L’ultimo rifugio di Jacques Prévert

Il faudrait essayer d’être heureux, ne serait-ce que pour donner l’exemple”.Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.Così diceva Jacques Prévert. E’ possibile che una parte di felicità la trovò davvero a Omonville-la-Petite, piccolo borgo di case in pietra poco distante dal Cap de la Hague, la parte estrema del Cotentin, in bassa Normandia. E’ lì che il grande poeta francese , uno dei più popolari del XX° secolo, scelse di vivere gli ultimi suoi anni in una casa circondata da un giardino fiorito. L’ultima dimora del poeta  dell’amore, della libertà, della fantasia e della satira pungente contro i potenti, si trova lì. A poca distanza della casa c’è la piccola chiesa di Saint-Martin con il suo minuscolo cimitero dove riposano, insieme, i Prévert : Jaques,la moglie Janine e la figlia Michelle. A settant’anni, nel 1970 ( il poeta era nato nel 1900 a Neuilly-sur-Seine,alle porte di Parigi), decise di comprare questa casa nel luogo dove il suo grande amico, lo scenografo Alexandre Trauner, abitava già da qualche tempo.Un anno più tardi, i Prévert si stabilirono lì. Jaques aveva frequentato quelle zone già nei primi anni ’30, amando l’oceano e quei paesaggi selvaggi, spazzati dai venti, con i pascoli delimitati dai muretti a secco, a fianco di vertiginose falesie e splendide insenature. A Omonville-la-Petite, con i suoi 128 abitanti, la vita scorre tranquilla. La zona è poco conosciuta perché bisogna proprio scegliere di andarci, deviando decisamente dalle solite mete turistiche. I colori di questa terra sono talmente forti da stordire. Il cielo è cangiante e passa dal celeste intenso al grigio ferro delle nuvole che, sulla Manica, portano a tratti pioggia e vento. Le viuzze tra campi, giardini e vecchie mura, sono strette e dall’entroterra scendono verso le rocce e le spiagge.  Un paesaggio, quello della Hague, capace di sedurre chiunque. Anche il poeta dell’amore. Per capire la magia di questi luoghi basterebbe recarsi sulla punta di La Hague, accarezzata dal raz blanchard, l’ondata “biancastra”, una delle più forti correnti di marea del mondo. La vita di Prévert, in quegli anni, venne scandita da un tempo lento, dedicato alle passeggiate, agli ultimi lavori, alle visite degli amici più stretti come Yves Montand, Juliette Greco, Raymond Queneau, Joseph Losey e Serge Reggiani.  Appassionato dei collage, compose e regalò questi montaggi d’immagini di volta in volta spassosi, satirici o decisamente sovversivi. Le sue ultime pagine, “tra gravità e tenerezza”,  ne descrivono la ricerca sui temi dell’infanzia e dell’amore, del confine stretto tra la vita e la morte, con  quel segno indelebile che ne accompagnò tutta l’esistenza e la produzione poetica e letteraria: l’irriducibile desiderio di rivolta e d’insubordinazione nei confronti delle ingiustizie. Fino alla fine, divorato da un cancro ai polmoni causato dalle immancabili, troppe sigarette, continuò a scrivere e lavorare. Morì lì, in quella casa,  l’11 aprile del 1977. Nella “maison Jacques Prévert” – al n.3 Hameau Le Val , aperta solo di pomeriggio – si possono visitare le stanze, il suo atelier, il giardino e  vedere un film sulla sua vita. Un incredibile percorso artistico, quello di Prévert. Dagli anni del surrealismo alle scenografie per il  cinema, dove collaborò con Jean Renoir, Andrè Cayatte, Claude Autant-Lara e soprattutto Marcel Carné (un sodalizio, il loro, che ci ha regalato, film-capolavoro come Il porto delle nebbie e Alba tragica) fino alle sue poesie che in molti casi sono state tradotte in canzoni. Un’esistenza intensa che sintetizzò in un aforisma: “La vita è una ciliegia. La morte il suo nòcciolo. L’amore il ciliegio”. Negli scaffali del suo studio ampio e luminoso si ammirano le varie edizioni – tantissime – delle sue opere: le raccolte di versi di maggiore successo, come Parole (1945), La pioggia e il bel tempo(1955), Alberi (1976); le antologie tradotte in italiano Le foglie morte e Poesie d’amore. Mentre calano le prime ombre della sera, bagnate da una pioggerella fine e insistente, viene quasi voglia di attendere il buio e rileggere le Trois allumettes: “Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte/Il primo per vederti tutto il viso/Il secondo per vederti gli occhi/L’ultimo per vedere la tua bocca/E tutto il buio per ricordarmi queste cose/Mentre ti stringo fra le braccia”.

Marco Travaglini

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