Torino non è una città in crisi nel senso tradizionale del termine. Non è povera di competenze, non è marginale, non è priva di infrastrutture o capitale umano. Il suo problema è più sottile e più profondo: ha perso il ruolo che la definiva per oltre un secolo e non ne ha ancora scelto uno nuovo con sufficiente decisione.
Per decenni Torino ha coinciso con l’industria automobilistica. Questo le ha garantito centralità economica, peso politico e una chiara identità nazionale. Quando quel modello si è progressivamente esaurito, la città si è trovata a dover riconvertire se stessa. Lo ha fatto con serietà, evitando crolli traumatici, ma senza la radicalità necessaria a costruire una nuova leadership. Nel frattempo Milano ha occupato lo spazio economico e simbolico lasciato libero, diventando il polo attrattivo per investimenti, talenti e narrazione del futuro.
A differenza di altre città italiane, Torino non ha mai puntato sulla spettacolarizzazione di sé. È rimasta una città riservata, poco incline all’autocelebrazione, convinta che la qualità del lavoro parlasse da sola. Ma in un paese che premia chi si rende visibile, questa discrezione si è trasformata in invisibilità. Le sue eccellenze sono rimaste spesso confinate agli addetti ai lavori, mentre l’immagine pubblica della città si è cristallizzata su un passato industriale ormai concluso.
Eppure Torino possiede settori strategici che potrebbero ridefinirne il ruolo nazionale ed europeo. L’aerospazio e la difesa avanzata rappresentano già oggi una delle sue colonne portanti: una filiera solida, ad alta tecnologia, connessa alla ricerca universitaria e difficilmente delocalizzabile. Allo stesso modo, il sapere accumulato sull’automobile può trasformarsi in una leadership sulla mobilità del futuro, intesa come sistema integrato di trasporti, tecnologia, software e infrastrutture. Il limite non è industriale, ma culturale: la città fatica a dichiarare apertamente che queste sono le sue nuove identità.
Torino soffre anche una perdita costante di giovani formati localmente, che trovano altrove migliori opportunità di carriera e salari più competitivi. Le università funzionano come ottimi luoghi di formazione, ma meno come motori urbani capaci di trattenere talenti. L’ecosistema dell’innovazione cresce, ma senza ancora la massa critica necessaria a invertire la tendenza.
Alla base di tutto c’è una classe dirigente storicamente prudente, competente ma poco incline a scelte simboliche forti. Torino tende ad amministrare bene l’esistente più che a forzare il cambiamento. Questa attitudine, che in passato era una virtù, oggi rischia di diventare un freno in un contesto che richiede visione, posizionamento e capacità di competere sul piano dell’immaginario oltre che su quello economico.
Il paradosso torinese sta proprio qui: la città ha quasi tutto ciò che serve per tornare centrale – conoscenza, qualità della vita, industria avanzata, cultura – ma non ha ancora sciolto il nodo fondamentale. Non si tratta di risorse, ma di scelta. Di decidere se limitarsi a funzionare bene o tornare a rivendicare un ruolo riconoscibile nel Paese.
Finché questa decisione resterà sospesa, Torino continuerà a essere una città rispettata, solida e vivibile, ma non davvero seguita. Una città che lavora in silenzio, mentre il centro del discorso nazionale si sposta altrove.
Chiara Vannini
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