redazione il torinese

Le zucchine in carpione, gustosa tradizione

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Le zucchine, quelle verdi chiare, tenere e dolci, ricche di acqua e vitamine ideali per reintegrare i sali minerali

 

Le ricette devono essere veloci, facili da preparare, leggere ma allo stesso tempo saporite. E le zucchine, quelle verdi chiare, tenere e dolci, ricche di acqua e vitamine sono  ideali per reintegrare i sali minerali persi con la sudorazione, molto gradevoli nel gusto e versatili nelle diverse preparazioni. Un modo goloso per cucinarle e’ con una gustosissima marinatura.

Ingredienti:

 

1 kg.di zucchinette

1 cipolla bianca

2 spicchi di aglio

1 rametto di salvia

6 foglie di basilico

origano fresco

½ bicchiere di aceto di mele

½ bicchiere di olio evo

sale q.b.

Lavare le zucchine, spuntarle e tagliarle a tronchetti. In una larga padella soffriggere la cipolla e l’aglio affettati, aggiungere le zucchine e rosolare mescolando ripetutamente a fuoco vivace per 10 minuti, aggiungere gli aromi, salare e sfumare con l’aceto, proseguire la cottura per altri 2 minuti. Lasciar marinare in frigo per almeno un giorno. Servire freddo. Croccanti e gustose.

Paperita Patty

Faggeto Lario, l’estate del 1976 sull’altro “ramo” del lago di Como

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IL RACCONTO / di Marco Travaglini

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Faggeto Lario dista poco più di 15 chilometri da Como. In auto, una mezz’ora di strada. Avete presente «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi..» descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”? Bene: il nostro “ramo” è quell’altro. E’ lì che, con il pullman dell’Azienda Comasca Trasporti in servizio sulla tratta Como-Bellagio, passando da Blèvio e Torno, sono arrivato un pomeriggio d’agosto del 1976. Avevo diciott’anni e la mia destinazione era l’Istituto di studi comunisti “Eugenio Curiel”. Un tempo, dopo la Liberazione, la “scuola quadri” del PCI nel comasco portava il nome di “Anita Garibaldi” ed era  riservata alle donne. All’epoca, il PCI di Berlinguer teneva molto allo sviluppo di una politica culturale rivolta alla nuova generazione di militanti, funzionari e quadri intermedi che entravano a ingrossare le file del partito. Una grande importanza avevano le scuole di partito, la cui attività formativa si svolgeva attraverso l’organizzazione di corsi di base, presso le sezioni o le federazioni provinciali, oppure presso le strutture permanenti, tra le quali la più nota era l’Istituto di studi comunisti delle Frattocchie (dal 1973 intitolato a Palmiro Togliatti), in una frazione di Marino, località dei Colli Albani una ventina di chilometri a sud di Roma. Lì si formavano i quadri dirigenti, si insegnava l’arte della politica. Non si imparava solo la “linea”. Chi frequentava i corsi studiava storia, economia e altre materie ma, soprattutto, ci si formava sull’idea che far politica era una professione al servizio degli altri, di un ideale, di una causa. Insomma, una cosa seria. I corsi erano impegnativi e di lunga durata. I periodi di permanenza variavano da un anno a sei mesi fino a poche settimane. Il mio era un “corso estivo per giovani operai”, della durata di tre settimane che, praticamente, corrispondevano alle mie ferie. Le giornate venivano scandite secondo un programma preciso: ore 7, sveglia e riordino delle stanze; ore 7.55, inizio dei corsi; ore 12, pranzo e riposo; ore 15, discussione e studio; ore 19, cena e libera uscita (quando non capitava qualche riunione serale); ore 22, rientro. Su questo non si sgarrava. Una sera che, in tre, con l’auto di un compagno di Genova (una vecchia Simca 1000) andammo alla Festa de L’Unità di Bellagio, essendo tornati verso le 23 trovammo il cancello chiuso e dormimmo sotto i salici in riva al lago perché nel parco della scuola, dopo le 22, venivano sguinzagliati per la notte due cani piuttosto “mordenti” e non era il caso di mettere alla prova le nostre gambe e  le loro mandibole. Il direttore era l’ex senatore Giovanni Brambilla (Conti). Operaio, confinato, partigiano, in passato vicesegretario della Federazione milanese del Pci e segretario generale della Fiom provinciale milanese. Un uomo tutto d’un pezzo, gentile ma ferreo nell’applicare la disciplina. I docenti erano di grande livello. Stava per essere pubblicato dagli Editori riuniti “Economia politica marxista e crisi attuale”  dell’economista  Sergio Zangirolami, e si studiava con lui  sulle sue dispense. Il giornalista e scrittore Luciano Antonetti, amico e biografo di Alexander Dubcek, protagonista della Primavera di Praga e leader di quel “socialismo dal volto umano” soffocato dai carri armati sovietici nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, ci parlava di politica internazionale. Luciano Gruppi, intellettuale comunista di rango, vicedirettore della rivista “Critica marxista”, anticipò i contenuti di due volumi che sarebbero usciti di lì a poco: “Il compromesso storico” e “Il concetto di egemonia in Gramsci”. Insomma, per farla breve, era un corso impegnativo e, nello stesso tempo, intrigante. Imparavamo a mettere in ordine secondo una certa logica le intuizioni che avevamo colto nel muovere i primi passi in politica e questo ci dava una bella carica. Ma eravamo anche dei ragazzi, tra i diciotto e i ventiquattro anni, e amavamo anche divertici. Non racconterò gli scherzi che si possono immaginare, come – tanto per fare un paio d’esempi – lo zucchero infilato sotto le lenzuola di Mauro Z., operaio metalmeccanico di Carpi, che andava sempre a letto senza pigiama perché soffriva il caldo, o il sale nella minestra di Roberto P., studente di Lodi, che la sputò schifato in faccia a Luigi F., anch’esso studente ma di Verona, che gli sedeva di fronte nel refettorio. Il sabato o la domenica, a seconda delle condizioni del tempo, si andava in gita sul monte Palanzone, con una bella sgambata di qualche ora. Tra canti partigiani e pranzi al sacco, quelle gite rafforzavano il nostro cameratismo. Le nuotate nel lago erano una consuetudine dopo pranzo, prima che entrasse in azione la digestione del pasto che, a dire il vero, era alquanto frugale.  Ho sempre avuto una fifa blu nello spingermi dove non si toccava, quindi mi limitavo a quattro bracciate in orizzontale, poco distante dalla riva. Ma la cosa più straordinaria, e per certi versi tragica, capito’ a Bepi. Il cognome l’ho dimenticato, ma mi ricordo che svolgeva le mansioni di magazziniere in una distilleria di Bassano del Grappa. Quando arrivai in istituto a Faggeto Lario, Bepi era già lì da quindici giorni ed era molto nervoso. Non ci mettemmo molto a comprenderne le ragioni. A ridosso della scuola, appena oltre il muro, c’era una chiesa che un tempo era appartenuta alla stessa proprietà ma che il partito, dopo averla acquisita, con gesto generoso, aveva donato alla curia comasca. Del resto, che cosa ce ne facevamo di una chiesa? Chi aveva fede poteva tranquillamente frequentare le funzioni e queste erano di competenza della diocesi e non certo del PCI. Comunque il problema non era tanto la chiesa ma l’orologio del campanile che, grazie ad un meccanismo ad ingranaggi collegato ad una campana, segnava non solo le ore ma pure le mezze. E se, per il Manzoni, verso sera “si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, cha annunziava il fine del giorno. …” per il povero Bepi s’annunciava il calvario di un’altra notte in bianco perché quel suono gli impediva di riposare. Così, un bel giorno, mi pare di venerdì, calate le ombre della sera, ormai esasperato, armatosi di un possente martello e di due cunei di ferro, lunghi e spessi, si arrampicò come un gatto sul campanile. Giunto all’altezza delle lancette dell’orologio, fissò con forza i cunei nel muro, bloccando il meccanismo che – in tensione per l’impedimento – si ruppe, bloccando il meccanismo che attivava la campana con un forte “crack”. Così, dopo il blitz di Bepi, la notte trascorse in un silenzio irreale e così anche il giorno dopo fino a quando, avvertito del danno che aveva guastato l’orologio, il parroco diede in escandescenze, accusando “quei senza Dio di comunisti” di “aver tagliato le corde vocali alla cristallina voce della Chiesa”. Ma, non avendo prove, dopo un po’ di baillamme, la polemica si stemperò nel nulla. Cosa diversa fu invece l’inchiesta interna condotta dal direttore Brambilla che, superando il nostro muro del silenzio, ottenne da Bepi una piena confessione dopo che lo stesso aveva manifestato un repentino cambio d’umore, canticchiando una poco edificante canzoncina il cui ritornello prometteva di mandare a fuoco le chiese per poi, sulle macerie, costruire delle sale da ballo. Reo confesso, Bepi lasciò la scuola e tornò a Bassano mentre noi, per altri dieci giorni, continuammo il nostro corso di studi per poi tornare a casa. Così passai le ferie del 1976, tra amici e compagni, studiando e frequentando – quando si poteva, mettendo insieme i pochi spiccioli di cui disponevamo – l’Osteria dei Manigoldi, dove si poteva gustare la  petamura. Non saprei come definirla: sembrava  un dolce, una specie di budino, ma era anche un pasto completo , composto da farina, latte, zucchero e vino. Era molto consistente e nutriente, nonostante fosse un piatto povero. Sarà stata la fame, saranno i ricordi un po’ sbiaditi della gioventù, ma quel piatto tradizionale di Faggeto dal colore violaceo era proprio una bontà.

Il re di Superga

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L’indizio, ricostruito nella sua interezza assemblando come in un puzzle in sei frammenti , era abbastanza chiaro: “Fu nicola re di Su perga”. Strano, pensò Aurelio, mostrandosi perplesso. Il gerarca invece, parlando ad alta voce e tormentandosi il pizzetto che incorniciava il mento, esclamò: “Chi sarà mai questo Nicola? Probabilmente un nobile, imparentato con i Savoia, oppure di qualche altra casata che ha avuto in eredità o come riconoscimento per qualche servigio, il titolo di re di Superga

Aurelio Gaspertelli, di professione avvocato, si considerava un principe del foro ma chi ben lo conosceva non esitava a definirlo piuttosto un azzeccagarbugli. Frequentando un certo ambiente a Torino, facendo leva sulle doti oratorie che non gli difettavano, Aurelio era noto anche per un’altra passione: la ricerca storica locale. Leggeva antiche carte e polverosi volumi, impegnandosi in minuziose ricerche tese a  svelare i tanti misteri di Torino, la sua città.  Una storia, quella della capitale sabauda, che si estendeva per più di due millenni, dagli insediamenti dei Taurini all’epoca romana fino alla gloria e al potereai tempi in cui divenne capitale del ducato di Savoia. A dar manforte al Gaspertelli c’era Ottorino Grandini, un ex bidello della scuola elementare dell’Abbadia di Stura che, riconoscente all’avvocato per averlo tratto dagli impicci per una vecchia vicenda di liti con i vicini, si era offerto come assistente del legale. Uomo tuttofare , sempre disponibile, nonostante la modesta cultura , si adoperava in ogni modo per venire incontro alle molteplici esigenze del suo principale. E tutto questo per due pranzi caldi, il pagamento della pigione di una stanza da un’anziana vedova, in una casa di ringhiera in Barriera di Milano, e poche lire di compenso.  Cosa che ,in tempi come quelli, nella seconda metà degli anni trenta, non andava per nulla disprezzata.

Fu proprio Ottorino a portare la notizia che nel quartiere Sassi, in località Mongreno, erano stati rinvenuti i resti di una strana  lapide , a prima vista molto interessante. Aurelio , incuriosito,  volle subito conoscere i particolari. Ottorino lo informò che dai frammenti più grandi si poteva leggere con facilità un’iscrizione che rimandava certamente alla storia cittadina. Purtroppo della scoperta era stato avvisato anche Italo Nerofumi, uno spocchioso gerarca fascista che si piccava di saperne una più del diavolo in ogni materia. E, ovviamente, anche in campo storico. L’ispettore del Partito Nazionale Fascista, agghindato di nero come un corvo, era già piombato sul posto e appena vide sopraggiungere l’avvocato, gli sì parò davanti ostentando la più classica delle pose fasciste. Piantato a gambe larghe , le mani sui fianchi, gli occhi spiritati, le mascelle all’infuori e le labbra turgidamente protese, Italo Nerofumi, con voce stentorea e frasi secche come scudisciate, lo apostrofò:  Guarda, guarda..l’avvocato. Ma cosa ci fa qui lei? Non doveva essere al confino?”. Il gerarca, ghignando, si riferiva alle simpatie politiche del Gaspertelli, sospettato di essere amico dei comunisti dopo aver difeso, anni prima, alcuni lavoratori dall’accusa di violenze per aver difeso dalle camicie nere la sede de L’Ordine Nuovo, il giornale di Gramsci, in via Arcivescovado. “Se è venuto qui a ficcare il naso sappia che non c’è roba per lei. Qui c’è materia per una indagine storica che può riservare sorprese importanti e solo uno come me può scoprire l’arcano. Le è chiaro?”, sentenziò Nerofumi guardando torvo l’avvocato.

Comunque, proprio al fine di manifestare la sua superiorità, non impedì all’avvocato di assistere al suo, come amava dire, “operare scientifico”.  L’indizio, ricostruito nella sua interezza assemblando come in un puzzle in sei frammenti , era abbastanza chiaro: “Fu nicola re di Su perga”. Strano, pensò Aurelio, mostrandosi perplesso. Il gerarca invece, parlando ad alta voce e tormentandosi il pizzetto che incorniciava il mento, esclamò: “Chi sarà mai questo Nicola? Probabilmente un nobile, imparentato con i Savoia, oppure di qualche altra casata che ha avuto in eredità o come riconoscimento per qualche servigio, il titolo di re di Superga”.  Un bel mistero sul quale s’interrogò per due giorni e due notti, consultando molti documenti nei quali, però, non si trovava traccia di quella storia. Nessun titolo reale era affiancato alla celebre collina  dove era stata edificata l’omonima Basilica per soddisfare il voto che Vittorio Amedeo II fece davanti alla statua della Madonna delle Grazie in un momento difficile per il regno sabaudo. Nel 1706 Torino era assediata dalle truppe francesi. E quel Nicola, scritto con l’iniziale minuscola? Come mai il nome dell’uomo, certamente  d’alto lignaggio tanto da giustificarne il titolo reale, era riportato in modo così anonimo e quasi meschino, evitando la più consona e per certi versi obbligata iniziale maiuscola?

Mistero. Anzi, un mistero così fitto che nemmeno la commissione culturale della federazione fascista torinese riusciva, nonostante lo spremere delle meningi dei suoi componenti, a venirne a capo. All’avvocato Gaspertelli un dubbio, in verità, era venuto. Ma, per non passare dei guai, l’aveva tenuto per se, soffocando quella vocina che gli suggeriva di spifferare ai quattro venti l’ipotesi che si era fatto. Accompagnato da Ottorino si era recato ai Sassi, per un sopralluogo. Insieme, di buon passo, avevano percorso un bel tratto a fianco della storica tranvia a dentiera Sassi – Superga  che era unica in Italia nel suo genere. Si trattava della continuazione di una tradizione ultracentenaria iniziata il 26 aprile 1884 con la prima corsa effettuata dal trenino, mosso da un motore trainante una fune d’acciaio che scorreva parallelamente al binario su pulegge sistemate lungo  tutto il percorso. La linea da poco, era stata  trasformata in tranvia a dentiera con trazione a rotaia centrale. Un’opera imponente, lunga circa tre chilometri tra la stazione di Sassi, in piazza Modena, e quella di Superga , 425 metri più in alto. Quante volte c’erano andati fin lassù, ad ammirare lo splendido panorama su Torino e le Alpi, visitando la Basilica edificata dallo Juvarra e  le tombe reali dei Savoia. I lavori si erano protratti per un bel po’ e …l’illuminazione fu tale che ogni dubbio venne spazzato via. Poteva, lui, uomo di legge e di cultura, lasciar perdere un’occasione così ghiotta di sbertucciare quel fascistone ignorante del Nerofumi? A ben guardare non gli conveniva affatto; anzi, era piuttosto un azzardo che avrebbe portato guai certi e ben poche soddisfazioni. Ma fosse stata anche una piccola, seppur magra e momentanea rivalsa, si disse che sì, ne valeva la pena. Così, pensò a come procedere senza compromettersi troppo e rischiare di finire dritto al confino. La soluzione venne offerta dal fido Ottorino che aveva un nipote che lavorava come garzone al Caffè dei Portici, proprio davanti alla sede della Federazione Fascista.

Ogni giorno, e soprattutto in quei giorni, dal Caffè venivano forniti dei panini imbottiti al gruppo di “storici” impegnati a decifrare la  lapide misteriosa. Ad Albertino ( questo era il suo nome) l’avvocato raccontò cosa dovesse dire e il ragazzino, furbo e svelto, non perse tempo a mettere in atto il piano. Alla prima occasione in cui, dal Caffè, vennero inviati i generi di conforto alla sede fascista, si presentò con i panini davanti alla sala delle riunioni. Bussò e , consegnando le vivande, sbirciò il tavolo sul quale i reperti erano stati allineati. A quel puntò sbottò con un “Ma io l’ho già vista quella scritta!”. Tutti si voltarono a guardarlo, increduli. E il ragazzino aggiunse: “E’ quella della funicolare di Superga!L’hanno tirata giù quando hanno iniziato i lavori per la nuova tranvia”. Gli “storici” si guardarono l’un con l’altro e poi, rileggendo la composizione dei frammenti, il professor Daodatici esclamò: “ Buon Dio, ha ragione questo giovinetto. E’ l’insegna della “dentiera”. Altro che mistero, mio caro Nerofumi. Che non si sappia in giro la figura che abbiamo fatto..”. Il gerarca, scuro in volto come l’orbace, masticò amaro e sciolse in quattro e quattr’otto la “commissione” d’inchiesta, chiedendo ( e ottenendo) l’impegno al più assoluto riserbo. Albertino ci guadagnò una banconota da due lire, l’avvocato la soddisfazione di aver fatto fare una magra figura al Nerofumi, il gerarca – con la bile a mille – la promessa dell’assoluto silenzio su quella vicenda poco esaltante. Nel frattempo, i torinesi continuarono a salire a Superga con la tranvia. Senza curarsi di sapere chi fosse quel Nicola che aveva fatto scervellare le migliori(??) intelligenze della città.

 

Marco Travaglini

La bottiglia senza “buscion”

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La primavera stava per lasciare, senza grandi rimpianti, il passo all’estate. Grandi nuvole nere s’addensavano sulla vetta delle montagne. L’aria si fece elettrica, segno che il temporale stava per scatenarsi. Audenzio Remolazzi , intento a falciare il fieno nel prato, guardò il cielo che si faceva sempre più scuro e s’affretto a raccogliere quant’aveva tagliato per evitare che la pioggia imminente facesse marcire il maggengo.

Tra sé e sé disse : “Ah, quando il monte mette il cappello, conviene lasciare la falce e metter mano al rastrello”. E diede voce anche a Bartolo che stava riposandosi appoggiato con la schiena  al tronco di un melo. “Oh.. Sacrebleu”, fece quest’ultimo, stirandosi. “Ho dormito come un sasso Colpa della frittata con le cipolle che è come una droga; mi piace ma mi crea un peso sullo stomaco che chiama l’obbligo di un riposino”. Guardò il cielo e borbottò: “Secondo me, Audenzio, è un temporale varesotto, poca acqua e gran casotto”. Tanto rumore per nulla, dunque? Nel dubbio, per non saper leggere e scrivere, s’impegnarono entrambi a rastrellare il fieno per poi raccoglierlo nel covone che andava coperto con una cerata. Ma più che dal cielo e dal temporale, il rumore più forte veniva dalla strada che saliva verso la Contrada delle Ciliegie. Stava passando una moto Guzzi, guidata dal proprietario, tal Arturo Brilli. Pareva un aeroplano intento a rullare sulla pista prima del decollo.” Guardalo là, l’Arturo. Sta passando con la sua moto taroccata che fa un gran fracasso e poca strada. Guarda che scia di fumo che lascia! Per me gli manca  qualche rotella in testa. Va sempre in giro colorato come l’Arlecchino di carnevale, cantando a squarciagola le canzoni d’osteria. Ah, no c’è più religione. Son diventati tutti matti”.

 

Audenzio Remolazzi, in pensione dopo quasi quarant’anni passati in fabbrica, era fatto all’antica. Scuoteva la testona per mostrare tutto il disappunto per le abitudini di quel “ragazzaccio” che non aveva nessuna voglia di lavorare e, giunto ormai alla soglia dei quarant’anni, non riusciva a smettere di essere quel che era: un pelabròcch, un buono a nulla. Da una settimana i suoi vecchi genitori erano partiti per il mare della Liguria con il viaggio organizzato da Don Goffredo per i pensionati della parrocchia e lui che faceva? Se la spassava, avanti e indietro, a zonzo. “E’ proprio vero il proverbio: via il gatto, ballano i topi. Eh,sì. E quel topo lì, in assenza dei suoi che lo frenano un po’, si scatena a ballare giorno e notte”. Remolazzi, appena mi ha visto uscire dal bosco con in mio bastone da passeggio, ha subito attaccato bottone anche con me. “Ma l’ha visto l’Arturo, quella canaglia? Pensi che ieri sera dava del tu al prevosto come se fossero vecchi amici. Io glielo avevo detto a don Goffredo, di non dargli troppa confidenza. Eh sì, che glielo avevo detto; la troppa confidenza fa perdere la riverenza. Ma lui, uomo di chiesa sempre in giro a cercar di salvare anime, niente. Mi ha risposto di aver pazienza, di aver fiducia che il “ragazzo, crescendo, capirà come comportarsi”…Ha capito? Deve ancora crescere, quel furfante del Brilli.

 

Roba da matti”. A dire il vero era difficile dar torto a Remolazzi ma che si poteva fare? Se non erano riusciti i suoi genitori a “raddrizzarlo” fin da piccolo, figurarsi ora che aveva passato i quaranta e aveva la testa più matta che mai. Tra l’altro, aveva il vizio di bere. Era uno di quelli che – per far in fretta a tracannare – stanno sempre con la bottiglia “senza buscion”, senza tappo. Pensate che una volta si era preso una sbornia tale che scambiò la barca a remi di suo padre per un motoscafo e gridò a tutti che gli avevano rubato il motore. Si recò persino al commissariato dei Carabinieri per sporger denuncia, picchiando pugni sul tavolo e urlando come una bestia, tanto che al povero maresciallo Valenti e al suo fido aiutante, il  brigadiere Alfio Romanelli, non restò altra soluzione che sbatterlo in gattabuia per qualche ora, finché gli si diradassero i fumi dell’alcool. Visto che nei circoli, nei bar e nelle osterie del paese e dei dintorni si guardavano bene dal dargli da bere perché esagerava e dava in escandescenze, il Brilli, tenendo fede – ironia della sorte – al suo stesso cognome, pigliava il treno o il battello e andava a “tracannare” in altri lidi, cambiando destinazione di volta in volta.

A chi cercava di moderarlo, come è capitato talvolta anche a me, rispondeva che “Quando c’è la sete, la gamba tira il piede”. Un modo per dire che, pur di soddisfare il proprio bisogno, non contava la distanza. Il maresciallo Valenti era stato testimone di un altro episodio. Un sabato sera, di turno con una pattuglia per i consueti controlli sul rettilineo che porta dal paese a quello confinante, più o meno all’altezza della seicentesca chiesa della Madonna del Carmine, incrociò il motocarro di Giovanni Guelfi con a fianco Arturo. La cosa strana era che quel motocarro era privo del vetro anteriore e in quelle condizioni non avrebbe potuto circolare. Il mezzo del Guelfi, a causa del gelo di quell’inverno che tutti ricordavano tar i più rigidi degli ultimi anni, aveva subito dei danni e il più serio tra questi era l’aver sottovalutato la crepa che, in meno di un amen, aveva provocato la rottura in mille pezzi del vetro.  Pur essendo ormai sul finire della primavera, non aveva ancora provveduto a sostituito. Andava in giro così, faccia al vento, evitando di circolare nei giorni di pioggia. Quella sera, appena videro l’Alfetta dell’Arma sul ciglio della strada, imprecarono alla sfortuna. Guelfi voleva fare una inversione a “u“ e tornare indietro.

Fu Arturo adavere, tuttavia, una brillante idea: far finta che il vetro fosse al suo posto, integro. E come? Con il più semplice degli accorgimenti: facendo finta di pulirlo con un fazzoletto. Così passarono, con noncuranza, davanti agli attoniti carabinieri. Mentre Giovanni guidava, fischiettando il ritmo di una polka, Arturo s’impegnò a “pulire” l’inesistente vetro con un grande fazzoletto bianco. Il maresciallo Valenti, a bocca aperta, se li vide passare davanti al naso con il fazzoletto svolazzante e i capelli scompigliati dal vento. Il dubbio che l’avessero fatto apposta, con quel candido fazzoletto che – agitato in aria – sembrava v
oler far “marameo” ai tutori dell’ordine, non abbandonò mai il maresciallo. Ma volete mettere l’alzata d’ingegno, il tocco d’artista, la prova di disperato e incosciente “coraggio”? Così la raccontò, scuotendo la testa, Audenzio Remolazzi. Nel frattempo, con l’aiuto di Bartolo, avevano raccolto e messo al sicuro il fieno. Appena in tempo per evitare il peggio, considerato che non si trattò di un “temporale varesotto” ma di un acquazzone in piena regola
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Marco Travaglini

Coppa deliziosa alle fragole

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Fragole che passione!  Offriamo a fine pasto ai nostri ospiti questo scenografico dolce delizioso e di semplice realizzazione

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Dosi per 4 persone:

½ Kg.di fragole

1 Banana

4/5 biscotti savoiardi

2 bicchierini di limoncello

200 ml di panna da montare

Crema pasticcera

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Sul fondo di una coppa in vetro trasparente mettere i savoiardi spezzettati bagnati con 1 bicchierino di limoncello (allungato con un bicchierino di acqua). Preparare una crema pasticcera con 3 tuorli, ½ litro di latte, 1 bustina di vanillina, 20gr. di farina, 60 gr.di zucchero e 1 bicchierino di limoncello. Lasciar raffreddare.

Tagliare le fragole ben pulite e la banana a fettine. Iniziare a decorare la circonferenza della coppa con le fette di fragole, quando terminato mettere le restanti fragole nella coppa livellando la superficie e procedere nello stesso modo con la banana.

Montare la panna con un poco di zucchero a velo.

Stendere sullo strato di banane la crema pasticcera raffreddata e completare con uno strato di panna montata. Decorare a piacere.

PaperitaPatty

 

Rotolini di salmone e rucola

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La nostra  proposta e’ un antipasto goloso, un mix di sapori equilibrati ed originali dall’elegante presentazione. Un’idea perfetta e stuzzicante di semplice e veloce realizzazione che si presta a essere preparato in anticipo, ideale per un buffet o un aperitivo.

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Ingredienti

200gr. di salmone affumicato a fette

80gr. di robiola morbida o Philadelphia

Rucola, zeste di limone, radice di zenzero q.b.

Sesamo, sale, pepe q.b.

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Formare un rettangolo sovrapponendo le fette di salmone affumicato su di un foglio di pellicola per alimenti. In una ciotola amalgamare il formaggio con lo zenzero e la buccia di limone grattugiati, aggiustare di pepe. Spalmare la crema di formaggio sul salmone, coprire con la rucola precedentemente lavata ed asciugata poi, aiutandosi con la pellicola, avvolgere il salmone dal lato piu’ lungo, formare un rotolo ben stretto, riporre in frigo per qualche ora. Tagliare il rotolo in tanti cilindretti e farli rotolare da tutti i lati nei semi di sesamo. Conservare in frigo, servire fresco.

Paperita Patty

Filetti di merluzzo alla mediterranea

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Il merluzzo e’ un pesce di mare molto presente sulle nostre tavole per la facilita’di preparazione sia fresco che surgelato. Ricco di proprieta’, alta percentuale di vitamine A e D, proteine e pochi grassi, si presta a ricette fantasiose sia a pranzo che a cena. La sua polpa bianca, morbida e delicata sara’ ancor piu’ apprezzata in questa ricetta profumata ed appetitosa.

 

Ingredienti:

 

400gr. di filetto di merluzzo fresco o surgelato

1 bicchiere di polpa di pomodoro

½ bicchiere di vino bianco secco

1 cipolla

1 spicchio di aglio

Olive taggiasche

2 cucchiai di capperi dissalati

1 peperoncino

Origano

Olio evo q.b.

 

In una larga padella soffriggere in due cucchiai di olio la cipolla e l’aglio affettati, aggiungere i filetti di pesce, lasciar insaporire poi, sfumare con il vino bianco. Aggiungere la salsa di pomodoro, le olive, i capperi, il peperoncino frantumato, l’origano, aggiustare di sale e cuocere per circa 15 minuti o sino a quando la salsa si sara’ addensata. Servire caldo preferibilmente con pure’ di patate.

 

Paperita Patty

La tavola della tradizione: zuppa contadina con cavolo nero

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Da assaporare ben calda con fette di pane casereccio e un filo d’olio crudo. Una bonta’ di zuppa!

Le foglie bitorzolute del cavolo nero sono perfette per realizzare questa corroborante e salutare zuppa ricca di sostanze antiossidanti, vitamine e sali minerali. Pochi ingredienti poveri della tradizione contadina, gusto intenso ed aromatico, da assaporare ben calda con fette di pane casereccio e un filo d’olio crudo. Una bonta’ di zuppa !

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Ingredienti

 

6 foglie di cavolo nero

250gr. di fagioli borlotti secchi

150gr. di zucca

1 cipolla,1 spicchio di aglio

2 carote

2 coste di sedano con le foglie

2 patate

50gr. di pancetta

olio evo, sale, pepe, 3 semi di anice

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Cuocere i fagioli in pentola a pressione per circa un’ora in un litro d’acqua con mezza cipolla, una carota, le coste di sedano e il sale. Tenere da parte un mestolo di fagioli e passare i rimanenti al passaverdura con le verdure e il brodo. Tritare la carota e la cipolla rimasti con l’aglio e la pancetta, soffriggere in poco olio. Unire il passato di fagioli, le foglie di cavolo nero (private della costa bianca centrale) ridotte a listarelle, la zucca, le patate tagliate a dadini e i semi di anice, aggiustare di sale e pepe. Mescolare e proseguire la cottura a fuoco basso per un’ora circa. Servire bollente con fette di pane casereccio.

 

Paperita Patty

 

Una gustosissima torta salata di zucca

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D’autunno e inverno una ricetta con la zucca e’ d’obbligo.

Innumerevoli sono le preparazioni che si possono realizzare con la zucca, regina indiscussa della stagione autunnale e invernale, gustose zuppe, cremosi risotti, dolci delicati e deliziose “torte salate”. Perfette da preparare in anticipo le torte racchiudono, in un fragrante guscio di pasta sfoglia,  un vellutato e appetitoso ripieno, ideale per uno sfizioso antipasto.

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Ingredienti

 

1 disco di pasta sfoglia pronta

800gr. di zucca fresca

250gr. di ricotta vaccina

50gr.di parmigiano grattugiato

2 cucchiai di gorgonzola cremosa

1 piccolo porro

Un pizzico di noce moscata

Poco latte

Sale e pepe q.b.

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Pelare e lavare la zucca, tagliarla a pezzetti e cuocerla a vapore. Lasciarla scolare per perdere l’acqua in eccesso poi, passarla al passaverdura. In una padella con una noce di burro, stufare la parte bianca di un piccolo porro,  aggiungere il passato di zucca, mescolare e lasciar insaporire per alcuni minuti. Srotolare la pasta sfoglia, sistemarla in una tortiera da forno e bucherellare il fondo. In una terrina mescolare la ricotta con il parmigiano, due cucchiai di gorgonzola, la noce moscata, il sale e il pepe, aggiungere il passato di zucca e versare nella tortiera. Ripiegare i bordi di pasta e  spennellarli con un poco di latte, infornare a 200 gradi e cuocere per 30 minuti circa.

 

Paperita Patty

Lasagne ai sapori dell’orto

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Una lasagna vegetariana “light”, priva di besciamella. Un piatto leggero e delicato composto da pochi e semplici ingredienti

 

Vi propongo un primo piatto dal gusto solare, una lasagna vegetariana “light”, priva di besciamella. Un piatto leggero e delicato composto da pochi e semplici ingredienti dal sapore gustoso. Una versione piu’ leggera della classica lasagna. Verdure sfiziose che creano un gusto ricco senza l’utilizzo di carne in un morbido incontro di sapori. Perfetta per la primavera e l’estate, elegante delicata, squisita per tutti.

 

Ingredienti:

 

1 confezione di pasta fresca per lasagna (pronta in forno)

2 melanzane

4 zucchine

2 confezioni di sottilette “fila e fondi”

Sugo di pomodoro q.b.

Basilico q.b.

Olio evo q.b.

 

Preparare un sughetto di pomodoro (fresco o pronto) con aglio, cipolla, basilico e sale. Cuocere lasciandolo abbastanza liquido. Grigliare le melanzane e le zucchine precedentemente lavate ed affettate. Ungere una teglia da forno, versare sul fondo tre cucchiai di salsa di pomodoro e stendere bene. Sistemare le sfoglie di pasta sino a coprire il fondo, fare uno strato di melanzane, sale, sottilette a pezzi, salsa e un filo di olio. Proseguire con le altre sfoglie alternando melanzane e zucchine sino ad esaurimento degli ingredienti. Infornare a 200 gradi per circa 30 minuti.

 

Paperita Patty