“Capricci”, la mostra allestita nel museo civico di Moncalvo, ci riporta nell’affascinante clima settecentesco che ha vissuto la forte attrazione del Vedutismo inteso come rappresentazione di scorci di vie e piazze di città con antiche rovine che, per la prima volta, diventano protagoniste autonome non più solo sfondo dei dipinti o relegate al quadraturismo illusionistico per sfondare le pareti ampliando lo spazio dei palazzi.
Sono gli anni del Grand Tour, viaggio artistico di aristocratici e studiosi intorno all’Europa continentale, in particolare in Italia alimentati dagli scavi di Ercolano e Pompei e dalla diffusione degli “appunti” dei grandi viaggiatori.
Innegabile spinta a visitare la nostra patria fu data dal “Viaggio in Italia”, scritto tra il 1786-88 da Wolfang Goethe, acuta e affascinante inchiesta giornalistica sugli aspetti artistici, sociologici, storici, economici e folcloristici.
Considerazioni ancor oggi attuali come, più tardi nel primo ottocento, lo furono gli appunti di Dumas e Stendhal contagiati dal frenetico desiderio del viaggio.
Il nuovo genere, iniziato dall’olandese Caspar Van Wittel, produsse uno straordinario interesse per i ruderi, in particolare di Roma, Venezia e Napoli, trattati in vari modi dal semplice pittoresco souvenir da riportare in patria alla descrizione dettagliata della realtà senza implicazioni sentimentali secondo la razionalità documentaristica illuminista oppure, staccandosi dal Vanvitelli, col dare un significato di memento mori sulla caducità della vita terrena
Ma anche con soffi di poesia evocativa di Canaletto, Bellotto e soprattutto del Guardi.
All’interno del Vedutismo, la specificazione dei “Capricci” comporta un accattivante sapore di stravagante inventiva atta a stupire attraverso scorci di rovine che stimolano la fantasia degli artisti proponendo intriganti scene tra realtà e immaginazione, come possiamo osservare nelle opere esposte in mostra.
Risalto è dato alla “Veduta degli avanzi della famiglia Plauzia” oltre ai “Resti del palazzo della famiglia Arrunzia” e dai “Resti del tempio della Sibilla” di Giovan Battista Piranesi, innovatore della tecnica dell’acquaforte con l’abbandono del tradizionale tratteggio incrociato a favore di un segno più fluido e per l’uso della “prospettiva ad angolo”.
Si coglie nel grande incisore una profonda cultura umanistica favorita da intensi studi della lingua latina e della storia di Roma.
Ne nasce una meditazione nostalgica per le vestigia del tempo e per i frammenti, rimanenze di colonne, capitelli, cornici spezzate, oggetti disparati d’arredo che lo rendono artista, archeologo e poeta affidando ad essi un significato ancor più pregnante dell’interezza dei monumenti.
I frammenti gli parlano come fossero vivi, al contrario del disperato senso di impotenza di un Fussli davanti alla grandezza dei resti classici, rendendoli stimolo per artisti futuri (come afferma in uno dei volumi sulle rovine romane) e non è forse stato geniale profeta se, a distanza di ben due secoli, Escher si è ispirato alle sue tavole delle “Carceri” per la rappresentazione delle “Scale impossibili” che lo rendono grande protagonista dell’arte moderna?
Straordinaria è d’altronde la versatilità di Piranesi nell’accostare classicismo, barocco, neoclassicismo anticipando anche la poetica inquietante del neoromanticismo e del surrealismo novecentesco.
Contribuiscono a creare uno spaccato d’epoca le opere di altri artisti: Antonio Contestabili con la perfetta resa prospettica e scenografica del “Paesaggio con rovine”, Francesco Battaglioli attraverso “Personaggi all’interno di rovine” dall’accento melodrammatico affine al Metastasio suo maestro.
Carlo Bonavia noto per stravaganti ambientazioni di vedute architettoniche e paesaggistiche en plein air col “Paesaggio rurale”, capriccio dall’effetto atmosferico ricorda Vernet di cui fu allievo.
Ancor più capriccioso l’olio di Antonio Joli con un’immaginaria visione di San Gerolamo attorniato da mansueti leoni.
La coppia di architetture del francese Hubert Robert, studioso della tecnica di Panini e Piranesi ma affascinato dal barocchetto insinuante di Fragonard, offre una elegante visione tra reale e fantastico mentre una non identificata firma I.B.P. è presente nell’inquietante dipinto con scorci architettonici di Roma e la liberazione di san Pietro.
Non manca una curiosità data dal vivace cromatismo delle vedute del piatto di legno, arte povera veneziana, a forma di scudo chiudendo la mostra con una nota impensata.
Giuliana Romano Bussola
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