Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
Robert Kolker “Hidden Valley Road” -Feltrinelli- euro 22,00
Kolker è un grande giornalista investigativo e scrittore americano, nato a Columbia nel 1969, vincitore di numerosi premi; abile nel maneggiare con cura argomenti piuttosto complessi.
Nel romanzo “Hidden Valley Road” racconta la storia vera di una famiglia americana particolarissima, alle prese con la schizofrenia che la sprofonda in un inarrestabile baratro, sullo sfondo delle teorie e delle cure mediche del secolo scorso. Protagonisti sono i Galvin, e Kolker ha intervistato tutti i superstiti del clan, mettendo ordine in una materia difficile come quella della malattia mentale.
Don e Mimi Galvin inseguono il sogno americano e sono i genitori di una tribù di ben 12 figli, che Mimi ha sfornato a ritmo incalzante nell’arco di 20 anni, a partire dal 1945. Lei li chiama per numero nel tentativo di semplificare la vita difficile che l’aspetta. Il primogenito Donald nasce 15 giorni prima della bomba atomica sganciata su Hiroshima, mentre il padre sta combattendo da quelle parti. Seguono gli altri, in tutto 10 maschi, e per finire le due ultime femmine che non avranno vita facile.
E’ durante l’adolescenza che Donald inizia a manifestare sintomi preoccupanti: ha improvvisi e immotivati scatti di violenza, tortura e uccide un gatto, si butta nel fuoco e sembra diventare di colpo un’altra persona, irriconoscibile.
E’ solo l’anticamera dell’inferno familiare devastato dalla follia che ghermisce altri 5 figli.
Perché ben 6 figli, tutti maschi, di questa famiglia che all’esterno pare perfetta, si ammalano di schizofrenia?
Kolker organizza il romanzo in tanti capitoli dedicati ai vari componenti, intervallando le loro follie con una grandiosa ricostruzione dello studio della schizofrenia, dagli anni 50 ad oggi. Racconta le varie teorie, diagnosi, i tentativi di cura, i ricoveri, gli elettroshock, i farmaci e i loro effetti spesso devastanti.
L’autore indaga le conoscenze scientifiche e gli studi fatti dai ricercatori che negli anni hanno tentato di spiegare la natura di una malattia che resta in parte oscura tutt’oggi. Le spiegazioni si rincorrono: per alcuni la causa erano le madri e i loro comportamenti, le definivano madri “schizofrenogene”; per altri invece le cause risiedono nella genetica. Le spiegazioni si evolvono con gli studi e i Galvin -con l’alto tasso di schizofrenia di buona parte dei suoi membri- sono materia di studio importante. Le teorie si evolveranno, ma Mimi si sentirà sempre esposta e sotto accusa, anche se farà di tutto per nascondere al mondo le derive psichiatriche dei suoi ragazzi.
Mentre la scienza annaspa tra natura e cultura, abuso o rifiuto di farmaci, ricoveri ripetuti, psichiatria o psicoterapia, i Galvin vivono l’inferno tra le mura domestiche e le violenze dei figli.
Il primo a morire è il quarto figlio, Brian, che in preda a una crisi psicotica spara alla moglie e poi si uccide. E non sarà l’unico…..
Sebbene siano sane, le ultime nate, Margaret e Mary (che per smarcarsi dalla famiglia nell’adolescenza si farà chiamare Lindsay), finiranno vittime dei fratelli in un modo che le segnerà nel profondo e le spingerà a ritenere in parte responsabili i genitori, colpevoli di essersi dedicati ai figli malati più che a quelli sani.
Non resta che addentrarsi nelle pagine scritte con immensa empatia da Kolker, che alla bravura di romanziere unisce quella di giornalista investigativo. E sa farlo con successo: nel 2013 ha ricostruito il caso di 5 prostitute uccise a Long Island nel libro “Lost Girl”, che ha ispirato il film con Amy Ryan e Gabriel Byrne in onda su Netflix; mentre da un’altra sua inchiesta è stato tratto il film “Bad education”.
Thomas Savage “Il potere del cane” -Neri Pozza- euro 17,00
Savage è stato un importante scrittore americano (morto a 88 anni nel 2003) noto per i suoi romanzi ambientati nel Montana. “Il potere del cane” risale al 1967 ed è in parte autobiografico; basato sul periodo in cui Savage era adolescente in un ranch del Montana.
Al libro si è ispirata la sceneggiatrice e regista Jane Campion, l’ha adattato per il film che le è valso l’Oscar 2022 per la regia, (28 anni dopo quello per la sceneggiatura di “Lezioni di piano”).
A dare volto ai personaggi sono gli attori della caratura di Benedict Cumberbatch e Jesse Plemons nei panni dei fratelli Burbank, Kirsten Dunst è la locandiera Rosa e suo figlio Peter è interpretato da Kodi Smit-McPhee.
La trama è semplice e allo stesso tempo densa di significato; ruota intorno a solitudine, amore, dolore, ed è ambientata nel 1925 sullo sfondo di un maestoso Montana, che la Campion ha magnificamente immortalato nel film, con immagini maestose ed emblematiche della vita in quello Stato e in quegli anni.
Al centro di tutto ci sono i due fratelli Burbank, ricchi proprietari di un ranch. Pur essendo molto legati e dormano ancora nella stessa stanza a due letti in cui sono cresciuti, Phil e George sono diversi come il giorno e la notte.
Phil è magro, scattante, nervoso, irascibile, ha una mente brillante, è freddo e crudele. Vive nel ricordo e nell’innamoramento per il suo mentore Bronco Harry, (anche se all’epoca del romanzo Savage non era ancora apertamente gay).
Ben più umano è il robusto George, insicuro, riservato e silenzioso, educato e sensibile; e si accontenta di vivere nel cono d’ombra del fratello, che dei due è il dominatore.
Le cose cambiano quando George si innamora della vedova Rose Gordon che gestisce una locanda spersa nel nulla insieme al figlio adolescente Peter; effemminato e apparentemente fragile, segnato dal suicidio del padre che proprio lui ha trovato impiccato.
Rose afferra l’occasione, vende la locanda, sposa George e con lui va a vivere nel ranch dei Burbank. Da allora le cose non saranno più le stesse: i rapporti tra fratelli mutano, la donna subisce le angherie del cognato, ed altro ancora accadrà fino al tragico epilogo.
Occorre fare una postilla: la regista neozelandese ha scavato a fondo nei materiali di archivio, studiato foto dell’epoca e delle persone che avrebbero ispirato la trama, consultato parenti in vita di Savage, visitato il ranch in cui l’autore è cresciuto. Un lavoro certosino di approfondimento che l’ha convinta che Savage avesse realmente avuto uno zio che lo aveva bistrattato, e morto per avvelenamento da antrace, frutto non di una vendetta, ma di un incidente dettato dal caso.
Meg Mason “L’opposto di me stessa” – HarperCollins- euro 18,50
Meg Mason è nata in Nuova Zelanda, ma vive a Sidney, in Australia, da quando era adolescente. E’ una giornalista freelance e collabora con varie prestigiose testate; questo è il primo dei 3 romanzi che ha pubblicato.
Protagonista è la 40enne Martha Friel, che il giorno del suo compleanno si ritrova appassita, triste, sola e senza amici, con il secondo marito Patrick che sta per lasciarla. Per capire il suo profondo disagio esistenziale occorre fare qualche passo indietro nella sua storia.
Tanto per cominciare è nata a Londra in una famiglia disfunzionale. I genitori sono 2 artisti alquanto bizzarri: il padre Fergus Russel è un poeta autore di una sola poesia; la madre Celia Barry è una scultrice dedita all’alcol; poi c’è la sorella Ingrid, irrefrenabile e sulla quale non si può fare affidamento.
Vivono a Belgravia in una casa decadente, la vita familiare sgangherata sembra resistere almeno per un certo tempo e i genitori amano moltissimo le figlie nate a poca distanza l’una dall’altra.
E’ intorno ai 17 anni che la protagonista inizia a manifestare qualche stranezza; come rintanarsi sotto una scrivania che diventa il tetto sulla sua testa mentre studia, mangia, vive e dorme. Una sorta di protezione dal resto del mondo, che vari psicologi cercano di interpretare e curare con psicofarmaci. Tra le fantasiose diagnosi ci sarebbe anche quella che riguarda la negazione della maternità.
Martha cresce e finisce a lavorare per Vogue; poi nella sua vita irrompe un broker rampante, specializzato nella vendita di opere d’arte, a tema campestre, agli oligarchi. Si chiama Jonathan, è particolarmente sensuale, fa breccia nel cuore di Martha, la seduce e la sposa in fretta. Però dopo l’innamoramento iniziale, il marito si rivela un cocainomane narcisista; l’unione naufraga, lasciando Martha esposta al fallimento e preda di ricorrenti depressioni.
Ed ecco arrivare il momento in cui l’amico Patrick -che aveva conosciuto a 13 anni e che era sempre stato innamorato di lei- balza in primo piano: Martha finalmente mette a fuoco anche la sua attrazione per il giovane diventato medico.
Finiscono per sposarsi, ma il malessere di Martha è sempre in agguato e a poco serve la pazienza di Patrick che la conosce da sempre. C’è un punto di rottura e anche questa coppia va in pezzi; e Martha continuerà a cercare di capire da dove arriva il suo mal di vivere…..diagnosi dopo diagnosi.
Costanza DiQuattro “Giuditta e il monsù” -Baldini+Castoldi- euro 16,00
Di questa talentuosa giovane scrittrice siciliana (che, dopo un lungo restauro, si occupa anche del teatro di famiglia Donnafugata) abbiamo già amato “La mia casa di Montalbano” nel 2019 e l’anno seguente “Donnafugata”. Ora la sua bravura ci guida nei segreti e nelle stanze di un’antica dimora siciliana blasonata.
La storia è ambientata a partire dal 1884, a Ibla, a Palazzo Chiaromonte, dove la nobildonna Ottavia, moglie del marchese Romualdo Chiaromonte, si contorce negli spasmi delle doglie del suo quarto parto, sperando che, dopo tre figlie femmine, stia finalmente per nascere l’agognato maschio. Invece al mondo viene Giuditta.
Ma quella stessa notte in casa arriverà anche un neonato, ed entrerà dalla porta principale, dopo che qualcuno lo aveva abbandonato sulla soglia del sontuoso palazzo. Un fagotto avvolto in una coperta a brandelli, che il marchese scosta per scoprire che è «masculu»….
Il marchese Romualdo decide di chiamarlo Fortunato (nome scelto non a caso e che prelude un augurio…ma forse anche altro) e lo affida al Monsù di casa e alla moglie; don Nicola e donna Mariana, coppia in là con gli anni e senza figli, che lo cresceranno nel palazzo e come un piccolo principe.
Fortunato e Giuditta crescono insieme: compagni di giochi, complici, affiatati, complementari tanto che «…nessuno avrebbe saputo dire dove finiva uno e dove cominciava l’altro».
L’autrice ci introduce nelle stanze, nelle cucine, nelle ombre e nelle luci, nell’atmosfera d’altri tempi, nei rapporti familiari e tra la servitù di un palazzo tipico della Sicilia dell’Ottocento. E segue i Chiaromonte che ogni primo giugno lasciano l’imponente e vetusto palazzo di Ibla per trasferirsi in campagna, a Poggiogrosso dove «l’aria era fina e pulita e la notte si dormiva da paradiso».
Fortunato e Giuditta sempre a giocare insieme e a fare marachelle, difendendosi l’un l’altro.
Il romanzo racconta la vita della famiglia alle prese con le consuetudini dell’epoca, i lutti da osservare, i caratteri e le inclinazioni delle sorelle di Giuditta. La secondogenita Ada portata allo studio e alla religione, mentre Romualdo pretende il meglio per il matrimonio della primogenita Amalia (quella a cui Giuditta è maggiormente legata).
Intanto il legame tra l’ultimogenita del marchese e Fortunato si fa sempre più intenso; lei svogliata negli studi, coglie ogni occasione buona per stare nella cucina –carica di odori e sapori- regno del padre di Fortunato. E’ in quella stanza che il giovane apprende il mestiere di cuoco, ma ambisce a libri e istruzione. Così il tempo vola con Giuditta che si diverte ad impastare ed imparare ricette, mentre Fortunato si erudisce su libri e quaderni. Solo che i due stanno sbocciando e iniziano a guardarsi con occhi diversi… preludio di una passione che verrà aspramente contrastata.
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