La rete (quella per antonomasia) ha compiuto il quarto di secolo di quasi onorata carriera e, su tale arco di tempo, è ora possibile fare alcune valutazioni.
Possiamo parlare sicuramente di un evento epocale come pochi altri nella nostra storia: giusto per citarne alcuni pensiamo all’invenzione della scrittura che permise di trasmettere ai posteri il pensiero o gli atti di una persona o l’invenzione dell’agricoltura che permise di selezionare alcune specie a danno di altre, decidere dove far crescere questa o quella varietà e, di conseguenza, consentì un’alimentazione diversa rispetto a quella carnivora dei primitivi; oppure la civiltà del ferro, quando l’uomo poté dotarsi di armi ed attrezzi da lavoro più adattabili alle proprie esigenze.O, ancora, la civiltà industriale quando la produzione in serie modificò la vita di tutti, allontanando la forza lavoro dalle campagne, ridimensionando il peso dell’agricoltura (e, in parte, del commercio) e sviluppando le città sede di aziende produttive.
La diffusione di massa dell’informatica domestica e, con essa, lo sviluppo dei social hanno modificato totalmente la società: nascita di nuovi linguaggi, veri e propri slang per addetti ai lavori (kit, keep in touch = restiamo in contatto, CUL8R, see you later = ci vediamo più tardi) e, soprattutto, la nascita delle emoticon, faccine che da sole esprimono un’emozione ma che standardizzano i messaggi.
Complice la pandemia e la nascita dello smart working ecco che la rete ha modificato le abitudini di lavoro, istruzione, medicina, adempimenti burocratici, banche, lettura, informazione e così via.
Tutto questo ha un costo che, come vedremo è decisamente alto: impoverimento del linguaggio, analfabetismo funzionale in aumento, calo del QI nelle ultime generazioni invertendo la tendenza all’aumento tipica dell’evoluzione sociale.
Il costo maggiore, però, a parere mio è stato nella diffusione senza controllo delle cosiddette fake news: notizie totalmente false diffuse allo scopo di generare traffico sui social o di fingere di essere stati i primi a lanciare una notizia. Quante volte è stata annunciata la morte di questo o quel personaggio famoso che, entro breve, smentiva assicurando di godere di una salute almeno buona.
Il segreto della diffusione di tali social è stata, innanzitutto, la loro gratuità e, non da meno, il naturale interesse morboso delle persone per il gossip, la possibilità di ritrovare amici di vecchia data, commilitoni e compagni di scuola che, altrimenti, sarebbe stata preclusa. Sulla gratuità alcuni social hanno fatto un punto d’onore: sarà gratuito per sempre.
Questa valutazione a distanza di 25 anni l’hanno effettuata, però, anche i social stessi per motivi, ovviamente, diversi.
Quando la rete nacque, i fondatori concordarono sul fatto che nessuno doveva pagare nulla: sarebbe stata la pubblicità a coprire i costi e generare utili; nobile intento, salvo che i costi sono necessariamente aumentati tra misure di sicurezza, sanzioni per infrazioni alla privacy, potenziamento dell’hardware ed altro e, dunque, è aumentato il ricorso alla pubblicità; in più, come dire di no ad una vagonata di soldi che quotidianamente entra nelle casse dell’azienda?
Cosa si sono dette le aziende (che in realtà si contano sulle dita di una mano in tutto il mondo)? Ora la gente è assuefatta all’uso dei social, non concepirebbe più una vita senza di essi, ma noi abbiamo promesso che sarebbero stati gratuiti per sempre. Come unire le due esigenze? Con una strategia di marketing che ha funzionato in altri campi ecco la soluzione: te lo lascio per sempre gratuito, così com’è; oppure puoi scegliere la versione senza pubblicità pagando pochi dollari al mese. Considerando che solo in Italia il più famoso di questi ha ben 35.700.000 utenti, chiaro che un contributo anche solo di 5 euro al mese, farebbe confluire nelle sue casse la bellezza di 2 miliardi 142 milioni di euro ogni anno. E stiamo parlando della sola Italia.
Calcolando che gli iscritti attivi sono complessivamente 3 miliardi, è palese che un introito di 180 miliardi di lire l’anno sicuri sarebbero meglio degli introiti da pubblicità, che dipendono dal numero di visualizzazioni ed altri parametri.
Noi italiani, in particolare, siamo tra i più dipendenti da social: partendo dal totale di 59 milioni, escludendo i minori che non potrebbero avere il profilo, i detenuti, gli anziani non interessati al web, i disabili gravi, gli istituti di vita consacrata e pochi altri, significa che circa il 90% di chi può attivare un profilo social lo ha attivato.
Per ora siamo alla campagna di informazione sulla possibilità di scelta ma l’opzione tra gratuito e a pagamento sta arrivando.
Conoscendo un po’ la società italiana so che moltissimi opteranno per la versione senza pubblicità; fin quando non comunicheranno i prezzi, tuttavia, non è possibile avanzare ipotesi.
Una domanda, però, sorge spontanea: in un momento di crisi economica con aumento dell’inflazione, riduzione degli stipendi, disoccupazione perché le persone continuano a spendere ogni mese 5 euro di qua, 7,99 di là, 12 per quell’altro servizio, 25 per seguire una tipa su un sito di fans pur in presenza di redditi normali o anche inferiori: sono tutte spese indispensabili? Scarsa propensione al risparmio? Prodigalità?
Certo, se le cause esclusa la prima riguardano un numero importante di soggetti è l’intera società ad essere in pericolo; se, infatti, i prodotti acquisiti sono di produzione estera andranno ad aumentare il PIL di quel Paese, con tutto ciò che ne deriva.
E’ una lezione che dovrebbe giungere alle nuove generazioni proprio dai genitori che, però, sono i primi ad avere bisogno di essere educati: chi controlla il controllore?
Sergio Motta
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