua vera abilità il pescatore provetto la mette in mostra con il tramaglio. Ormai, sulle rive del lago, erano rimasti in pochi ad utilizzarli con abilità nella cattura dei persici. Formati da tre strati di reti sovrapposte ( i due esterni, le “armature” o “mantelli”, a maglie grosse; quello interno, il “velo” più alto e più fine ), vengono disposti in acqua a perpendicolo così che i pesci – attraversato il mantello – finiscono imprigionati e senza scampo nella trama fitta del “velo”. “ E’ una pesca che richiede occhio e abilità”,dice Daniele, a cui non pare vero poter spiegare le varie tecniche di pesca. “ Oggi non interessa quasi a nessuno conoscere questi particolari. Forse pensano che il pesce persico ci va da solo sul banco della pescheria e, strada facendo, per non far perdere tempo, trova anche il modo di sfilettarsi. Comunque, i tremagli possono essere usati “in posa” o “al salto”. In quest’ultimo caso si calano e si tirano su di giorno, spaventando i pesci con un remo o buttando dei sassi in acqua, così che scappano verso la rete e noi..zacchete!..li catturiamo, appunto, al salto” .

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Da lui ho imparato un sacco di cose. Ad esempio che nelle acque meno profonde, per la cattura del pesce più pregiato, cioè persici , lucci e anguille, si usa il bertovello, “al bartravel”, una specie di “nassa di lago”,  cilindrica e con delle aperture a cono, cosicché il pesce- una volta entrato – non può più uscire, restandovi imprigionato. Sono state vietate, invece, le reti a strascico e le “bedine” con le quali, un tempo,  era stata fatta strage di pesci. Le prime, trascinandosi sul fondale del lago, lo “aravano”, provocando danni seri all’ambiente mentre le seconde- calate a cerchio in pieno lago – “insaccavano” il pesce senza tanti complimenti e senza discriminazioni, mettendo a rischio la fauna ittica. “ Ma sai com’è..Una volta non c’era una gran coscienza e la fame era la fame. Per far guadagno non si andava tanto per il sottile anche se i veri pescatori stavano comunque attenti perché dal lago e dai pesci dipendeva la vita delle loro famiglie”. Quella dei pesci era ed è una vera “comunità” che vive nel lago Maggiore da Sesto Calende fin su in Svizzera. Ci sono dei  salmonidi diffusissimi  come i coregoni o più rari come le trote fario e marmorata che, finite nel lago dai fiumi, si sono ambientate fino a “cambiar pelle”, assumendo una livrea argentata con pochi e piccoli segni scuri a forma di ics. Si narra ancora di quella trota catturata ad Ascona che, lunga più di un metro e mezzo, pesava ben 22 chili, a dimostrazione che ne giravano di belle dentro il lago. Sui coregoni, ad esser sinceri, va fatta qualche precisazione. Alla  loro famiglia , presente nei nostri laghi prealpini, appartengono due specie : il  “lavarello” e la “bondella”. Non si tratta dello stesso pesce, nonostante la bondella sia più minuta, ma spesso solo gli ittiologi – ed i pescatori di mestiere –  sono in grado di distinguerli fra loro. Entrambi non sono propriamente nati qui. Il Lavarello è stato introdotto alla fine dell’800 dai laghi elvetici mentre la Bondella proviene dal lago di Neuchatel ed è stata “introdotta” nel Maggiore nel 1949 ed in quello di Como agli inizi degli anni’ 60. Andando avanti nell’elencazione troviamo, tra i frequentatori più diffusi delle acque del lago, il prelibato Persico e l’Agone. Il Luccioperca, una specie di via di mezzo tra il persico ed il luccio, forte predatore che vive nei  litorali dove  la corrente è modesta e la vegetazione è scarsa, è arrivato nel Maggiore provenendo dal lago di Lugano. Originario dell’est europeo, ai primi del secolo scorso era stato immesso nelle acque del Ceresio e da lì, attraverso il fiume Tresa ,suo principale emissario, che sfocia nei pressi di Luino, ha raggiunto a nuoto il lago Maggiore. E, vista la proliferazione, si dev’essere sentito a suo agio, a casa propria. Viceversa, di anguille ne sono rimaste poche. E quelle poche non hanno tanta voglia di finire in umido o in carpione. Questo pesce ha un ciclo vitale straordinario e misterioso.  Ad un certo punto della sua vita  abbandona le acque dolci  dei fiumi e dei laghi europei per dirigersi verso il mare e, raggiunta la grande tinozza di acqua salata, continuano il loro viaggio fino ad arrivare in una certa zona dell’oceano Atlantico – il mar dei Sargassi –  per deporvi le uova in primavera. E poi ? Poi tornano indietro, affrontando un viaggio a ritroso che dura anche più di tre anni per coprire le migliaia e migliaia di chilometri che separano il Mar dei Sargassi dalle coste europee, dal Mediterraneo, dai fiumi e dai laghi. Da noi, con le dighe sul Po e sul Ticino a far da barriera, il loro ritorno diventa una sorta di “corsa ad ostacoli”.

 

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Chissà perché, dopo tutte queste peripezie,tornata in acqua dolce,  l’anguilla diventa un pesce con abitudini notturne, che durante il giorno vive nascosto in tane oppure immerso nel fondo; forse per riposarsi del viaggio? Se così fosse, bisognerebbe lasciarle un po’ in pace. E i pescatori, quando pescano, stanno zitti e non parlano mai anche per non disturbare il sonno delle anguille. E gli altri pesci? Cavedani, scardole, tinche,alborelle, “trollini”, pighi, savette, persici sole ( i tremendi e famelici “gobbini”) ce ne sono in quantità ed ognuno ha la sua parte della grande famiglia ittica. Infine, sua maestà il luccio che, con la sua bocca a “becco d’anatra”, dominata da robusti e acuminati denti, è il re dei predatori d’acqua dolce. Caccia restando immobile fra le piante acquatiche fino a mimetizzarsi, in attesa che la preda si avvicini. E’ il terrore  dei pesci più piccoli ma, quando ha fame, non disdegna rane, piccoli mammiferi e giovani uccelli acquatici. Un signore di Helsinki, conosciuto un’estate a Feriolo dov’era ospite di un campeggio, mi disse che nel suo paese – e non solo lì – nel corso dei secoli, il luccio è diventato un simbolo araldico,indicante i diritti di pesca ed  usato negli stemmi di famiglie nobili o di  città. Io però ricordo quello che prese Gilberto Camòla, pescando  con il cucchiaino sulla spiaggetta della Villa Fedora, a Baveno. Aveva fatto un lancio lungo e stava recuperando piano piano  quando uno strappo violento quasi gli portò via la canna a mulinello dalle mani. Ci mise poco a capire che aveva abboccato qualcosa di grosso e dopo una battaglia lunga quasi mezz’ora, riuscì – in un bagno di sudore – a portare sulla battigia un luccio enorme. Al peso risultò di quasi undici chili. Una bestia con una bocca che incuteva timore. Provate voi  a pensare com’erano quelli di taglia e di peso quasi doppio, che erano stati pescati sulle due sponde del Verbano. “Se vuoi essere un buon pescatore devi conoscere bene i pesci. Oggi c’è gente a cui capita di pescare così, una volta tanto e di allamare una butrisa, spaventandosi quasi avesse catturato un mostro. E’ vero che la bottatrice ha un aspetto sgradevole, paragonabile a quello di un gigantesco girino e ricorda un po’ il pesce gatto, con quella  grossa testa piatta, gli occhi piccoli e quel corpo cilindrico che si va assottigliando verso la coda ma, vivaddio ,è pur sempre una creatura del nostro lago”.Daniele non si mette mai il cuore in pace e s’arrabbia quando chi vive sulla terraferma non porta rispetto a chi vive sott’acqua. Ricordo quando gli feci conoscere un altro mio amico, un professore che lavora all’istituto Idrobiologico di Pallanza e quest’ultimo gli raccontò che un tempo il lago Maggiore arrivava fino a Bellinzona e che bisognava preservarlo dall’inquinamento. Non ebbe esitazioni: lo abbracciò commosso. Aveva trovato un nuovo amico. Anzi, un altro amico di quel lago che era casa sua. E quella sì che  era una cosa importante, da festeggiare con un mezzo litro di rosso all’osteria dei Gabbiani.

Marco Travaglini

La giusta severità della maestra Pedrelli

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Quando mi hanno detto che la maestra Pedrelli è andata via dal paese ho provato una grande tristezza. Ora sta nel ricovero per anziani, tra le colline. Non che la notizia sia giunta inaspettata: dopotutto, pur essendo arrivata quasi a novant’anni ancora lucida, aveva da tempo dei problemi alle gambe che le impedivano di far da sola.

Andrò a trovarla, la mia maestra. Lo farò perché ogni volta che passo davanti al vecchio edificio delle scuole elementari il pensiero corre a lei, rigorosa ed esigente, sempre vestita con abiti quasi monacali e dotata di una incrollabile fede nel fatto che ci avrebbe, volenti o nolenti, insegnato a leggere, scrivere e far di conto. Era severa, la Pedrelli, ma giusta. Una sola volta perse del tutto la pazienza, quando prese Riccardo per le orecchie , gridandogli “esci dal banco“, tirandolo energicamente. Ricordo la scena: quello resisteva, avvinghiandosi al doppio banco come un polipo. Era uno di quei banchi di una volta, a due posti, con i buchi per infilarci il calamaio. Era pesante, pesantissimo. La maestra, rossa in volto, lo tirava per le orecchie. Riccardo, a denti stretti, con le labbra bianche per il dolore e le orecchie ormai violacee, non mollava la presa. Toccò alla Pedrelli gettare la spugna e chiamare a gran voce il bidello perché accompagnasse il mio compagno di classe al giusto castigo, dietro alla nera lavagna d’ardesia. Se avesse insistito ancora un po’, le orecchie di Riccardo le sarebbero rimaste in mano. E, nonostante le avesse infilato un rospo ripugnante nella borsetta, non meritava il distacco dei padiglioni auricolari. Per quanto mi riguarda, a scuola mangiavo le matite. Rosicchiavo il rivestimento di legno  fino alla mina e a vlte rimaneva l’ombra della grafite sulle  labbra. Mi rimproverava ma quel vizio era più forte di me. Una perdizione.  C’è voluto del tempo per  farmelo passare anche se alle matite sostituii le unghie delle mani. Le povere unghie , indifese, diventarono il bersaglio contro il quale mi scagliavo quando dentro di me si agitavano paure, disagi e insoddisfazioni. Sarà pure un brutto vizio ma, credetemi, faceva meno male che mangiarsi le matite. Per raggiungere la scuola di strada non dovevo farne tanta. Dalla casa di ringhiera al centro della frazione c’era, più o meno, un chilometro. Scendevo fino al “triangolo”, un prato cintato da un muretto basso che formava quella forma geometrica, dividendo  in due la strada. A destra il lungo il viale alberato che portava al crocevia, al Circolo Operaio e alla vecchia passerella sul Selvaspessa. A sinistra si finiva dritti nel “cuore” del paese. La cartella, a quei tempi, non pesava come quelle dei ragazzini di oggi che viaggiano piegati in due sotto il peso degli zaini affardellati. Avevo avuto la fortuna di ereditarne, da uno zio, una di pelle. Era consumata ( oggi si direbbe “vissuta”)  ma faceva ancora egregiamente la sua parte ospitando la coppia di quaderni a righe e a quadretti, il sussidiario, la cannuccia e i pennini, la matita e la gomma bicolore. Fino all’avvento della cinghia d’elastico, sono andato avanti così, sfruttandone la comodità. Ovviamente avevo il mio bel grembiule blu con un gran fiocco bianco che, immancabilmente, scioglievo senza riuscire a rifarlo: tant’è che la maestra incaricava Laura – più grandicella di un anno –  a rifarmi la galla. Lei, a dire il vero, sembrava ben contenta di quest’incombenza e io la lasciavo fare,  ringraziandola a denti stretti, più per timidezza che per imbarazzo. A quell’epoca, con i capelli tagliati corti e con la riga di lato, mi pareva di mettere in evidenza un orecchio a sventola. Uno solo, il sinistro che, pur essendo appena pronunciato – a causa  della postura a cui ero stato costretto quando avevo pochi mesi di vita, causa una lunga degenza ospedaliera per una brutta gastroenterite – mi pareva un orribile difetto al punto da paragonarmi al brutto anatroccolo. Così cercavo di pareggiare i miei limiti studiando a testa bassa. Quando suonava la campanella, entrava in classe l’insegnante. Tutti in piedi, di scatto, cantilenando un “Buongiorno, signora maestra” accompagnato dall’immancabile preghiera del mattino. Mi annoiavo alle prime prove di scrittura, sotto dettato: pagine di aste e dirampini per imparare a fare il punto interrogativo, seguite a ruota dai cerchi tondi delle “o” a cui s’aggiungeva una timida gambetta in basso a destra per trasformarle in “q di quaderno“. M’annoiavo perché sapevo già leggere e scrivere grazie alla Tv, al maestro Alberto Manzi e alla sua trasmissione “Non è mai troppo tardi“. Realizzate allo scopo di insegnare a leggere e a scrivere agli italiani che avevano superato l’età scolare per contrastare l’analfabetismo, le trasmissioni del maestro Manzi ( che accompagnava le sue parole con degli  schizzi a carboncino su una lavagna a grandi fogli bianchi ) erano di una  semplicità disarmante e anch’io, a poco più di cinque anni, avevo imparato a tenere in mano la penna e ad usare le lettere dell’alfabeto per formare le parole. Sono stati anni felici quelli passati a scuola con la maestra Pedrelli. Ne conservo un buon ricordo, forse annebbiato e ammorbidito dal tempo, ma credo che siano stati davvero così. Del resto, l’età dei bambini è quella per cui si prova la maggior nostalgia e anche i doveri erano tollerati. Ricordo i giochi durante l’intervallo quando – vocianti – invadevamo come delle cavallette il giardino spelacchiato della scuola, dove allo scalpiccio delle nostre scarpe resistevano solo rari e tenaci ciuffi d’erba. Ricordo la pazienza di Giulio Stracchini, operaio del comune addetto alla caldaia che durante inverno alimentava con ciocchi di legno e pezzi di carbone. I più disperati gli nascondevano il berretto per scherzo ma lui non se la prendeva mai: faceva finta di minacciarli, agitando la mano aperta, ridendo con bonomia sotto quei suoi baffoni grigi. E i bidelli? La signora Lia e il signor Gianni: quanta pazienza anche loro. Dovevano pulire le aule, ramazzare i corridoi e sovrintendere al buon funzionamento della scuola. Oggi non ci sono più  ma sono certo che, per aver dovuto sopportare generazioni di ragazzini, si saranno certamente guadagnati un posto tranquillo nel paradiso dei bidelli, dove si può lavorare a maglia o leggere il giornale senza che nessuno dia loro il benché minimo grattacapo. I ricordi me li ravvivano alcuni dei compagni di scuola di allora con i quali, talvolta, ci si incontra per strada. E poi c’è la maestra Pedrelli. Uno di questi giorni andrò a trovarla alla casa di riposo. Sono pronto a scommettere che, dopo avermi salutato, il suo sguardo si poserà sulle mie mani e mi dirà, con tono critico: “Ma come? Ti mangi ancora le unghie, alla tua età?”.

Marco Travaglini

Torino, 1872: quando la statua di Balbo traslocò

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / I lavori per il ricongiungimento della città storica con il Borgo Nuovo, stravolsero completamente l’area implicando la demolizione dello spalto al quale si appoggiava il giardino. Durante questa fase il monumento a Cesare Balbo subì uno spostamento provvisorio, per poi essere riposizionato, nei primi mesi del 1874, nella nuova Aiuola Balbo

Cari amici lettori e lettrici, eccoci nuovamente pronti per un’altra piacevole (si spera) ed interessante passeggiata per le vie della città alla scoperta delle sue affascinanti opere. Questa settimana vorrei parlarvi di un noto personaggio storico nato nel capoluogo piemontese e divenuto un personaggio di rilevante importanza per la città di Torino; sto parlando di Cesare Balbo e del monumento a lui dedicato. (Essepiesse)

La statua è situata in via Accademia Albertina sull’asse centrale dell’Aiuola Balbo, ai margini della vasca d’acqua centrale. Cesare Balbo è ritratto in posizione seduta, vestito in abiti borghesi con un ampio mantello sulle spalle; con la mano destra stringe gli occhiali, mentre sul ginocchio sinistro tiene aperto con la mano il libro “Le speranze d’Italia”, libro da lui scritto, pubblicato nel 1844 a Parigi e dedicato all’ideale politico dell’unificazione italiana.

 

Cesare Balbo nacque a Torino il 21 novembre del 1789 da Prospero Balbo già sindaco di Torino e ambasciatore di Parigi ed Enrichetta Taparelli D’Azeglio, fu un uomo politico, scrittore e Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna. Cesare Balbo maturò culturalmente in varie città europee a causa della continua peregrinazione che il padre dovette subire nei difficili anni del regno di Vittorio Amedeo III di Savoia; fu così che venne a contatto con le nuove teorie illuministiche che, in quegli anni, stavano prendendo sempre più piede nei maggiori centri culturali europei.

Fu propugnatore dell’indipendenza d’Italia dal dominio austriaco ed uno dei più importanti esponenti della cultura liberale piemontese. Nel 1848, dopo la concessione dello Statuto Albertino, divenne presidente del primo Ministero costituzionale piemontese e fu deputato del Parlamento Subalpino fino alla sua scomparsa. Immediatamente dopo la sua morte, avvenuta a Torino il 3 giugno 1853, alcuni cittadini torinesi decisero di erigergli una statua alla memoria. Venne istituito il “Comitato per l’erezione di un monumento a Cesare Balbo” presieduto da Cesare Alfieri di Sostegno e del quale facevano parte Giuseppe Arconati, Ottavio di Revel, Federico Scoplis e Luigi Torelli.

Apertasi una pubblica sottoscrizione, in pochi mesi la cifra raggiunta superò le 10.000 lire delle quali circa la metà fu costituita da oblazioni private, mentre la restante parte venne donata da enti pubblici. Per ciò che riguardava invece il concorso del Municipio di Torino, si fu inizialmente orientati su due ipotesi diverse: rendere disponibile un’area all’interno del Camposanto generale oppure, nel caso il Comitato avesse voluto erigerlo in sito pubblico, concorrere economicamente alla sua realizzazione. Essendo scelta la seconda opzione, il Municipio decise di stanziare la somma di 3.000 lire, alla quale si aggiunsero i contributi dei Municipi di Pinerolo, Susa e della Provincia di Torino (1.000 lire), raggiungendo così la cifra di 10.554 lire.

Della realizzazione dell’opera venne incaricato Vincenzo Vela (lo stesso autore dell’opera già vista da noi “Alfiere dell’ Esercito Sardo”), da pochi mesi professore di scultura dell’Accademia Albertina di Torino. Vela scelse di rappresentare Cesare Balbo in una posa “naturale”, in un atteggiamento anche posturale, che ricordasse la sua vita, il suo lavoro ed anche il suo impegno di letterato e di scrittore. Per la realizzazione del monumento vennero versate a Vela circa £ 10.000, mentre le rimanenti 554 lire furono spese per la realizzazione di una cancellata di protezione.

Nei primi mesi del 1856, Cesare Alfieri propose al Sindaco Notta di posizionare l’opera nel Giardino dei Ripari, tra il nascente Borgo Nuovo e la città storica; il 5 giugno 1856 il Consiglio Comunale, venendo incontro a questa richiesta, diede il suo consenso alla collocazione della statua in cima al declivio che dalla via della Madonna degli Angeli conduce al Giardino. Il monumento a Cesare Balbo venne inaugurato l’8 luglio del 1856 ed in questa occasione venne donato al Municipio che lo accettò ufficialmente nella seduta del Consiglio Comunale del 15 novembre 1856.

In seguito però, nel 1872 delle nuove politiche condussero alla riconfigurazione dell’area occupata dal Giardino dei Ripari; i pesanti lavori per il ricongiungimento della città storica con il Borgo Nuovo, stravolsero completamente l’area implicando la demolizione dello spalto al quale si appoggiava il giardino. Durante questa fase il monumento a Cesare Balbo subì uno spostamento provvisorio, per poi essere riposizionato, nei primi mesi del 1874, nella nuova Aiuola Balbo dove ancora oggi si può ammirare. Purtroppo, durante la seconda guerra mondiale l’opera venne danneggiata durante i bombardamenti.

 

Visto che abbiamo accennato alla realizzazione della “nuova” Aiuola Balbo, ricordiamo che essa è un giardino d’origine tardo ottocentesca; è caratterizzata dall’essere realizzata su terrapieno e quindi delimitata da un perimetro murario che la isola, sollevandola, dalle strade che la circondano. Di forma rettangolare, ha come fulcro una importante fontana centrale ed è piantumata con alberi disposti in modo naturale lungo tutto il perimetro.

Il disegno definitivo dell’Aiuola Balbo venne realizzato nel 1873 dall’ingegnere capo Pecco, che progettò un giardino totalmente verde, sollevato di circa un metro e mezzo al di sopra del piano stradale. I monumenti a Cesare Balbo, Eusebio Bava e Daniele Manin vennero ricollocati in modo simmetrico e armonico nell’Aiuola Balbo, nel centro del giardino sul suo asse longitudinale; l’ inserimento dell’ importante fontana centrale vennedeciso solo più tardi, nel febbraio 1874. L’Aiuola Balbo, inaugurata il 19 settembre 1874, oggi ospita complessivamente sei monumenti che la caratterizzano come un giardino dedicato ai patrioti attivi nei moti per l’indipendenza degli stati europei.

Simona Pili Stella

Foto  G i a n n i  C a n e d d u

Torino e le sue donne: Carol Rama

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Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Con la locuzione sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nellespressione sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto sesso forte, uno stereotipo che ne ha sancito lesclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna Darco, Elisabetta I dInghilterra, Emmeline Pankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nellelenco anche Coco Chanel, lorfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel sesso debole” che non si è addomesticato, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan. 
Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario letimologia della parola donnadomna, forma sincopata dal latino domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.  (ac)

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5 Carol Rama
Torino è anche arte. Molte sono le Gallerie, le Fondazioni e i Musei che promuovono larte in tutte le sue sfaccettature, dalla scultura allarte figurativa fino al cinema, sia che si tratti di arte classica, medievale, o contemporanea.  La storia di oggi è una storia darte, che ha per protagonista una delle donne che larte lha creata, lha vissuta e allarte si è completamente dedicata.  Carol Rama nasce a Torino nel 1918, inizia a dipingere ancora adolescente, senza alcuna formazione accademica ma sostenuta nella sua passione da alcuni incontri fondamentali, primo fra tutti Felice Casorati. Molti sono gli amici intellettuali da cui trae informazioni, conoscenze e stimoli: Edoardo Sanguineti, Massimo Mila, Albino Galvano, Carlo Mollino, Paolo Fossati, Carlo Monzino, Luciano Berio, Eugenio Montale e ancora Luciano Anselmino, grazie al quale entra in contatto con Andy Warhol e Man Ray. Della pittura fa una pratica ininterrotta, è il filtro attraverso cui elabora oggetti, situazioni, persone della quotidianità per convertirli in qualcosa di artistico. Carol è sempre aggiornata sulle varie tendenze darte, ma mantiene grande autonomia di lavoro, sviluppando nel corso del ventesimo secolo un percorso tutto personale, attraverso luso di materiali, temi e stili diversi. Negli acquerelli degli anni Trenta e Quaranta, la rudezza e la scabrosità dei soggetti è decantata nelleleganza compositiva del quadro. Si tratta di lavori eseguiti a cavallo dei suoi ventanni, con noncuranza verso i ben pensanti e le mode artistiche del momento, produzioni che denotano grande maturità tecnica e di ideazione. Negli anni che precedono lo scoppio della guerra, lartista si accosta anche alla pittura a olio, con dense paste di colore e soggetti spesso non tradizionali. La sperimentazione continua: agli stessi anni Quaranta risale linteresse per lincisione che si concretizzerà nella splendida serie delle Parche, (linteresse per tale tecnica rispunta verso la fine degli anni Novanta). Dopo una esperienza astrattista negli anni Cinquanta allinterno del gruppo torinese del MAC (Movimento Arte Concreta), Carol attua negli anni Sessanta una svolta decisiva: su macchie di colore di derivazione informale applica oggetti duso quali strumenti medicali, trucioli metallici, occhi di bambola. Loggetto 
è inserito con tutta la sua fisicità nel dipinto, diventa colore e forma del quadro, pur rimanendo cosa. Negli anni Settanta, sostenuta da colui che sarà il suo gallerista per i decenni successivi, Giancarlo Salzano, un nuovo materiale entra a far parte della sua composizione pittorica, si tratta di camere daria segnate dalluso e di guarnizioni in gomma, utilizzate in sostituzione del colore e incollate su tele monocrome. Questi lavori conservano tutta lincisività dellessere materia (gomma come pelle e carne) e sono un rimando allattività aziendale del padre (specie luso della gomma richiama il lavoro paterno). Nel 1979 Carol espone per la prima volta alla Galleria Martano di Torino gli acquerelli realizzati una quarantina di anni prima, poi scelti lanno seguente da Lea Vergine per la mostra itinerante sulle grandi artiste del Novecento, Laltra metà dellavanguardia. A partire dagli anni Ottanta, lartista ritorna alla figurazione e realizza mirabili quadri in cui dipinge figure e animali fantastici su carte prestampate. La conoscenza internazionale di Carol è dovuta alle mostre pubbliche, come la sala personale alla quarantacinquesima Biennale di Venezia nel 1993, a cura di Achille Bonito Oliva, allestita dallamico Corrado Levi, e lantologica allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1998, a cura di Maria Cristina Mundici. Il grande riconoscimento pubblico sul suolo Italiano le arriva nel 2003, quando le viene conferito il Leone doro alla carriera in occasione della cinquantesima Biennale di Venezia. Nel 2004 anche la sua città natale le dedica una ampia antologica presso la Fondazione Sandretto-Rebaudengo a cura di Guido Curto. Nel gennaio 2010, rappresentata da Corrado Levi, riceve il prestigioso Premio Presidente della Repubblica” da Giorgio Napolitano. Nel 2014 inaugura al Museo dArte Contemporanea (MACBA)  di Barcellona una importante mostra monografica a cura di Teresa Grandas, Beatriz Preciado e Anne Dressen, poi allestita anche a Torino nell’ ottobre 2016 alla GAM. Il consenso internazionale è ulteriormente consolidato nel 2017 dallampia personale tenutasi al New Museum di New York. Il suo ultimo lavoro conosciuto è del 2007 e chiude una intensa carriera durata oltre settantanni. Muore nella sua casa-studio torinese, il 24 settembre 2015.

 

Alessia Cagnotto

La premiata ditta della Rosa Scarlatta

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La signora Amelia era davvero una gran signora. Nonostante la non più giovane età era sempre, quotidianamente, in piena attività. Il portamento aveva un tratto che poteva definirsi persino nobile, se non fosse per il trucco troppo accentuato.

Non ho mai capito perché non fosse considerata per la grande disponibilità che, in tanti decenni, aveva dimostrato nel risolvere i problemi altrui. Specialmente, se non addirittura in via esclusiva, quelli di tanti uomini d’ogni età ed estrazione sociale. Forse perché svolgeva il mestiere più antico del mondo? C’era, nel non considerarne fino in fondo la delicata funzione che – senza false ipocrisie e dubbi moralismi – le avrebbe fatto meritare se non un attestato di benemerenza almeno una più generica riconoscenza, qualcosa di profondamente immorale. Sì, immorale. Come non tener conto che la signora Amelia, in arte  “Rosa Scarlatta“, aveva svolto in condizioni non propriamente agevoli e spesso senza entusiasmo, una funzione – per così dire – “sociale” a beneficio di buona parte della comunità di sesso maschile non solo bavenese ma anche stresiana e di chissà quanti altri comuni che si affacciano sulle rive del Verbano. Dopo una fase d’avvio della propria impresa, sotto “padrona”,  in una di quelle case che non andavano nominate per non inciampare nella già citata “morale”, appena superati i venticinque anni, si mise in proprio. Sì, perché la “premiata ditta della Rosa Scarlatta”, alla prova di quello che potremmo definire come “il mercato”, dimostrò competenza, professionalità e spirito d’iniziativa. Con una sorprendente dose di “savoir-faire” che, nel breve volgere di qualche anno, le fece guadagnare rispetto e simpatia.

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Ovviamente, non da parte di tutti. Le signore, anch’esse senza distinzione d’età, la guardavano in malo modo, commentando con parole poco garbate e lusinghiere le sue “gesta” e commiserando energicamente  quella sua “professione” che – detta da loro – “turbava la quiete delle famiglie e portava discredito all’intera comunità”.Non ho mai fatto caso al fatto che potessero avere torto o ragione. Forse, a ben guardare, ci stavano sia l’una che l’altra. Certo è che la signora Amelia non prestava molto orecchio alle chiacchiere, meno che meno a quelle più malevole. “Io professo e tiro dritto. Non rompo le scatole e pago le tasse. Dopotutto sono i loro uomini che mi cercano. Se non volessero basterebbe, quando gli chiedo se sono d’accordo a darmi una mano a tener aperta l’impresa, dire di no. Non li obbligo certo io a fermarsi, lungo la strada che, a volte, è persino accaduto qualche tamponamento. Una volta, tra due bei tipi, son volate persino parole grosse e qualche sberlone, per stabilire a chi toccava per primo a far la propria parte“. Eppure, come mi raccontava il Carlino di Loita, la “nostra” Amelia aveva dato fatto fare il salto tra l’adolescenza e l’età adulta ad un bel po’ di ragazzi, accompagnandoli alla scoperta di se stessi durante la loro pubertà. “ Tu, che sei ragioniere e hai studiato, dai, dimmelo un po’ tu: ti par possibile che, per aver fatto del bene, in anni in cui c’era ancora tanta ignoranza e tanto pregiudizio, si debba essere considerati come dei delinquenti, come dei poco di buono?“. Il Carlino, a differenza di me e di tanti altri, faceva parte della schiera di quelli che avevano “provato” a fare i conti con l’impresa della Rosa Scarlatta e si erano dichiarati soddisfatti. Non sopportava l’ipocrisia dei benpensanti. Gli faceva saltare la mosca al naso. “Roba da matt. In sempar lì a criticà a destra e sinistra, a cùra in gesa a confessare i peccati per poi, lasciato alle spalle il portone e svoltato l’angolo, a fare di nuovi”. E sgranava giù, come un rosario, i tanti peccati che le “signore-bene”, come le chiamava lui, erano d’uso commettere: accidia, avarizia, invidia, superbia,ira. La lussuria, invece, era – secondo lui – praticata dai loro compagni benché a loro stesse suscitasse ( senza dirlo, senza ammetterlo, per carità..) ben più che un vago interesse e ben più che un semplice desiderio. In materia, però, nessuna poteva battere l’offerta della “premiata ditta” individuale che faceva capo alla signora Amelia.

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Vera e propria artigiana del piacere, con una carriera ultra decennale sulle spalle, non temeva la concorrenza di quelle povere dilettanti. Così andò avanti e indietro, per un bel po’ d’anni, sulla litoranea del lago Maggiore. Sempre in ghingheri, sempre a testa alta, mostrando fieramente la sua “impresa” anche se il tempo l’aveva ormai irrimediabilmente consumata. Finché , da un giorno con l’altro, non si vide più. Come dire? Sparita. Volatilizzata. Puff..! Più o meno come la colomba nelle mani di un prestigiatore. Solo dopo un annetto si seppe che si era “ritirata” in una casa di riposo sulle rive del lago d’Orta. L’andirivieni l’aveva logorata e le gambe gli cedevano. Così, per non farsi commiserare del tutto e lasciare un buon ricordo di sé, se n’era andata senza neanche fare un “ciao” ai suoi vecchi amici, ai “clienti” più fidati che erano anch’essi cresciuti ed invecchiati con lei. Il Giustino propose addirittura a quel deputato che aveva potuto godere in gioventù, pure lui, dell’attività della “premiata ditta”, un intervento affinché fosse riconosciuto alla signora Amelia se non proprio la pensione almeno un piccolo vitalizio, come segno tangibile della riconoscenza nei confronti di una persona che aveva fatto molto nel campo del “sociale”. Dopotutto, diceva il Giustino, “l’Amelia di marchette ne ha messe insieme un bel po’ che bastano ed avanzano per la pensione“. Forse in altri paesi, dove la mentalità è più aperta e tollerante, la “premiata ditta” della signora Amelia sarebbe stata riconosciuta alla stregua di un servizio sociale e le prestazioni sarebbero state, con ogni probabilità, prescritte dal servizio sanitario e quindi mutuabili. Ma, per sua sfortuna, e per disappunto dei più tra i suoi “beneficiati”, questo non si rese possibile. E così non se ne fece un bel nulla. L’onorevole allargò le braccia e chiese, in relazione al suo passato, l’omissis o – quantomeno – una corretta applicazione della privacy. Le ormai vecchie iraconde, rinsecchite e acide, continuarono a pensare il peggio del peggio e, in fondo al cuor loro, a provare invidia per quella “impresaria” che si era fatta dal niente, utilizzando al meglio le doti naturali che aveva avuto in dono dalla nascita. I suoi clienti rimasero con i loro ricordi e con il rimpianto, forse, di non aver potuto approfittare più quanto non avessero fatto delle offerte di quella gran professionista del piacere altrui. Che dirvi, ancora?  La signora Amelia se n’è andata per sempre. E’ ormai da un paio d’anni che, come è d’uso dire, “ha lasciato questa valle di lacrime“. Probabilmente, essendo – a dispetto di chi la mal giudicava – credente e praticante, è salita direttamente in paradiso. Ci sarà pure un angolino anche per chi, come lei, ha operato tutta la vita per far felici gli altri rinunciando, almeno in parte, alla felicità propria. O no?

Marco Travaglini

Fumetti cult: 1952, nasce Tiramolla

Erano anni, quelli, in cui in Italia nasceva e prosperava un’originale linea di fumetti comici. Ne facevano parte, a buon diritto, fra i tanti, tre personaggi che raggiunsero una grande popolarità: Cucciolo, Beppe e Tiramolla. Il loro creatore grafico è stato Giorgio Rebuffi

Gli anni Cinquanta, oltre ad essere il periodo in cui la Rai iniziò le trasmissioni televisive in bianco e nero, s’avviava la corsa allo spazio e l’Olivetti realizzava la mitica “Lettera 22”, sono stati anche anni formidabili per il fumetto italiano. Le tirature diventarono importanti per una rinata industria del fumetto che portava sul mercato una concorrenza “made in Italy” ai classici d’oltreoceano targati Usa.

Tex, Pecos Bill, Kinowa, Capitan Miki, il Grande Blek, il Piccolo Ranger e le loro epopee avventurose, in primo luogo, ma non solo. Erano anni, quelli, in cui in Italia nasceva e prosperava un’originale linea di fumetti comici. Ne facevano parte, a buon diritto, fra i tanti, tre personaggi che raggiunsero una grande popolarità: Cucciolo, Beppe e Tiramolla. Il loro creatore grafico è stato Giorgio Rebuffi, prolifico inventore di protagonisti e comprimari del fumetto comico italiano.

Nato a Milano nel 1928, Rebuffi ( che è morto nell’ottobre scorso, ad 86 anni) iniziò la sua attività di professionista del fumetto nel 1949, creando lo Sceriffo Fox ( un corvo nero, con tanto di pistole e stella) per le edizioni Alpe: le stesse che porteranno al successo Cucciolo e Beppe che, di lì a poco, saranno affidati proprio alle cure di Rebuffi per un decisivo “restyling”. I due, infatti, avevano fatto il loro esordio nel 1941, disegnati da Rino Anzi. Quelli che in origine erano due cagnolini antropomorfi, sotto la penna e i pennini di Rebuffi, si trasformeranno in una coppia (uno alto e smilzo, l’altro basso grassottello) che farà il verso un po’ a Topolino e Pippo (anche qui il piccoletto è scaltro e l’allampanato è un po’ svampito) e anche ad analoghe coppie comiche del cinema, come Gianni e Pinotto e Stanlio ed Ollio. Nell’agosto del 1952 compare per la prima volta al pubblico dei bambini e ragazzi italiani, a pagina 12 del numero 8 di Cucciolo mensile, un nuovo protagonista dei fumetti: si chiama Tiramolla. L’episodio in questione è il primo di una storia lunga che si concluderà con la quarta puntata nel n. 11 (novembre 1952).

Dieci anni dopo, i quattro episodi verranno unificati e ristampati con il titolo “Il mistero della villa” (Le storie di Tiramolla – anno II n. 18, 23 agosto 1962). La penna che lo tratteggia è quella dell’eclettico Rebuffi e Tiramolla (ideato da Roberto Renzi), elastico personaggio di caucciù con il cilindro in testa, aristocratico e pigro ma, suo malgrado, coinvolto in guai ed avventure andrà a formare il trio con Cucciolo e Beppe. I tre, assieme ad una serie di straordinari comprimari (il malvagio Bombarda, il menagramo Giona,il maggiordomo Saetta,il cane Ullaò, il nipotino Caucciù e, soprattutto, Pugacioff, il perennemente affamato e sovversivo “luposki della steppaff”), segneranno in modo indelebile il fumetto comico di quegli anni. Un fumetto fatto di storie semplici e un po’ ingenue, ricche di invenzioni e di gag, storie che hanno accompagnato i lunghi e spensierati pomeriggi di tanti di noi quando eravamo bambini e ragazzi.

 

Marco Travaglini

Conegrina e “il Carabiniere”, inflessibili guardapesca

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Conegrina, al secolo Aquilino Bonello, messa alle spalle una vita da ambulante, si è riciclato come guardapesca, ereditando la mansione che, per più di trent’anni, è stata il pane quotidiano di Alighiero Dentoni. Il passaggio delle consegne è avvenuto da poco, quasi per caso.

Una sera che i due si erano trovati a condividere un mezzino di rosso all’osteria dell’Onda la cosa è venuta fuori con naturalezza. Alighiero Dentoni , era noto ai più come “il Carabiniere”, poiché da giovane aveva indossato la divisa dell’Arma. Quasi nessuno lo chiama per nome e cognome. Non per cattiveria o noncuranza, e nemmeno con l’intenzione di ignorare l’anagrafe; è solo che, con il tempo, il soprannome ha spodestato il cognome, sostituendolo nella vita di tutti i giorni, lasciandogli solo il compito di rappresentarlo nei documenti ufficiali. Comunque, “il Carabiniere”, in procinto di raggiungere il traguardo della pensione come dipendente della Provincia, stava da tempo lambiccandosi su chi potesse prendere il suo posto. Arcigno,inflessibile,incorruttibile e poco incline alle smancerie si era guadagnato il rispetto di tanti ma la simpatia di pochi. Conegrina era tra i rari amici con cui da anni, alla sera, scambiava due parole all’osteria, bevendo insieme o giocando alle carte. Quest’ultimo, dai paesi ai piedi dei monti fino in pianura, godeva di una certa notorietà. Per anni aveva battuto in lungo e in largo il territorio con il suo scassatissimo autocarro proponendo nei mercati e sulle “pubbliche piazze” i suoi prodotti. Nel suo campionario aveva un po’ di tutto: aghi, ditali, filo per cucire, soda, lisciva, candeggina, sapone, mollette per stendere la biancheria, spazzole per lavare i pavimenti, pettini e tante altre utili cose. Il suo grido di battaglia era arcinoto: “Forza, forza  donn! Conegrina e savon! “.

 

A volte risuonava anche un possente “Donne, oggi il tempo volge al bello, è arrivato in piazza l’Aquilino Bonello”. Gli affari andavano a gonfie vele. Praticava dei prezzi onesti e non faceva storie quando, di fronte a un acquisto importante, gli veniva richiesta una dilazione nei pagamenti. Spesso accettava, dimostrando di gradirlo più del denaro, una sorta di baratto: io do una cosa a te e tu ne dai un’altra a me. Molte sue clienti intravedevano così una specie di doppio vantaggio: si liberavano di cose inutili ottenendo in cambio oggetti che potevano servire. Nessuno può dire con certezza le ragioni dell’amicizia tra i due ma era plausibile che fosse proprio il buon Conegrina ad aver attaccato bottone all’anziano guardapesca, scalfendone la riottosità fino a conquistarsi l’amicizia. Comunque fossero andate le cose è certo che Alighiero Dentoni raccomandò con insistenza l’ambulante all’assessore provinciale Fernando Chiurlazzi, titolare della delega alla pesca. Quest’ultimo, potendo decidere come procedere alla sua sostituzione, optò per l’atto diretto di nomina, raccomandando al Dentoni un adeguato periodo di affiancamento.Mi raccomando,eh? Non perdiamo tempo con tutte quelle balle della burocrazia ma, attenzione: non voglio guai. Quello lì che mi hai segnalato dev’essere all’altezza e ne rispondi tu di persona se succede qualcosa,intesi?”. Il “Carabiniere”, borbottò delle rassicurazioni: “ Stia tranquillo, assessore. Garantisco io”. Il Chiurlazzi, di fronte ad una frase del genere si tranquillizzò, rammentandosi che veniva spesso pronunciata anche dal suo grande maestro del quale teneva in ufficio, appeso al muro, una gigantografia con il petto sporgente, copia uguale e sputata del ritratto che teneva sulla scrivania suo padre che, negli anni trenta, era stato il podestà del paese. Nel frattempo,espletate le pratiche e venduta a buon prezzo la licenza mercatale che , considerata l’entità del giro d’affari e di clientela, faceva gola a molti, per Aquilino Bonello iniziò una nuova vita. L’affiancamento dimostrò quello che già s’intuiva: l’incredibile affiatamento tra i due che andavano non solo d’amore e d’accordo ma si comportavano come se l’uno fosse l’esatta copia dell’altro. Regolamento alla mano, sembrano le controfigure di Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi, i due famosissimi arbitri svizzeri di Giochi senza Frontiere. Mancava solo il celebre conto alla rovescia ( “Attention… Trois, Deux, Un… Fiiit!“) ma il doppio fischio finale, quello sì che c’era. Eccome se c’era: uguale, tremendo, inconfondibile. Due  acuti, perforanti sibili. Come ignorarli? Non si poteva far finta di niente. Quei suoni intimidatori, all’unisono e in perfetta sincronia, segnalano l’infrazione. Oppure, nel migliore dei casi, l’ammonimento. Entrambi in divisa, si comportano da veri e propri “sceriffi d’acqua dolce”. Conegrina, che è sempre stato uno sveglio, il regolamento se l’é studiato a memoria. Niente carte e foglietti ( che se vanno in acqua si rovinano) ma tutto in testa, ben impresso nella zucca ormai priva di capelli. Non sfuggiva nessun particolare, ai due. Nessun dubbio o incertezza su quali attrezzi fossero consentiti e quali altri proibiti; una precisione invidiabile per i periodi e le situazioni in cui si potevano usare gli attrezzi a inganno, come il bertovello o la nassa . La lenza da fondo, la “lignola”? “Al massimo con 30 ami e mai e poi mai dal 25 aprile al 31 maggio”.

 

Il lato delle maglie della rete interna di un tremaglio? “Non inferiore a trenta millimetri”. E la  sciabica, quella che un tempo veniva  chiamata  la  “persichéra”, una rete con una sacca particolarmente allungata, utilizzata per la pesca del pesce persico? “ Guai a metterla in acqua, ora come ora”. Si aveva quasi il sospetto, e a pensar male si fa peccatomi si indovina, che si divertissero a comportarsi da carogne. Al Dentoni, pur incassando già l’assegno della pensione, non passava nemmeno dall’anticamera del cervello l’idea di mollare. Si era riciclato come guardapesca volontario. Giorni addietro sono stati visti all’opera, con uno sprovveduto pescatore della domenica che aveva chiesto ad entrambi delle informazioni. Sono partiti a raffica: “ Deve sapere che la pesca è consentita a partire da un’ora prima del levar del sole sino ad un’ora dopo il tramonto, da queste parti. Dovesse recarsi invece sul lago Maggiore è tutta un’altra storia perché là valgono le disposizioni della convenzione Italo-Elvetica. Le raccomandiamo i divieti; stia molto attento perché qui non si può sgarrare”. Il malcapitato si è sorbito l’intero calendario di pesca.”Dal 25 aprile al 31 maggio, niente persici. Per la trota di lago , da metà ottobre alla fine di gennaio. Luccio da metà febbraio a metà marzo. Niente carpe, cavedani, tinche per tutto giugno. La pesca all’anguilla è consentita anche nelle ore notturne, ma solo sul Maggiore. Qui da noi, stia tranquillo, non ne prenderà nemmeno una”. Il sorrisetto sornione di Aquilino tradisce una punta, tutt’altro che impercettibile, di cinico sarcasmo. E via con le misure minime delle specie pescabili: dai 18 centimetri del persico ai 30 del luccio. Aggiornatissimi, non si fanno sfuggire le novità. Un esempio? Eccolo: “ La misura minima per la pesca della trota? Modificata da cm. 22 a cm 30. Con esclusione della trota mormorata,  la cui lunghezza minima è confermata in cm. 35 e della trota iridea,  la cui cattura è disciplinata a parte. Entrata in vigore, seppure in via sperimentale? Dall’alba dell’ultima domenica di febbraio”. Annichilito e esausto, il tipo ha ringraziato e, fatto dietrofront, ha riposto la canna da pesca nel baule dell’auto e se n’è andato. Forse, agli “sceriffi”, bisogna che qualcuno gli dica di non esagerare. Ammesso che si trovi qualcuno che abbia tanto coraggio e che, in ogni caso, non sia pescatore, evitando ritorsioni.

Marco Travaglini

Sua maestà il maiale

Del maiale (ma non solo) e di ciò che, suo malgrado, ci regala…

Al dì dal porc”, il giorno del maiale, cadeva tra novembre e febbraio, tra i Santi e Carnevale e rappresentava  un giorno di gran festa per la famiglia contadina. Quello era il periodo canonico dell’uccisione e della pressoché immediata concia delle carni del maiale

Un tempo che si snodava dal 30 novembre, Sant’Andrea fino  – ma non sempre venivano rispettati gli andamenti stagionali – al 17 gennaio, Sant’Antonio Abate, protettore sacro degli animali domestici, della stalla e del cortile.


Un santo considerato, in particolare, protettore del maiale tanto da essere raffigurato nell’ iconografia popolare con accanto un maialino, fissando il “santino” sulla porta del porcile. Anche la fase lunare aveva la sua importanza nel rito della macellazione del maiale (fase di luna calante e luna nuova). Quel giorno non si poteva fare né il pane né la pasta, per timore che la carne potesse lievitare e deperire in breve tempo. Quando il norcino gli affondava il coltello nelle rosee carni si era certi che dell’animale nulla fosse buttato via: testa, orecchie, lingua, gola, lardo, coppa e lonza, spalla e zampino, pancetta e filetto, culatello, coscia e cotiche. Sì, perché del maiale si utilizza tutto. E avere il “maiale da ingrassare”, nella civiltà contadina, prima e dopo l’epoca degli “alberi degli zoccoli” ( descritta in modo straordinario da Ermanno Olmi), era segno di benessere. Il maiale -versione domestica del cinghiale – dalla notte dei tempi ha assolto un compito del tutto particolare: sfamare la gente. Infatti, era il solo animale allevato per puri scopi alimentari.

A differenza degli equini e dei bovini, animali da tiro e da soma, utili ai lavori nei campi o come “mezzo di trasporto” negli spostamenti,  o delle pecore e delle capre  – che  fornivano latte e pelli –  il maiale era invece  solo ( e quasi tutto) carne commestibile, che costituiva la stragrande maggioranza delle riserve di “ciccia” già dalla preistoria. Un nobile animale, preziosissimo, che offriva il meglio di se per condimenti, grassi e sapori, sugna, lardo, strutto, cotenne (basti pensare che, in origine, la bagna càoda piemontese era fatta con lardo o sugna). La sugna serviva a tanti scopi: dall’ingrassare gli scarponi ( per mantenerli morbidi e protetti ) e le ruote dei carri, fino a farne candele e ceri. Nemmeno le ossa e i “peli” si buttavano del maiale: con le migliori veniva prodotto del sapone, dalle unghie si ricavava uno straordinario concime e con le setole s’imbastivano robustissimi ancorché rozzi, tessuti. Disporre di un maiale era un ottimo  investimento: non è forse evocativo il fatto che, spesso se non sempre, i salvadanai hanno la forma di un porcellino? Fino a più di un secolo fa i  maiali erano cresciuti liberi di ingozzarsi di ghiande nei boschi dove prevalevano querce e farnie. Finite quelle, esaurita la scorta di cibo, per così dire, “naturale”, non avendo altro cibo per ingrassarlo ancor più, il maiale passava al macello. E, sezionato in tutto e per tutto, finiva per gran parte sulla tavola. Spesso dire maiale equivale a dire prosciutto e salume anche se non solo col porcello si fanno ottimi insaccati. Dove sono nato, nel profondo nord del Piemonte e  dell’Italia di “mezzanotte”, quando si parla di salumi è naturale pensare alle valli ossolane ed alle produzioni locali. Dal prosciutto crudo della Val Vigezzo alle mocette, dai violini di cervo e di capra alla mortadella. Nella valle Anzasca, ai piedi del Rosa, da Macugnaga a Castiglione, con carne della testa e del guanciale  – cotta e aromatizzata –  si produceva il salame di testa. Salamini, salamelle e salsicce da grigliare si trovano un po’ ovunque, mentre è difficile trovare ancora, la salsiccia di riso: un divertente salame povero con riso bollito e maiale che si conserva sotto grasso. C’è sempre, nelle lavorazioni artigianali, il “tocco” di qualità, il vanto di tradizioni che si trasformano in prelibatezze che, spesso, non ammettono confronti.

Ma non c’è solo il “made in Ossola” sul tagliere. C’è anche la scuola degli insaccati della “bassa” che, dalle sponde dei laghi Maggiore e d’Orta scende, tra colline e baragge, fino alle risaie del novarese. Una scuola antica, contadina, che vede per l’appunto nel maiale e nelle sue carni un punto di riferimento che, pur non essendo l’unico, è di gran lunga il principale. Immaginando di tracciare una “via del salame” è curioso vedere dove ci porta, accompagnando il rilievo gastronomico a quello geografico. Iniziamo dal cacciatorino, piccolo, gustoso e conosciutissimo salamino stagionato da mangiare crudo. Confezionato il più delle volte in “collane”, è diffuso un po’ dappertutto ma è particolarmente prelibato quello di Borgomanero e dintorni. I ciccioli ( in piemontese “garisole”) di maiale o d’oca, sono invece dei piccoli pezzi di carne fritti e croccanti che si ottengono facendo sciogliere il lardo e il grasso dell’animale per ricavare lo strutto. Il “collo d’oca”, invece, è un caratteristico insaccato ottenuto nella bassa novarese imbottendo con carne e grasso d’oca aromatizzati la pelle del collo di questo pennuto. Si trova in due versioni, cioè cotto o crudo. Ed eccoci ad una delle parti migliori del maiale: la coppa ( o capocollo ). C’è da sbizzarrirsi. Fresca, questa carne dà lonze, filetti e braciole. Intera è nota come “carrè” mentre il capocollo è un insaccato che si ottiene con la carne della testa e delle parti posteriori tritata, salata, conciata ed “infilata” nell’involucro di budello cieco.

La stagionatura, in media, dura quattro mesi ed è una specialità molto diffusa in Valsesia. Il cotechino ( cudighin ), re delle feste di carnevale e piatto tradizionale per il fine d’anno ( accompagnato da fumanti, e beneauguranti, lenticchie) è un salume fatto con cotenne e carne di maiale, tritate per bene ed insaccate nelle budella grosse con l’aggiunta di spezie. Saltando la cotenna, pelle del maiale indispensabile per dar gusto ad alcuni piatti, e tralasciando il lardo che meriterebbe, da solo, una gustosissima riflessione ( “nobilitatosi” agli occhi del grande pubblico grazie a quelli d’Arnad e di Colonnata ), ecco la lonza (o lombata) e le luganighe. La prima, riconducibile a quella parte del maiale macellato che comprende uno dei lombi, con tutta la parte dorsale (costolette e coscia o spalla ), in alcune zone della bassa novarese o del vercellese è trattata e aromatizzata, quand’è fresca, come un salume. Le seconde sono tipiche di Cannobio, ultimo borgo dell’alto lago Maggiore prima di varcare – a Piaggio Valmara – il confine con la confederazione elvetica. Si consumano per tradizione a gennaio, con l’avvio del nuovo anno: salamini con un impasto ottenuto mescolando, in varie quantità, carni di maiale, lardo, aromi, pepe e vino rosso. Uniche nel loro genere e assolutamente da non perdere. Poi c’è il sanguinaccio, composto appunto da sangue di maiale, latte, lardo, pane grattugiato, spezie, aglio e vino. Il tutto insaccato a dovere nel budello dello stesso maiale. Antico piatto contadino nelle lunghe giornate d’inverno della pianura novarese e vercellese, si consumava arrosto o lessato. Sulle mortadelle c’è molto da dire. Vanno spese subito due parole per quella della Val d’Ossola, tutelata e “certificata” anche da Slow Food. Simile al salame ma con l’aggiunta di una piccola percentuale di fegato, che le conferisce un gusto del tutto particolare, è da provare. E’ prodotta in due differenti forme: una é insaccata in budello sottile ed è ripiegata ad “U” e legata in modo tradizionale; nell’altra versione é insaccata in budello grosso e legata a stella. La stagionatura é di circa un paio di mesi e il prodotto è consumato sia crudo che cotto. Una delle “regine” è la mortadella di fegato d’Orta.

Costituita da un impasto a grana fine di fegato di maiale con carne di suino, grasso di sottogola e spezie, si presenta a forma di ciambella. Un particolare non secondario è  l’impasto. Alcuni lo condiscono con del vin brulé, preferibilmente barbera; altri invece usano del vino bianco per dare “tono” alla mortadella che, in ogni caso, sarà poi fatta stagionare per qualche mese. A detta di alcuni ricorda la “salama” ferrarese e si può mangiare sia cotta ( con la purea di patate )che cruda o affumicata. In dialetto cusiano quest’insaccato è conosciuto come “fidighin”e trova la sua terra d’elezione sulla sponda orientale del lago d’Orta, tra il paese dell’isola di San Giulio e Gozzano, oltre che nell’areale tra l’aronese e Borgomanero. La pancetta drogata di montagna (conciata con spezie, aglio ed un “fiato” di grappa) non si trova solo dove i sentieri s’inerpicano e si devono fare i conti con le “ragioni della montanità”( asprezza dell’ambiente, altrimetria in crescita, clima conseguente, accessi ardui) ma anche in collina.Se ne producono di buonissime nel Vergante, nell’entroterra del lago Maggiore, sulle “motte” che fanno da contorno al vasto panettone del Mottarone, la “montagna dei milanesi”. Ma, tornando alla pianura del riso e variando sul tema del maiale, ci si può imbattere di nuovo nell’oca o nell’anatra e, parlando questa volta di prosciutto, è d’obbligo spendere almeno un cenno al petto affumicato d’oca. Minuscolo e signorile prosciutto senz’osso, ottenuto dal petto di uno dei più interessanti e prelibati protagonisti della vita sull’aia, si conserva a lungo e si consuma crudo. Raro da trovare, riserva delle sorprese molto piacevoli al fortunato che lo gusta, lentamente, con la stessa assenza di fretta con cui si confeziona. In subordinata si può deviare sul prosciutto d’anatra: una piccola coscia speziata, salata, lasciata all’aria o affumicata.

Per chiudere, almeno virtualmente, il cerchio dei volatili, due parole sul salame d’oca o, come dicono nella bassa novarese, il “graton d’oca”. Famoso quello di Fara – terra di buone uve e di buon vino – con l’impasto di carne cruda tritata e insaccata nella stessa pelle dell’animale. Alla voce salami, ritornando al maiale ed allargandoci a cavallo e asino, c’è un lungo elenco da scorrere: dal “cotto” d’Oleggio al crudo di Sillavengo, dagli “asinini” di Bellinzago ai “cavallini” di Castelletto Ticino, Arona, Borgomanero e Cressa. Ma un occhio di riguardo va dedicato al “salam d’la doja”, l’insaccato fresco di maiale immerso nel suo grasso e conservato nel tradizionale orcio di terracotta, la doja piemontese. Appena preparati si lasciano asciugare per una decina di giorni per poi infilarli nell’orcio e annegarli nel grasso fuso di maiale. Prodotti tipici della terra delle risaie, sono uno dei componenti fondamentali della “panisa” o “paniscia”. Sull’origine dell’arte di far salumi c’è chi giura che occorra scavare fino alla preistoria, all’età del ferro. Per non voltar troppo indietro la testa e poter dare, comunque, un giusto peso alla “gloria del maiale” si può citare un celebre gastronomo francese, Grimod de La Reynière che, all’inizio dell’ottocento, sui suoi Almanach des Gourmands, scriveva così: “..é il re degli animali immondi, le cui qualità sono del tutto incontestate. Niente lardo senza di lui e di conseguenza niente cucina, niente prosciutto, né salsicce, né sanguinacci, né insaccati e di conseguenza niente salumieri”. E dopo averne tracciato un profilo dal quale non si scartava nulla, concludeva così: “..Qualunque buongustaio se sente pervaso da una profonda gratitudine verso il maiale ed è indegno di quel titolo se non nutre questo sentimento nel suo cuore”. Che dire, di più? Oui, monsieur de La Reynière…nous sommes d’accord avec vous: la viande de porc c’est trop bonne!

Marco Travaglini

Le ciliegie “salate”

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Stavamo bevendo un bicchiere in compagnia quando Giorgio mi rivolse – all’improvviso – una domanda: “Ti ricordi quando andavamo per ciliegie?”.  Ci misi un attimo, giusto il tempo di mettere le mani nel cassetto dei ricordi e – trovato il filo giusto – mi vennero in mente, nitidamente, quei tempi

A Giorgio erano state le amarene rosso scuro che la Maria aveva sistemato nel cestino della frutta ad accendere la “lampadina“. In quell’istante, la nipotina della Maria, ne prese due coppie, tenute insieme dai gambi, e se le appese come fossero orecchini. Ridemmo, entrambi, di quel gesto che, tanti anni fa, avevamo fatto anche noi, scherzando tra ragazzini. All’epoca si andava in “banda” per i poderi a far razzia. Tra la fine di giugno ed i primi di luglio, nei tardi pomeriggi di quelle calde giornate d’estate, si cercavano gli alberi più carichi di ciliegie. Era una “caccia” troppo invitante. Le ciliegie sono frutti allegri, dissetanti. Ci sono quelle dolci, zuccherose, a polpa tenera ( le tenerine) e a polpa più carnosa (i duroni). E poi, le amarene e le marasche. Con gli anni ho imparato altre cose: oltre ad essere buone fanno pure bene. Sono indicate  nella cura di artriti, arteriosclerosi, disturbi renali. Contengono  buone quantità di fibre, potassio, calcio, fosforo e vitamine. Ci si possono produrre sciroppi, marmellate e liquori come maraschino, cherry e ratafià. Insomma, c’è tutto un elenco di cose positive che fanno rima con ciliegia. Ma noi, all’epoca in cui eravamo ragazzi, piacevano soprattutto perché erano il frutto di un piccolo furto e questo fatto, accompagnato dall’avventura, dai rischi e dalla voglia di trasgredire, rendeva le ciliegie il “frutto proibito” per eccellenza. Mario era arrivato al punto di sostenere una tesi tutta sua: Adamo ed Eva erano stati cacciati dal Paradiso non per colpa di una mela colta senza permesso ma di un cestino di ciliegie rosse e carnose. Il rischio più grande era quello di trovarle “salate“.

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Infatti, capitava che i contadini di un tempo, poco inclini a tollerare le nostre scorribande, ci accoglievano con una doppietta caricata a sale grosso, determinati a scoraggiarci con la minaccia di  piantarci due schioppettate nel sedere. All’arrivo dell’estate, immancabilmente, sembravamo due eserciti in assetto di guerra. “Noi“, a gruppi di 4 o 5, lesti a salire sull’albero, cogliere le ciliegie al volo, riempire il sacco di tela o il cestino, cercando di fare il più in fretta possibile. “Loro“, i proprietari dei ciliegi dove cresceva quel ben di Dio, confezionavano cartucce di diverso calibro con sale grosso, in sostituzione dei pallini di piombo. Rinforzavano anche le linee difensive lungo i confini dei frutteti: reti metalliche orlate di filo spinato, staccionate, siepi irte di spine. Era la “guerra delle ciliegie” che, in altre località, si trasformava in una vera e propria “guerra della frutta”. Se i contadini erano i difensori del loro diritto alla proprietà privata noi, gli incursori che negavano questo diritto, sostenendo che la natura non aveva padroni, colpivamo senza pietà, svanendo subito dopo nei boschi e nella campagna circostante, a volte trascinandoci appresso i compagni feriti. “Lo si faceva per fame e per gioco. Per molti di noi era l’unico modo per mettere sotto i denti quella frutta che non potevamo comprare. Ed era una cuccagna perché a casa il cibo era scarso“, rammentava Giorgio. E, come un rosario, sgranavamo i  nomi dei nostri compagni di quella guerriglia senz’armi: io e Giorgio, Mario, Luigino “Trota” – abilissimo nel pescare nei ruscelli e nel fiume -, Remo, Marco ed anche Marina. Era, quest’ultima, una ragazzina sveglia che dava dei punti a tutti noi. Ed era golosissima di ciliegie. Il campo di battaglia più duro era il frutteto del vecchio Roger Zuffoli, detto “il marsigliese“. Aveva un paio d’ettari piantati a frutta dove si trovava di tutto: susine, albicocche, pesche, mele, pere ed ovviamente ciliegie ed amarene. Verso il limite del bosco aveva anche noci e nocciole. Roger, piccolo e secco, vestiva i pantaloni alla zuava e camicie a quadrettoni mentre in testa teneva sempre il suo basco calato sulle “ventitré“. All’epoca poteva avere si e no una settantina d’anni, gran parte dei quali passati a scaricare merci nei porti di Marsiglia e di Tolone. Era tornato a Baveno già anziano perché, diceva, ” dopo tanta acqua salata ho sentito la nostalgia dell’acqua dolce del Maggiore“. In ricordo di quegli anni, al circolo comandava sempre un bicchiere di  “pastis“,  liquore profumato all’anice, tipicamente francese, che allungava con l’acqua di una caraffa dove galleggiavano dei grossi pezzi di ghiaccio. Attaccare le sue piante era molto ma molto rischioso. Raramente riuscimmo a farla franca ed una volta, quasi, ci lasciammo le penne. Quell’episodio, ancor meglio di me se lo ricorda Mario. Stranamente silenzioso, il frutteto pareva incustodito quella sera. Saranno state le diciannove o poco meno. Roger mangiava presto e quindi pensavamo fosse quello il momento giusto per compiere l’incursione. Invece il perfido vecchietto, mangiata la foglia, si era appostato dietro al piccolo fienile con la doppietta in mano.

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Non facemmo in tempo a renderci conto di quanto stava accadendo che l’eco dello sparo risuonò secco, costringendoci a tappare le orecchie. Colpito al sedere dalla fucilata di sale grosso, Mario cadde dal ramo. Dolorante si rialzò e tutti insieme corremmo a più non posso verso il bosco per far perdere le tracce. Mentre fuggiva a gambe levate, Mario sentiva il dolore delle ferite, poi il bruciore dei grani di sale che si scioglievano nella carne viva. Appena avvistò il ruscello, vinto dal bruciore, si gettò nell’acqua per calmare il fuoco che gli stava divorando il fondoschiena. Ma il rimedio si rivelò peggiore del male: l’acqua , accelerando lo scioglimento del sale, rese insopportabile il bruciore. Remo, appassionato collezionista di francobolli, portava sempre con se una pinzetta e con quella, tra le grida ed i lamenti di Mario, estraemmo i grani di sale, pulendo alla meglio le ferite. Per un po’, da quella sera, gli assalti vennero sospesi per poi, calmate le acque, proseguire per la disperazione dei contadini della zona, compreso Roger. Quella volta però, la “missione” si era conclusa senza il “bottino“. Mario , d’allora, non volle più prendere parte alle nostre imprese. L’invitavamo, lo pregavamo ma lui diceva sempre di no,  opponendo resistenza. Diceva che lui, ormai, non aveva più “il sedere di una volta“. In cuor nostro non ce la sentivamo di dargli torto.

Marco Travaglini

Garibaldi, l’animalista in camicia rossa

Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi, uno dei padri della patria, oltre ad essere sempre pronto – come dice Massimo Bubola nel testo della sua bella canzone, “Camicie rosse” – “a menare le mani per la libertà”, nutriva uno sconfinato amore per gli animali. Ed è questo,  probabilmente, uno degli aspetti meno conosciuti della sua complessa e poliedrica personalità. Un amore, il suo, che lo spinse nel  1871 a fondare, assieme alla contessa di Southerland, la “Società Reale per la protezione degli animali“, divenuta poi l’attuale Enpa.

 

Sfogliando le note storiche dell’ Ente Nazionale per la Protezione degli Animali  – che custodisce documenti e lettere firmate di suo pugno da Garibaldi – si scopre infatti che le origini stesse dell’associazione vanno fatte risalire al 1° aprile 1871, anno in cui Giuseppe Garibaldi, su invito di una nobildonna inglese – lady Anna Winter, contessa di Southerland –  incaricò con una lettera inviata da Caprera il suo medico personale, dottor Timoteo Riboli, di costituire una società per la protezione degli animali, annoverando la signora Winter , il medico e se stesso come soci fondatori e presidenti onorari. Un atto fondamentale che costituisce il più antico documento conosciuto contro il maltrattamento degli animali.

 

Fu così che nacque la “Società Reale per la Protezione degli Animali“, con un ufficio provvisorio a Torino, al primo piano del n. 29 di via Accademia Albertina, di cui la storica tipografia di Vincenzo Bona stampò, nel 1872, uno Statuto Sociale, stilato in lingua italiana, inglese, francese e tedesca.

Marco Travaglini