redazione il torinese

Una golosa crostata di mandorle e cioccolato

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La proposta di oggi e’ tutta da gustare, una frolla friabile un goloso ripieno avvolgente, cioccolatoso, dal sapore ineguagliabile

La crostata e’ un dolce tradizionale capace di reinventarsi in mille modi. La proposta della settimana e’ tutta da gustare, una frolla friabile un goloso ripieno avvolgente, cioccolatoso, dal sapore ineguagliabile.

Una tentazione deliziosa.

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Ingredienti per la frolla:

200gr.di farina

100gr. di burro

70gr. di zucchero

2 tuorli

1 pizzico di sale

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Ingredienti per la farcia:

1 grossa mela

100gr. di mandorle ridotte a farina

100gr. di cioccolato fondente 70%

15 amaretti pestati

2 uova intere

50gr.di burro fuso

60gr.di zucchero

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Preparare la frolla impastando velocemente la farina con il burro freddo a pezzetti, lo zucchero, il sale e i due tuorli. Avvolgere in pelliccola e riporre in frigo per 30 minuti. Affettare sottilmente la mela, frullare le mandorle a farina, pestare gli amaretti. Stendere la frolla in uno stampo per crostate ricoperto con carta forno, bucherellare il fondo, cospargere la pasta con meta’ degli amaretti e sistemare le fettine di mele. Sciogliere il burro con il cioccolato. Nel mixer frullare a velocita’ bassa le uova con lo zucchero, la farina di mandorle e il cioccolato fuso. Versare la crema sulle mele e infornare a 180 gradi per circa 50 minuti. Lasciar raffreddare e decorare con gli amaretti rimasti.

 

Paperita Patty

Cipolle e zucchine ripiene

Le verdure ripiene hanno un sapore semplice ed antico, costituiscono un ottimo piatto unico e sono adatte ad ogni occasione. Semplici verdure che con pochi ingredienti si trasformano in una pietanza appetitosa.

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Ingredienti

3 cipolle bianche

3 zucchine tonde

3 etti di prosciutto cotto

80gr. di parmigiano grattugiato

2 uova

Sale, pepe, olio, timo, pangrattato q.b.

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Sbollentare in acqua salata le zucchine e le cipolle o, in alternativa, cuocerle a vapore per circa 5 minuti. Lasciar raffreddare, tagliare le verdure a meta’ e togliere la polpa interna con un cucchiaio. Preparare il ripieno. Tritare il prosciutto cotto con la polpa delle cipolle, amalgamare il tutto con le uova, il parmigiano, il sale, il pepe ed un pizzico di timo. Farcire le verdure con il ripieno, spolverizzarle con il pangrattato, sistemarle in una teglia foderata con carta forno e irrorarle con un filo d’olio. Cuocere a 180 gradi per circa 30/40 minuti. Servire caldo o tiepido con una semplice insalata.

Paperita Patty

De Amicis, il monumento grazie a un amico

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I monumenti di Torino    Ecco un nuovo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Quest’oggi vorremmo parlarvi del monumento dedicato a Edmondo De Amicis, conosciuto da tutti per essere l’autore del libro Cuore

Situata in piazza Carlo Felice, all’interno dei Giardini Sambuy, l’opera è formata da due elementi su un’ampia piattaforma con scalini. In primo piano si erge la statua della “Seminatrice di buone parole”, rappresentata dalla “bella figura di una popolana dal largo gesto che diffonde la semente”(cit.), mentre sullo sfondo è situato un muro a esedra (incavo semi-circolare), decorato da un fitto altorilievo nel quale sono raffigurate scena di vita quotidiana, narranti episodi di “amor figliale, amor materno, amicizia, studio, amor di patria, carità e lavoro”(cit.). Sul piedistallo della statua è invece scolpito un medaglione con il profilo di Edmondo De Amicis.

 

Edmondo De Amicis nacque ad Oneglia il 21 ottobre 1846 da una famiglia benestante di origine genevose. Nel 1848 la sua famiglia si trasferì in Piemonte, dapprima a Cuneo e poi a Torino, dove Edmondo frequentò il liceo. All’età di 16 anni entrò al Collegio Militare Candellero di Torino, ma fu subito trasferito all’Accademia militare di Modena dove divenne ufficiale sottotenente. Nel 1866 partecipò alla battaglia di Custoza ma, l’anno dopo, decise di abbandonare l’esercito per dedicarsi alla carriera di giornalista. Divenne quindi giornalista militare e trasferitosi a Firenze, assunse la direzione della rivista “L’ Italia Militare”. Nel 1868, all’età di 22 anni, venne assunto dal giornale “la Nazione” di Firenze, dove continuò come inviato militare assistendo così, nel 1870, alla presa di Roma.

Dal 1879 (ma più permanentemente dal 1885) De Amicis si stabilì a Torino, andando ad abitare presso il palazzo Perini, davanti alla vecchia stazione ferroviaria di Porta Susa; qui (ispirato forse dalla vita scolastica dei suoi figli Ugo e Furio), terminò quella che fu considerata la sua più grande opera. Il 17 ottobre 1886 (primo giorno di scuola di quell’anno), venne infatti pubblicato Cuore, una raccolta di episodi ambientati tra dei compagni di una classe elementare di Torino, provenienti da regioni diverse, costruito come finzione letteraria di un diario di un ipotetico ragazzo: l’io narrante Enrico Bottini.

Il romanzo (nato come libro per ragazzi), ebbe subito un grande successo e venne molto apprezzato sia per il suo carattere educativo-pedagogico, sia perché ricco di spunti morali riguardanti i miti affettivi e patriottici del Risorgimento italiano. Il libro Cuore fece conoscere Edmondo De Amicis in tutto il mondo e lo suggellò autore attento alle problematiche della borghesia, del popolo e dell’educazione. Alcuni avvenimenti spiacevoli della sua vita, come ad esempio la morte suicida del figlio maggiore Furio (nel 1898 si sparò al Parco del Valentino), lo portarono ad abbandonare definitivamente la città sabauda. In seguito scrisse numerosi racconti nel corso dei suoi viaggi in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Costantinopoli e Marocco. Morì a Bordighera l’11 marzo del 1908 a causa di una improvvisa emorragia celebrale. Su iniziativa della Gazzetta del Popolo, per onorare la memoria di Edmondo De Amicis ad un anno dalla sua scomparsa, un Comitato propose di erigere un monumento a lui dedicato, che ne onorasse la memoria e ne esaltasse le “doti di educatore e autore immortale”(cit.) del libro Cuore.

L’esecuzione dell’opera venne affidata direttamente (non si proclamò nessun concorso) allo scultore e disegnatore Edoardo Rubino, caro amico di De Amicis, che si propose di realizzare il monumento a titolo gratuito come suo personale contributo. Ad un anno di distanza dall’iniziativa, nel 1910, Rubino presentò il bozzetto del progetto che trovò il consenso e l’approvazione di tutti. Il monumento venne terminato già nel 1914, ma la posa in opera con l’ufficiale inaugurazione, avvenne una decina di anni più tardi a causa di alcune questioni riguardanti la scelta del luogo. Su richiesta della commissione, l’inaugurazione avvenne il 21 ottobre 1923, volutamente dopo l’apertura delle scuole, in modo che “gli potesse essere intorno come aureola gloriosa l’affetto di centinaia di bimbi” (cit.).

Simona Pili Stella

Voglia di gelato. Eccone uno speciale…

Un gustoso e sorprendente antipasto salato rinfrescante.

Un favoloso gelato al parmigiano, un modo diverso per gustare un classico della cucina italiana, molto semplice da realizzare sara’ una piacevole novita’. Servito con delle verdure croccanti incantera’ i vostri ospiti.

 

Ingredienti

200 ml. di panna fresca da cucina

200 ml. di latte fresco intero

100 gr. di Parmigiano Reggiano grattugiato

Pepe macinato

Granella di pistacchi di Bronte

Verdure fresche a piacere

 

Sciogliere a bagnomaria il parmigiano grattugiato fresco nella panna, lasciar raffreddare. Aggiungere il latte e una macinata di pepe, mescolare bene. Versare tutto nella gelatiera e lasciar mantecare. Preparare le verdure, ottimo con sedano e ravanelli, servire le palline di gelato in coppette individuali cosparse di granella di pistacchio di Bronte. Strepitoso !

 

Paperita Patty

Ghiotta caponata, sapore di Sicilia

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Un mix di sapori, colori e profumi, questa e’ la caponata. Un piatto gustoso e saporito tipico della cucina siciliana a base di ingredienti classici come melanzane, pomodori, e olive in salsa agrodolce dal sapore unico e inconfondibile. Servita calda, tiepida o fredda è un piatto versatile che potrete gustare in più varianti, a secondo dei vostri gusti.
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Ingredienti
1 kg. di melanzane
50gr. di capperi
500gr. di pomodori maturi
150gr. di olive verdi o nere
100gr. di sedano
50 grammi di pinoli
2 cipolle
1 spicchio di aglio
50ml. di aceto bianco
50gr. di zucchero
Sale grosso
300 grammi di olio di semi
Olio evo q.b.
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Lavare e tagliare a pezzi le melanzane, cospargerle di sale grosso e lasciarle spurgare per almeno 30 minuti poi strizzarle, asciugarle con carta assorbente e friggerle in olio ben caldo fino a doratura, scolarle dall’olio in eccesso. Affettare le cipolle e soffriggerle con un filo di olio e uno spicchio di aglio, aggiungere i pomodori lavati e tagliati a pezzi, mezzo bicchiere di aceto, sfumare e poi aggiungere lo zuccchero. Sbollentare il sedano in acqua e aceto, tagliarlo a pezzi ed aggiungerlo ai pomodori. Unire le melanzane fritte, le olive tagliate a pezzi, i pinoli leggermente tostati, i capperi dissalati e mescolare con cura. Aggiustare di sale e servire a piacere la vostra caponata calda o tiepida.

Paperita Patty

“Tex” Borlazza e il Rodeo in Lomellina

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Il rodeo non è solo spettacolo e storia: è soprattutto un modo di vivere che accomuna chiunque viva nel sud ovest degli Stati Uniti. E diventerà così anche per chi frequenterà Buttignolo”. Il vicesindaco, per pronunciare questo breve discorso, evitando di infarcirlo con le solite intercalazioni ( e già questo rappresentava un evento), si era agghindato come un vero vaccaro americano. Una sgargiante camicia con la fantasia a quadretti , stile tovaglia da osteria che  fa tanto country, adattissima al cowboy’s style; jeans d’ordinanza, stretti in fondo, a sigaretta e con il cavallo tenuto un pò basso;  il fazzoletto legato al collo e, immancabili, un paio di stivali texani nuovi di zecca.  In una mano teneva un dépliant che lo ritraeva a fianco di un cavallo, mentre puliva la sella , con in testa un enorme cappello da cowboy. Quel copricapo – uno Stetson originale – se l’era fatto mandare direttamente dalla John B. Stetson Company di Galveston, Texas. La scritta raccontava tutto: “Lomellina’s CowBoys’ Ranch” , il centro dedicato alla monta western vicino a casa sua, in frazione San Cristoforo. Nell’altra teneva una foto che ritraeva suo padre mentre, a cavalcioni di una manza, salutava. “Ecco quì, buon sangue non mente. Mio padre, da giovane, lo chiamavano “Tex”, ” Tex Borlazza”, il cowboy dagli occhi di ghiaccio. Ed ora, grazie ad alcuni miei cugini che abitano a El Paso nel Lone Star State, nello stato della stella solitaria, cioè il Texas per voi che non siete mai andati più in là di Mortara, ho deciso che impianteremo anche qua un bel centro per il Rodeo.Bello, eh?”. Il sindaco, l’altro assessore, i due consiglieri lo guardarono attoniti. Don Busecca, il parroco, scuoteva la testa mentre il sacrestano che lo accompagnava alzò gli occhi al cielo, sussurrando “Dio mio, è matto come un cavallo“. Ma quando Ercolino si metteva in testa un’idea ( che, per il solo fatto d’averla partorita lui, era – a suo insindacabile giudizio – “un’ottima idea”..) non c’era verso di farlo desistere o, quantomeno, ragionare. Così, un paio di settimane dopo, sbarcati a Malpensa i cugini Frank e Dave Borlazza, nati a El Paso da padre buttignolese ( Giobatta, detto Jo) e madre texana, iniziò la fase operativa dell’operazione “rodeo”. Sponsor, a parte il “Lomellina’s CowBoys’ Ranch”, che doveva consolidare la sua attività, c’erano le Bibite Peretti & Tapponi, L’Edil Lomellina e il Credito Agricolo Pavese, noto anche come “il Cap”.

 

In poche settimane i due Borlazza a stelle e strisce, appoggiandosi a Geremia Plastici, titolare del centro di monta western ( che però teneva molto a farsi chiamare Johnny Plastic), predisposero l’arena dove si sarebbe svolto il primo campionato regionale lombardo di Rodeo. Con un migliaio di euro d’ingaggio e l’impegno a garantirgli vitto e alloggio per due settimane, era stato coinvolto nell’impresa anche Silvano Scaratti, detto Crazy Horse, il primo non americano a distinguersi nel più importante rodeo degli Stati Uniti, quello dei Frontier Days che si teneva a Cheyenne. La città, capitale dello stato del Wyoming, non a caso, era gemellata con Voghera a dimostrazione che l’Oltrepo poteva diventare, a tutti gli effetti, il riferimento di tutti gli appassionati del vecchio West. E venne il fatidico giorno quando, in un tripudio di bandiere, polvere e musica country, accompagnati dalle majorettes di Mezzana e dalla banda degli Stonati di Sesto Calende, fecero l’ingresso nell’arena buttignolese dell’Acqua Ferma i partecipanti al rodeo. Erano una trentina gli atleti che si sarebbero sfidati nell’impresa di domare tori e cavalli selvaggi,lanciandosi in gare ed esibizioni di ogni genere. Tra gli applausi e le urla compiaciute dei quasi quattrocento spettatori, vestiti da indiani e cowboys, i concorrenti si rincorsero per tutto il giorno in caroselli infernali, affrontandosi in corse mozzafiato, cimentandosi in gare di velocità o di abilità con i lazos , facendosi ammirare per la maestria con la quale riuscivano a muovere una mandria di broncos, di puledri selvatici. Tutto questo, tra un numero e un altro, per arrivare al titolo regionale delle classiche specialità del rodeo: monta del toro, monta del cavallo senza e con la sella.

 

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Nessuno era riuscito a rimanere in sella per gli  otto secondi nel bull riding , nella monta del toro. Erano stati sbalzati di sella o avevano toccato l’animale con la mano libera ( la briglia di corda andava tenuta saldamente con una mano sola) ma mancava all’appello Domenico “Tex” Borlazza, l’intrepido genitore di Ercolino. E, incredibilmente, l’allevatore di manze dell’Oltrepò diede una lezione a tutti, in puro stile Buffalo Bill. Quattordici secondi e una manciata di centesimi in groppa a Celestino, un toro scalciante e incazzatissimo che faceva torto al mite nome che gli era stato appioppato. “Vacca, che record!”, urlò il Borlazza, applaudendo a spella-mani l’atletico babbo. “Sei meglio di  John Wayne! Cavolo, che forza. Quando c’è di mezzo una manza o un toro, il Tex gli fa abbassare le corna, altro che balle”, gridava, allungando grandi manate sulle spalle del povero Gaudenzio Sparagnetti, sacrestano di Sant’Eusebio che – cercando riparo – annuiva impaurito. Poi, premiati i vincitori con il titolo di campioni lombardi delle varie specialità ( Borlazza senjor, si aggiudicò ovviamente quella della monta del toro), tutti si recarono al Bar della Berta, alle porte del paese, trasformato per un giorno nel Saloon “Old wild west”, il vecchio selvaggio west dove si poteva ballare la line dance, classica danza country, oltre a scolare fiumi di birra, rimpinzandosi di  piccantissimo cibo tex mex. Mentre Ercolino, agitando il cappello da cowboy, lanciava le sue urla sempre più sguaiate, ululando come un coyote alla luna piena, lo Sparagnetti – guardando diffidente i burritos, le terrine colme di chili e le varie tortillas – si confidava con la Berta e Amleto Dolceselli, pensionato dell’Enel: “ Quello lì ha un bel dire con la sua mania del west ma a me pare una gran americanata e a quella roba da bruciasedere che c’è da mangiare, io preferisco un bel risotto con le rane, la lepre in salmì o il fagiano alla cacciatora. Ma quel Borlazza lì c’ha una testa da remulàzz!”. Poi, spiegato al Dolceselli, nativo del centro Italia,il significato di remulàzz (..“è il  ramolaccio, caro Amleto: una radice  scura, molto simile al rafano che si vende a mazzetti, come i rapanelli. E’ anche un modo per indicare una persona che ha una testa di rapa, hai capito?”), se ne andò canticchiando: “Trallalero, trallallà..la bella la va al fosso..ravanei, remulàzz, barbabietole e spinàzz.. tré palanche al màzz”.

Marco Travaglini

 

“Domingo il favoloso” e la Torino fantastica di Giovanni Arpino

“In quanto narratore di storie, sento di appartenere a una razza in via di estinzione, poiché la civiltà delle immagini ci sommergerà e i lettori saranno sempre più capaci a leggere, ma sempre meno come numero”.

Così scriveva Giovanni Arpino nel 1982, riflettendo sul mondo che cambiava con grande rapidità. E, parlando dei personaggi dei suoi libri, aggiungeva: “Tutti i miei personaggi, se ci ripenso un attimo – giovani o vecchi, uomini e donne, operai contestatori e randagi – sono degli emarginati, che vengono a precipitare, pur essendo normali, in una situazione abnorme”. Arpino, nato a Pola nel 1927 da genitori piemontesi, durante la giovinezza  visse a Bra  per poi trasferirsi definitivamente a Torino, dove rimase fino alla sua morte prematura,  il 10 dicembre del 1987.Grande scrittore, “bracconiere di tipi e personaggi, cacciatore d’anime”, come si autodefiniva, si è distintoper lo stile asciutto e ironico e per la capacità di fissare storie di vita, esperienze e fotografie della realtà con straordinaria nettezza e precisione. Incredibilmente, nonostante i suoi sedici romanzi e i quasi duecento racconti, da anni sembra scomparso dal panorama culturale italiano. Tra i suoi libri c’è anche un bellissimo romanzo-favola, ispirato al genere del feuilleton, “Domingo il favoloso”, pubblicato da Einaudi nel 1975. Il racconto uscì , prima ancora di diventare un libro, in tredici puntate sulla Domenica del Corriere , tra il dicembre 1973 e il marzo 1974, illustrato dagli acquerelli originali di Italo Cremona, con il titolo “Correva l’anno felice”. Domingo, il protagonista, è una sorta di picaro, un po’ furfante, esperto in truffe e trucchi di vario genere, maestro nel poker e nel biliardo. Ha una “eterna fidanzata“, Angela, che lavora dietro un banco di torrone, e s’innamora di una zingarella affetta da un male incurabile, Arianna, che gli fa scoprire i sentieri del cuore. “Domingo il favoloso è il secondo volume della trilogia fantastica di Arpino, iniziata con “Randagio è l’eroe (1972) e conclusa con “Il primo quarto di luna (1976). Già l’incipit della storia promette ritmo e mistero: “Gli restava mezz’ora di tempo. In piedi alla finestra, indifferente alla frescura primaverile, Domingo guardava il corso livido, vuoto. Un vecchio ubriaco apparve all’improvviso tra le silenziose strutture delle giostre, di capanni e logori camioncini che ingombravano da alcuni giorni quell’angolo di città. Il vecchio faticava nel sospingere la sua ombra demente. Domingo lo seguì fin dove la sagoma rimase un attimo ferma nel tremolio luminoso che incorniciava la baracca del tirassegno. Lo vide sparire sotto le cupole buie degli ippocastani”. Un romanzo assolutamente originale, ambientato nella Torino degli anni settanta, descritta  con immagini forti. Una città notturna, con i suoi “corsi lividi”, il vento improvviso che induce “tutti i colombi di Torino a cercar scampo tra grondaie, abbaini e comignoli”, dove le ombre s’inseguono nel “cinereo budello dei portici”. La Torino di Domingo è sulfurea, diabolica. Una città dove si diceva che l’occulto fatturasse più della Fiat. E lui,  persona che disdegna qualunque attività regolare e non accetta di inserirsi nel contesto civile, s’inventa mille volte la vita. Fino al punto di svolta, quando incontra il mondo superstizioso degli zingari: da quel momento la sua vita cambia fino al punto che tutto ciò in cui credeva, ogni sua certezza, finisce in frantumi. Quella di “Domingo” è una grande storia, narrata da uno scrittore di gran classe che seppe esprimersi con garbo, forza e lucidità fino all’ultimo respiro. Sconfitto dalla lunga lotta contro un carcinoma, a soli sessant’anni,  Giovanni Arpino non sprecò nemmeno una lacrima perché rischiava “di annacquare l’inchiostro”.

 Marco Travaglini

Il genio alato e i titani di piazza Statuto

Alla scoperta dei monumenti di Torino / La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura

 

Ed eccoci nuovamente pronti alla scoperta delle meraviglie di Torino, con la nostra ormai consueta e spero piacevole, passeggiata “con il naso all’insù”. Questa volta, miei cari amici lettori, vorrei parlarvi di una delle opere tra le più “chiacchierate” della città, forse anche grazie all’alone di mistero che da sempre la circonda: sto parlando del monumento Al Traforo del Cenisio-Frejus. Collocata in testa a Piazza Statuto, sul lato ovest aperto verso l’imbocco di Corso Francia, l’opera si erge imponente, rappresentando la superiorità della scienza e della tecnologia contro la forza bruta della natura. Conosciuto più comunemente come “Monumento ai caduti del Frejus”, l’opera, pietrosa e frastagliata, si erge al centro di una vasca circolare che raccoglie l’acqua che zampilla tra i massi, simulando torrenti alpini che si aprono la via sul dorso di una montagna.

La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura.  Il Genio si erge come la punta di un faro, dove converge lo sguardo di chi percorre via Garibaldi in direzione della piazza. Egli compare con una penna in mano, nell’atto di incidere sulla pietra, ad intramontabile memoria, i nomi dei tre ingegneri che resero possibile l’opera del Traforo. L’idea del monumento nacque nel settembre del 1871, precisamente all’indomani dei festeggiamenti per l’apertura della ferrovia che collegava (e collega ancora oggi) Italia e Francia attraverso il Traforo del Frejus; fu un opera di ingegneria compiuta in un brevissimo lasso di tempo e che sembrò realizzare i sogni di progresso e di comunione dei popoli. Grazie infatti al talento e alla collaborazione tra gli Ingegneri Sommelier, Grandis e Grattoni, il progetto della costruzione del traforo si avvalse dell’uso di perforatrici ad aria compressa, che ridussero le vittime e resero possibile la via di comunicazione transalpina nel giro di quattro anni.

L’entusiasmo per il successo tecnologico e per l’apertura di nuove e più veloci vie di comunicazione, spinse il conte Marcello Panissera da Veglio a proporre l’erezione di un monumento commemorativo. Quindi, su precise indicazioni riguardo al tema e alla metafora che il monumento doveva simboleggiare, venne indetto un concorso presso la Regia Accademia delle Belle Arti, che fu vinto da un giovane allievo dell’Accademia stessa, Luigi Belli. Il monumento (formato inizialmente da otto titani che poi si ridussero a sette e dal Genio alato che all’inizio doveva essere in marmo di Carrara e poi venne realizzato in bronzo), doveva rappresentare la Scienza (e quindi il progresso) vincitrice assoluta sulla natura. Associazioni operaie fecero immediatamente propria l’idea, interpretando l’intenzione del monumento, più che un elogio alla tecnologia, come un ricordo dei tanti lavoratori che parteciparono all’impresa della ferrovia e raccolsero (di loro iniziativa) fondi cospicui che fecero partire il progetto. (E’ interessante precisare come ancora oggi l’interpretazione “operaistica” sia condivisa da molti torinesi che cadendo nello stesso fraintendimento, definiscono il monumento un omaggio ai lavoratori caduti nell’edificazione della galleria del Frejus).

La sottoscrizione avviata dalle società Operaie trovò una controparte nell’analoga iniziativa capitanata dal commendatore Laclaire, che riunì la borghesia cittadina inquietata al pensiero di rimanere a guardare; infine anche la Città stanziò un fondo per la realizzazione dell’opera. I lavori cominciarono però solo nel 1874, coinvolgendo anche altri studenti dell’Accademia per l’esecuzione delle figure dei titani: sei allievi a titolo ufficialmente gratuito, prestarono la loro opera sotto la direzione dello scultore Odoardo Tabacchi e del professor Ardy, incaricati di occuparsi della statua del Genio e del concetto d’insieme dell’intero monumento. In seguito Luigi Belli, discordante con gli altri, verrà estromesso dalla realizzazione, tanto che disconoscerà l’opera giudicandola non fedele all’idea che l’aveva plasmata. Successivamente altri imprevisti e ad alcuni problemi di natura tecnica (nel 1877 ad esempio i lavori rimasero fermi per molto tempo a causa della costruzione del condotto idrico che collegava il monumento ai serbatoi del mattatoio comunale) ritardarono maggiormente l’esposizione dell’opera. Finalmente il 26 ottobre 1879, alla presenza di S.M. Re Umberto, di numerose delegazioni comunali italiane, di corpi dell’esercito, di alcune associazioni operaie e di una gran folla di privati cittadini, venne svelato il monumento, al grido magniloquente di “Volere è potere”.

L’accoglienza dell’opinione pubblica sembrò positiva, ma sui giornali dilagò immediatamente la polemica: il monumento venne giudicato sgraziato, ridicolo, pesante e grottesco. In suo soccorso subentrò però Carlo Felice Biscarra, della Regia Accademia Albertina di Belle Arti, che lo difese come opera innovativa e diversa, necessaria a svecchiare il paludato mondo cimiteriale della statuaria cittadina. L’opera è sicuramente una singolarità all’interno della città: non esiste altro monumento a Torino così mosso, così ricco e dall’apparenza così poco rifinita; se anche la piramide di sassi si distanzia molto dalle sembianze di una montagna vera, i titani esprimono con verosimiglianza la fatica e l’estromissione date da una forza più grande che è giunta a scalzarli. Anzi sono forse loro i veri protagonisti dell’intero monumento tanto che si può comprendere l’identificazione popolare tra questi titani abbattuti e gli operai schiacciati dal lavoro, sentite come vittime e a cui va l’empatia dell’osservatore. Per quanto il Genio alato sia di ottima fattura e rifinito nei minimi particolari (da notare accorgimento dei drappi che si gonfiano alle sue spalle e celano i rinforzi metallici che lo sostengono) il suo ruolo risulta piuttosto di finitura: è situato troppo in alto per poter essere ammirato per le sue qualità artistiche.

Parlando di questo monumento non si può non parlare dell’alone di mistero che da sempre lo circonda, dato dall’immaginario esoterico della Torino Magica che vede Piazza Statuto ed il monumento come deputati al male e alla confluenza di energie nefaste. La piazza, costruita sui resti della “valle occisorum” (vale a dire una necropoli romana), orientata verso occidente dove tramonta il sole ed essendo vicina al celebre rondò d’la furca (o rondò della forca), luogo un tempo predisposto per le condanne a morte, è ritenuta un punto di energie negative. In questo contesto, secondo gli esoteristi, il luogo di massima negatività sarebbe proprio il “Monumento ai caduti del Frejus” che rappresenterebbe proprio la porta dell’Inferno mentre il Genio alato non simboleggerebbe la scienza trionfante, bensì Lucifero, l’angelo ribelle, con la stella ad attestarne l’origine sovrannaturale e con lo sguardo rivolto a controllare Piazza Castello, punto di energia positiva.

Allontanandoci da questa suggestiva visione per così dire “magica” dell’opera, è interessante segnalare una piccola variazione avvenuta al monumento nel 1971 proprio in occasione del centenario dell’ideazione della ferrovia. In quell’occasione si è provveduto a far aggiungere una targa che rendesse il merito dovuto a Giuseppe Francesco Medail, l’imprenditore nativo di Bardonecchia che per primo sostenne la causa del Traforo e che morì senza veder realizzato il suo sogno. Così, se pur con clamoroso ritardo, si diede voce all’accorata protesta della sua vedova, che già all’indomani dell’inaugurazione, nel marzo del 1880, rimproverò l’amministrazione cittadina di non aver associato al monumento il nome del marito.

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Il Magnanimo si affaccia sulla “sua” piazza

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / L’idea di erigere un monumento in onore di Carlo Alberto risale al 1847 sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle riforme politiche che trovarono una formulazione costituzionale nello Statuto che porta il suo nome

Nel centro della piazza e rivolto verso Palazzo Carignano, il monumento si presenta su tre livelli. Sul più alto posa la statua equestre in bronzo del Re con la spada sguainata in atteggiamento da fiero condottiero. Al livello del piedistallo, che sorregge il ritratto equestre, sono collocate (all’interno di nicchie) le statue in bronzo in posizione seduta raffiguranti le allegorie del Martirio, della Libertà, dell’Eguaglianza Civile e dello Statuto. Al livello centrale sono collocati quattro bassorilievi che ricordano due episodi delle battaglie di Goito e di Santa Luciarisalenti alla Prima Guerra di Indipendenza, mentre gli altri due, rappresentano l’abdicazione e la morte ad Oporto di Carlo Alberto. Agli angoli del piano inferiore, infine, sono poste quattro statue in posizione eretta, raffiguranti corpi dell’Esercito Sardo, quali l’Artiglieria, la Cavalleria, i Granatieri e i Bersaglieri.

 

L’idea di erigere un monumento in onore di Carlo Alberto, detto il Magnanimo, risale al 1847 sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle riforme politiche che trovarono una formulazione costituzionale nello Statuto che porta il suo nome. Fu un comitato promotore, composto da illustri uomini politici e del mondo della cultura guidato da Luigi Scolari, seguito a ruota dal Municipio di Torino, ad ideare il programma di una pubblica sottoscrizione da sottoporre all’allora ministro dell’Interno Des Ambrois. Seguì un lungo e appassionato dibattito parlamentare volto anche alla individuazione del luogo più adatto ad accogliere il monumento, interrotto brevemente in seguito ai Moti del 1848. L’andamento del dibattito subì una repentina svolta con la morte in esilio di Carlo Alberto nel luglio 1849: da quel momento la commissione istituita per la realizzazione del monumento attribuì all’iniziativa “il valore assoluto di precetto morale e insegnamento perenne”.

Nell’agosto del 1849 l’iniziativa venne ufficializzata da un progetto di legge, uno stanziamento di 300.000 lire e l’apertura di un concorso pubblico. Con una legge del 31 dicembre 1850 la gestione del progetto e le decisioni relative al monumento passarono al Governo e venne infatti nominata, in seguito, una commissione presieduta dal Ministro dei Lavori Pubblici Pietro Paleocapa. Si dovette però attendere fino al 20 maggio del 1856 per ottenere, dalla Camera e dal Senato, il voto che sancì la convenzione con Carlo Marocchetti, lo scultore scelto dal Ministero dei Lavori Pubblici per la realizzazione dell’opera, e lo stanziamento dei fondi necessari per la sua esecuzione (675.000 lire). A Marocchetti, il Ministero riconobbe “la piena e libera facoltà di modificare d’accordo con il Ministero […] il disegno in tutti i particolari limitandosi però sempre all’ammontare della spesa”.

In seguito, fu sotto suggerimento di Edoardo Pecco (l’ingegnere capo del Municipio che seguiva la realizzazione di tutti i lavori di sistemazione della nuova piazza Carlo Alberto) che la statua venne orientata in asse con palazzo Carignano, in modo da poterla cogliere anche dalla piazza omonima attraverso il cortile aperto al passaggio pubblico.L’inaugurazione avvenne il 21 luglio del 1861, cioè pochi mesi dopo l’unificazione d’Italia, con cerimonia solenne, nella quale il capo del governo Ricasoli tratteggiò la figura di un re che aveva configurato e preparato i destini di una nuova Italia.  Per quest’opera a Marocchetti venne riconosciuta la Gran Croce dell’Ordine di San Maurizio.

In tempi recenti, la piazza ha attraversato fasi di vita e utilizzo comuni ad altre piazze storiche del centro cittadino. E’ stata percorsa dalle auto e poi successivamente resa pedonale. E’ una delle piazze più vissute dagli studenti, al punto da essere anche soprannominata “la piazzetta”. Ridisegnata con spazi verdi e raccordata con le vie Cesare Battisti e Lagrange, anch’esse pedonali, tutte insieme creano un perfetto ed elegante percorso tra i musei. Infatti sulla piazza Carlo Alberto si affacciano il Museo Nazionale del Risorgimento nel Palazzo Carignano (sede del primo Parlamento italiano) e la Biblioteca Nazionale, mentre in via Lagrange è situato il Museo Egizio.

Simona Pili Stella

I Templari in Val di Susa

 Andare in montagna significa anche scoprire la storia delle nostre vallate, dei nostri borghi, della gente che ci abita, di tradizioni e costumi che sembravano perduti ma che in realtà sono ancora vivi e presenti e ci raccontano storie che neanche conoscevamo.

Recarsi per esempio in Val di Susa, così vicina a Torino e così ricca di memorie storiche, significa ripercorrere fatti ed eventi che affondano le radici ben prima dell’era cristiana. Da Annibale che con 30.000 uomini e 37 elefanti da battaglia valicò nel 218 a.C. il Moncenisio o forse il Monginevro, ma non si escludono altri passaggi come sul Piccolo San Bernardo o addirittura sul Monviso, ad Augusto che a Susa, 2000 anni fa, di ritorno dalla Gallia, si fermò a Segusium (Susa romana) per fare la pace con le bellicose tribù delle Alpi Cozie. Da Costantino il Grande che nel 312, proveniente dalla Britannia e diretto a Roma, scese a Susa per sbaragliare le truppe dell’usurpatore Massenzio fino a Carlo Magno che alle Chiuse di Susa (le rovine delle fortificazioni sono ancora parzialmente visibili) sconfisse nel 773 i Longobardi di Desiderio che il torinese Massimo d’Azeglio ha illustrato in un prezioso bozzetto. Grande storia, grandi eventi hanno segnato la Val di Susa ma ci sono anche storie minori o anche solo oggetti e simboli che ci ricordano il passaggio da queste parti di personaggi altrettanto importanti. Come i Templari che spuntano ovunque, come i funghi in Val Sangone, e spesso vengono visti in luoghi dove in realtà non sono mai stati. E proprio una leggenda valsusina narra che i Templari sarebbero saliti alla Sacra di San Michele arrampicandosi, a piedi e a cavallo, sul monte Pirchiriano ottocento anni fa. I Cavalieri del Tempio si sarebbero ritrovati nell’antica abbazia per trattare il passaggio di alcuni monaci alla Confraternita esoterica e religiosa dei Rosacroce. Tre croci incise nella pietra accanto alla porta dell’Abbazia, la Porta di Ferro, dimostrerebbero l’attendibilità dell’incontro. È probabilmente solo un racconto popolare ma tra il Piemonte e i Templari, ordine religioso-militare fondato nel 1119, poco dopo la prima Crociata, c’è sempre stato un forte legame storico. Si sa infatti con certezza che i Templari furono presenti in molte città e paesi del Piemonte, tra cui, Cuneo, Alba, Ivrea, Moncalieri, Torino, Chieri, Casale, Vercelli e Novara. Anche in Val di Susa è stato registrato un certo via vai di templari. Da fonti storiche risulta che il più antico insediamento templare, risalente al 1170, fu presumibilmente quello di Susa e presenze templari sono state individuate nella vicina San Giorio, a Villar Focchiardo e a Chiomonte. Sorprendente e imprevisto è stato il ritrovamento negli anni Novanta, da parte di alcuni esperti guidati dalla studiosa Bianca Capone Ferrari, di alcune croci templari nel piccolo comune di San Giorio, alle porte di Susa. Una croce è murata nella facciata della canonica che in tempi antichi era quasi certamente una fortezza da cui si controllavano i movimenti nella valle attaversata dalla Dora Riparia mentre sull’arco del portale laterale di una cappella del XIII secolo, che si trova nei pressi della chiesa parrocchiale, risplende un’altra croce templare. Si ritiene pertanto probabile che a San Giorio fosse presente un presidio militare dei Cavalieri rosso-crociati a difesa della valle e del ponte sulla Dora. È stato finora impossibile accertare il luogo esatto dell’insediamento templare a Susa (forse si tratta della chiesa di Santa Maria della Pace sulla Dora), tuttavia esistono documenti che confermano la presenza in città di una “domus templi”, come dimostra la magnifica croce a otto punte scolpita in un fianco della cattedrale di San Giusto.

Filippo Re

(foto LIGUORI)