Dal “bel Danubio blu” al jazz sui Navigli

Il racconto di Marco Travaglini

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Appoggiato alla balaustra seguiva il lento scorrere del Danubio sotto il ponte di Catene. Dalla collina di Buda lo sguardo poteva perdersi fin oltre Pest, dove l’orizzonte coincideva con la grande pianura ungherese. Il cielo plumbeo minacciava di scaricare da un momento all’altro tutta la pioggia che gonfiava le nuvole. Era già stato una infinità di volte, a Budapest. Quando aveva voglia di star solo andava lì. Come d’abitudine aveva preso una camera all’ Hotel Parlament , nel V° distretto di Budapest, nel cuore della città, all’angolo delle vie Kálmán Imre e Vadász, a pochi passi dal Parlamento. Da lì, in poco tempo, poteva raggiungere il piazzale degli Eroi o la piazza Petofì, passeggiando. Gli capitava spesso di restare, pensieroso, davanti al monumento delle vittime della rivoluzione del 1956, a fianco dell’imponente  Parlamento, classico esempio di architettura neogotica dell’800. Era ormai da un mese nella capitale magiara. Amava questa città divisa dal “bel Danubio blu” e unita dai sei ponti che attraversavano il grande fiume  da una riva all’altra. Li aveva percorsi tante volte, a piedi e in auto. Gli capitava di ricordarne i nomi  a memoria, come in uno scioglilingua. Il Ponte Árpád, a nord dell’isola Margherita, lungo quasi due chilometri, e il Ponte Margherita, costruito tra il 1872 e il 1876 allo scopo di collegare l’isola che portava lo stesso nome con le circonvallazioni Santo Stefano a Pest e Margit a Buda. E poi il preferito, lo Széchenyi Lánchíd, il Ponte di Catene. Era stato il primo ponte stabile di collegamento tra Buda e Pest, costruito nel 1849 secondo i progetti dell’ingegnere inglese Clark, che fece importare dall’Inghilterra anche il ferro.  Non dimenticava certo i  ponti Elisabetta , Petofi  e  – per finire – il Ferenc József híd, il Ponte Francesco Giuseppe, che nel 1896 – in occasione del Millennio dell’Ungheria e dell’inaugurazione – piantò con tutta l’energia che aveva in corpo l’ultimo chiodo d’argento sul ponte. Quante volte gli era capitato di guardare in direzione dei due punti più alti di questo ponte lungo più di trecento metri, dove erano  stati collocati quattro “turul”, le mitologiche aquile nere ungheresi? Tante, mai troppe. Amava l’aria fumosa e calda dei caffè di Budapest, dov’era  custodita gelosamente la tradizione mitteleuropea, dove si respirava un’atmosfera unica, tipica di città come questa o come Vienna, Praga, Trieste. Un mondo ricco di sapori e profumi diversi, uniti e fusi con il brusio delle voci in sottofondo. Quando capitava di guardare , al tramonto o con le prime luci dell’alba, l’acqua scura che passava sotto i ponti , pensava alle parole di Claudio Magris … “… Il Danubio è il fiume lungo il quale s’incontrano, s’incrociano e si mescolano genti diverse…È il fiume di Vienna, di Bratislava, di Budapest, di Belgrado, della Dacia, il nastro che attraversa e cinge , come l’Oceano cingeva il mondo greco, l’Austria asburgica, della quale il mito e l’ideologia hanno fatto il simbolo di una Koinè plurima e sovranazionale, l’impero il cui sovrano si rivolgeva “ai miei popoli” e il cui inno veniva cantato in undici lingue diverse. Il Danubio è la Mitteleuropa tedesca-magiara-slava-romanza-ebraica…”. 

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Con gli amici Imre e Sandor non si era mai tirato indietro davanti alla cucina ungherese. Ricordava le risate quando chiese per la prima volta di poter mangiare il goulash , pensando che si trattasse di uno stufato e invece si ritrovò nel piatto fondo una zuppa densa, preparata con grande maestria. Nelle vecchie cantine di Pest imparò a gustare la panna acida,  ingrediente indispensabile per gustare l’effetto piacevole e cremoso dei cibi. E poi il pollo con la paprika, gli stufati fatti in casa ,  i pesci d’acqua dolce – ricordava con un certo piacere il luccio grigliato e la trota con le mandorle – , lo straordinario fegato d’oca che – cotto al forno, grigliato, freddo o caldo- lascia sul palato un traccia indimenticabile. E il Tokaj , che bevevano nel centro storico, alla Boutique des Vins , al numero 12 di via József Attila utca. Un vino straordinario, molto amato da Luigi XIV, il Re Sole, che gli diede il titolo onorifico di “vino dei re, re di vini”. Quella mattina si svegliò di soprassalto. Aveva dormito molto male, forse a causa della cena che sentiva ancora pesargli sullo stomaco. “ Ogni volta ci ricasco. Non dovrei nemmeno guardarli i cibi grassi e speziati ma poi..”. Parlava da solo, con lo specchio che rifletteva l’immagine di un volto sofferente, un po’ scavato, con due occhiaie scure e profonde e  un filo di barda ispida. No, non andava per niente bene. Doveva rallentare gli impegni, prendere fiato. Anche le due crisi cardiache di sei mesi prima erano state archiviate troppo in fretta, senza ascoltare il campanello d’allarme che veniva dal suo corpo. “ Fermati, stai attento.. Non tirare la corda,Marco”. Era come se una vocina l’avesse messo in guardia ma lui, testardo e sordo, aveva fatto finta di nulla. Salvo poi, con quelle fitte a trafiggergli il cuore come una lama, trovarsi per strada piegato sulle ginocchia, ansimante. E solo. Fortuna che quel tassista aveva visto la scena e non si era intimorito nel soccorrere uno sconosciuto che stava boccheggiando come un ubriaco sul ciglio della strada. E, pur salvando così la pelle, aveva continuato a fare di testa sua, a correre su e giù per l’Europa. Quella vita sregolata era stata la causa della separazione da Akiko Okada, la donna con cui era stato sposato per quasi otto anni. Bella, intelligente,  l’aveva conosciuta a Ginevra dove lavorava come interprete al consolato del paese del Sol Levante. Era rimasto come fulminato da lei e nel giro di poche settimane, avevano deciso di mettersi insieme. Per un paio d’anni le cose andarono benissimo poi il rapporto si sfilacciò sempre di più, fino ad esaurirsi del tutto. Da allora, per scelta, aveva evitato accuratamente di impegnarsi seriamente sul piano sentimentale. Era una scelta, quasi una forma di difesa, per se stesso e per chi – eventualmente – gli stava vicino. Così, a poco a poco, era diventato sempre più umorale, scostante e solitario. Guardò l’orologio. Erano appena passate le quattro del mattino del 27 settembre. Fuori non pioveva più. Ormai sveglio, s’infilò sotto la doccia e in poco  di mezz’ora era già nella hall dove, dalla reception, ritirò le chiavi del fuoristrada.  Erano le 11 quando, varcata la frontiera austriaca, entrò nell’area dell’aereoporto di Linz. Il volo per Milano era in programma per il pomeriggio. Nel capoluogo lombardo, all’indomani, doveva svolgere una relazione a un convegno sui confini europei, tra l’est e l’ovest. E a lui toccava la parte più complessa, raccontando la realtà dei Balcani.

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Linz era bella sotto il cielo terso del mattino. Solo uno sbuffo di nuvole pareva turbare tutto quell’azzurro che solo il cielo di fine estate sapeva offrire. L’aeroporto era affollato. Un via vai di turisti in partenza dopo l’ultimo turno di vacanza, prolungatosi fin oltre la stagione normale, complice il bel tempo che quell’anno dilatava l’estate e autorizzava a sperare in un ottobre soleggiato e mite anche in Austria. Il vecchio DC9 era già sulla pista, in attesa dei pochi passeggeri. Del resto era un volo riservato a non più di 20 persone che dovevano raggiungere l’aerostazione di Malpensa entro le 16  pomeridiane. Lanciando un ultimo sguardo ai campi coltivati con regolarità e meticolosa attenzione e alle nuvole che sfumavano l’orizzonte verso est, sospirò  trattenendo con una mano il fascio di giornali ed aggiustandosi, con l’altra, il bavero dell’impermeabile beige. Quando viaggiava all’estero, soprattutto in quella stagione e principalmente nell’area balcanica o nei paesi della mitteleuropea, amava vestirsi così, informalmente. Giacca di velluto, leggera. Pantaloni comodi e camicia non abbottonata sul collo ( niente cravatta, possibilmente). E l’immancabile impermeabile stile Humphrey Bogart che aveva acquistato  proprio a Budapest vent’anni prima. Quasi non s’accorse del volo. Appena l’aereo iniziò a rullare sulla pista s’addormentò. Gli accadeva sempre. Non aveva paura di volare, anzi, al contrario, le vibrazioni dell’aereo gli conciliavano il sonno. Era una specie di ninna-nanna tecnologica che lo strappava via dalla realtà, catapultandolo nel mondo dei sogni. E di solito era la voce un po’ citofonata dell’assistente di volo che annunciava l’atterraggio a ridestarlo. E così fu anche questa volta. A Malpensa prese  un taxi (niente auto blu e autisti: lo infastidivano) e dalla borsa sfilò la cartellina del convegno, sulla quale spiccava – in rosso – il titolo: “L’abbattimento dei confini europei”.  “Strano titolo”, pensò. “Caro onorevole Travas – disse a se stesso, rimuginando – Più che abbatterli, i confini, stanno costruendone di nuovi. Non ci saranno più le barriere delle dogane ma restano alti i muri nelle teste e quelli sono i più duri da sbatter giù”. E qualcuno pensava nuovamente al filo spinato, ai cavalli di frisia, ai muri di cemento armato per bloccare migranti e stranieri. Quando gli capitava di pensare ai suoi impegni si scopriva a parlare da solo, l’onorevole Marco Travas. Un titolo che non amava ostentare, innervosendolo. Sessantenne quasi calvo, alto e piuttosto massiccio, era stato eletto al parlamento europeo nel cartello progressista dopo aver passato più di vent’anni ad impegnarsi nelle battaglie civili. Era stato il rifiuto della guerra e della violenza  a spingerlo verso un impegno più diretto. Prima come giornalista, inviato di un noto giornale nei paesi del nord Africa che si affacciavano sul Mediterraneo e poi, freelance nei Balcani durante la guerra. Era stato a Tuzla, Mostar, Srebrenica, Sarajevo. Quegli anni erano stati decisivi per compiere il passo decisivo verso l’impegno a tempo pieno. Toccò anche a lui, giornalista senza padroni, girare lungo i confini della Bosnia  sentendosi soffocato dall´impotenza. Da allora, fino all’elezione al parlamento europeo, non aveva smesso di darsi da fare. Per questo, quando l’avevano contattato per il convegno a Milano, non aveva esitato a dire di sì. La sala del convegno era al  31° ed ultimo piano del “Pirellone”, in piazza Duca d’Aosta, a pochi passi dalla stazione Centrale. Lì, in cima al più alto grattacielo d’Italia , si sarebbero confrontati i diversi relatori. Arrivò, come sempre, con largo anticipo dopo aver telefonato e concordato gli ultimi dettagli. Appena uscito dall’ascensore venne accolto dal sorriso di una bella ragazza. Rimase colpito subito dai suoi occhi neri, lucenti. E balbettò quasi il suo nome rispondendo al saluto di quella voce calda, profonda. “ Buongiorno, sono Carla. Posso esserle utile?”. “Buongiorno, sono l’onorevole Travas… Marco Travas. Sono qui per il convegno sulle frontiere europee”. “Prego, mi segua. E’ uno dei primi ad arrivare, sa?”, rispose sorridente la ragazza. Mentre gli faceva strada non potè evitare al suo sguardo di inquadrare la figura della ragazza che lo precedeva. Capelli lunghi con meches bionde, flessuosa, non tanto alta ma con un portamento deciso. Eh, quante volte si era rimproverato per quel suo modo di guardare. Ma, nonostante tutto, non riusciva a farne a meno. In poco tempo la sala si riempì e il moderatore – un vecchio amico, professore universitario e redattore di “Limes”, una delle più autorevoli riviste di geopolitica – esaurite le presentazioni, aprì il confronto che ( interrotto qua e là da qualche applauso, senza che l’attenzione scemasse ) si protrasse per circa due ore e mezza. Per tutto il tempo, non riuscì a fare a meno di incrociare lo sguardo della ragazza che l’aveva accolto sorridendo. E lei, Carla, seduta ai margini della terza fila, non aveva distolto un istante lo sguardo su di lui. Quel volto, quegli occhi  erano una vera calamita, tant’é che – a un certo punto – mentre parlava delle ultime elezioni in Bosnia e delle differenze tra le tre realtà che componevano il mosaico della terra bosniaco erzegovese – perse il filo. Persino l’amico professore, che era tutt’altro che uno sprovveduto in quanto ad affari di cuore, se ne accorse e, terminato il dibattito , esaurite le strette di mano, gli sussurrò in un orecchio ..“l’ho notata,sai, la bella ragazza che ti ha mandato in tilt..”. Arrossì come un adolescente l’onorevole, cosa che non gli accadeva da molto, troppo tempo. Mentre il pubblico lasciava la sala, ormai semivuota, si avvicinò a Carla e , dopo aver commentato l’incontro, chiedendogli le sue impressioni, prese coraggio e le chiese se avrebbe avuto piacere ad accompagnarlo nella zona dei Navigli. “Non vorrei disturbarla, Carla. Ma è tantissimo che non vado più in quella che ritengo sia , insieme a Brera, la Milano che vale più la pena di visitare. E poi, se ci si può andare con una bella ragazza come lei, la cosa è ancora più piacevole”. “Sono lusingata, onorevole. E accetto volentieri l’invito”, rispose Carla, con prontezza ma senza sfacciataggine. Lui, tradendo un filo d’emozione, aggiunse: “Sono contento ma, per favore, non mi chiami onorevole. Mi sa tanto di formale. Mi chiami pure Marco, se non le dispiace”. “ Per me va benissimo, Marco. Con grande piacere”, ribatté Carla con voce cristallina. Il suono delle sue parole, pensò Travas, gli ricordava il tintinnare dei calici di Boemia.

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E così, chiamato un taxi, raggiunsero la zona dei Navigli, nel cuore della vecchia Milano di Porta Ticinese. Dopo pochi passi, uno al fianco dell’altra, svoltarono in via Ludovico il Moro,  alla  Cà Bianca – Corte dei Navigli.  Era quello che, nella Milano un po’bohémien  di un tempo, veniva chiamato il “Capolinea”, indimenticabile covo del jazz italiano dove avevano suonato i più famosi artisti italiani e stranieri. Quel luogo aveva poi ispirato l’apertura del Ca’ Bianca. E lì, oltre alla vecchia cucina tradizionale di rito meneghino, trovava ancora dimora il jazz d’autore, riproducendo l’atmosfera del vecchio club, cercando di ricreare quell’ambiente che aveva visto sul proprio palco i virtuosismi musicali di  artisti del calibro di Chet Baker e Dizzie Gillespie. Prima di entrare, Carla gli strinse delicatamente il braccio. Marco si voltò verso di lei, incrociandone lo sguardo. Lei sorrise e anche lui fece altrettanto. Stava così bene che non riusciva a ricordarsi quand’era stata l’ultima volta che si era sentito così a suo agio, in uno stato di calma che era ben diverso da quella, apparente, che doveva mostrare agli altri. Stava bene “dentro” ed era una cosa piacevolissima e,  nello stesso tempo, strana. Non era più abituato a provare emozioni che non fossero quelle in cui inciampava in giro per il mondo. Fu l’inizio di una serata molto bella. Cenarono a lume di candela, ascoltando dell’ottima musica. Brindarono all’incontro e, prima di congedarsi ( Carla doveva rientrare a casa sua, a Gallarate, e aveva lasciato  l’auto nel parcheggio sotterraneo davanti alla stazione Centrale ), gli confidò quel suo stato di leggera ebbrezza. E la ringraziò per quelle ore piacevoli che avevano trascorso insieme. L’indomani sarebbe ripartito molto presto per Strasburgo dove era prevista una seduta straordinaria del Parlamento Europeo. Lei, invece, aveva un impegno di lavoro – come hostess di sala – a un incontro promosso dall’assessorato comunale alla cultura in piazza del Duomo, per la presentazione di un progetto legato alle grandi mostre di arte moderna che avrebbero occupato gran parte del panorama della stagione culturale milanese nella primavera prossima. Lei lo strinse a se, gli posò un leggero bacio sulla guancia ed espresse il desiderio di rivederlo quando sarebbe tornato a Milano. Lui ricambiò il gesto d’affetto e confermò lo stesso desiderio. Rimase lì, con la mano alzata in un accenno di saluto, mentre la figura di lei si allontanava dietro ai vetri un po’ appannati del taxi. Raggiunse il suo albergo a piedi, camminando a lungo, e ogni tanto colpiva con il piede un piccolo sasso come faceva da ragazzo, simulando  improbabili partite di calcio. Stava bene. Si sentiva bene. Ma iniziava già a sentire la mancanza di quel sorriso, delle parole pronunciate con tono basso, di quegli occhi neri e vivaci che  l’avevano fatto sentire meno solo. Presto sarebbe tornato a Milano. Molto presto.

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