“Cantando sotto la pioggia”, tra ieri e oggi, un successo autentico di musiche e canzoni, di danze e recitazione. Da non perdere

All’Alfieri, repliche sino a domenica 18 maggio

Uno spettacolo a teatro come un vecchio film, compresi righe e filamenti volanti sulla pellicola, il carattere un po’ démodé delle scritte: con tanto di titoli di testa a elencare cast, costumi e scenografie, musiche, regia e produzione, quanti fecero l’impresa e quant’altro ancora. Come ai vecchi tempi, tutto a scorrere oggi sulla quarta parete del palcoscenico dell’Alfieri, per la prima nazionale – una delle tante promesse, quella dei debutti importanti, che Fabrizio di Fiore sta mantenendo nel corso delle sue nuove stagioni teatrali torinesi – di “Cantando sotto la pioggia” (repliche sino al 18), in un mese di maggio che vede quasi il termine del calendario. Un omaggio dovuto, “un sogno che si avvera nei confronti di un testo a cui ho pensato da sempre, da quando ho iniziato a fare il mestiere che faccio”, ricordava ieri sera Luciano Cannito, regista, al termine dello spettacolo con applausi davvero trionfali da parte di un pubblico certo di aver incrociato una brillante serata; e poi la eccellente ricostruzione di un clima, che continua a vivere in un’epoca ben precisa ma che allo stesso tempo ha tutti i mezzi per irrobustirsi di vita propria – con tanto di citazioni, dall’orologio di Harold Lloyd di “Preferisco l’ascensore” alle gambe più belle (e costose) del mondo, quelle di una smagliante Cyd Charisse proprio in coppia con Kelly -, di musiche e canzoni, di coreografie catturate da quelle immagini, di pericolante recitazione e di torte in faccia, di dispetti e rivalse tra primedonne, di un divertimento insomma che riempie appieno le tre ore circa dello spettacolo. Se il titolo è una pietra miliare del teatro musicale, e lo è certamente con un ristretto gruppo di non ti stanchi mai, diceva ancora Cannito in un’intervista a La Stampa, ecco che il regista si fa apprezzare per quella rinuncia alle forzature, per quegli ammodernamenti evitati, per il “rispetto” di quel “sacro che c’è dentro” anche se niente vieta di togliere “un po’ di polvere che si è depositata nel tempo”, pronta a lasciare spazio a una più calcata e pungente ironia.

Con un bel ritmo, che potrà ancora crescere con l’avanzare delle repliche, lo spettacolo guarda gioiosamente al film del ’52 diretto da Stanley Donen e Gene Kelly, quest’ultimo come ognuno sa nel ruolo anche del protagonista Don Lockwood, l’epoca della vicenda è il tramonto del cinema muto, quando immagini in bianco e nero rendevano attori anche approssimativi costretti a costruire facce di circostanza, a strabuzzare occhi fuor di misura, ad atteggiarsi in movenze a dir poco ridicole. Il teatro, quello era l’autentico mondo della recitazione, ma non era pane per tutti. Non per quelle attricette di poco conto che non avrebbero mai potuto prestare la loro voce stridula alle tavole di un palcoscenico, le riprese erano lì a salvarle senza che il pubblico, già allora ai bordi del red carpet, si ponesse tante domande. È quanto succede alla acclamata quanto vanesia, vanitosissima, Lina Lamont, che fa coppia con Don in mediocri film di cappa e spada: senonché quel mondo di non più sopportabile cartapesta, dopo disastrosi tentativi di adattamento, pare scoppiare quando il 6ottobre 1927 “Il cantante di jazz” con Al Jolson appare sugli schermi a inaugurare il cinema sonoro – una rivoluzione, come quella che a Hollywood fu dodici anni dopo con la risata della Garbo per “Ninotchka” – e quelle voci sgraziate avrebbero avuto vita breve. All’orizzonte di “Cantando” appare Kathy Selden, viso notato dal produttore che vede lontano, bella presenza e voce da sogno, semplicità e pochi grilli per la testa, che con l’aiuto di Don, nuovo compagno di lavoro e di vita, e dell’impareggiabile funambolico Cosmo penserà a smascherarla e a metterla in ridicolo, con buona pace di una improbabile carriera.

Legatissimo e mai un attimo che accusi sghembature o rallentamenti che siano lì a intaccarne il ritmo, smagliante, divertente, il vecchio libretto di Betty Comden e Adolph Green rispolverato a dovere secondo la promessa registica, le canzoni di Nacho Herb Brown e Arthur Freed (dal “Mago di Oz” giù giù sino a “Gigi” una delle più belle firme di Hollywood), qui con la traduzione di Cannito e di Laura Caligani, a tornare sempre piacevolmente in mente, le scene di Italo Grassi e soprattutto i costumi di Silvia Califano (un cognome che è una garanzia), che spazia con le sue invenzioni da “Sherazade” a Shakespeare per il festival veronese, dall’Aterballetto al “Lago dei cigni” per il Roma City Ballet Company, non ultimo il disegno luci curato da ValerioTiberi, ogni apporto rende “Cantando” un’occasione da non perdere. Metteteci ancora un corpo di ballo di quindici elementi, di quelli che si cercano e si trovano da chi ha parecchio fiuto alle spalle, che all’occorrenza canta e recita, metteteci degli attori in gran forma e avrete la sembianza esatta del successo o del successone. Senza se e senza ma. Lorenzo Grilli, cresciuto nel teatro di Proietti e nel cinema di Roberta Torre, è un valido Don che sfugge con padronanza alle incertezze del debutto e si irrobustisce, passo dopo passo, mattatore assoluto, davvero efficace, nel momento “in the rain” sotto scrosci non indifferenti d’acqua con voce e salti e zompi invidiabili sui lampioni di scena. Martina Stella e Flora Canto, su due diversissimi versanti, sono due belle attrici, che convincono, un ritrattino tutto sale e pepe di ocaggine agguerrita nel non voler cedere lo spazio che s’è guadagnato la prima, anche capace di mettere in secondo piano, con lodevole convinzione, una vera bellezza; grintosa “my fair lady” del palcoscenico la seconda, pienamente disponibile ad un percorso di tutto rispetto. Folletto della serata, autentico artista, versatile, pronto a mettere in scena per quanti non lo conoscono, autentica scoperta, e a ribadire per i molti altri una insolita bravura che ha preso forma negli anni, e nelle tante tappe, nella danza (tap, modern e acrobatica), nel musical e nelle arti circensi, Vittorio Schiavone, che passa attraverso il Teatro alla Scala e guarda a Michael Jackson: il suo Cosmo, per certi tratti, in coppia con il protagonista o negli assolo, ha tutta la magia dell’inafferrabile, del campione che non hai ancora incrociato, dell’uomo di palcoscenico abituato a sgusciare, a lanciare piccoli e grandi guizzi e a colpire a segno, del nome che per il futuro non potrà di certo sfuggirti e che dovrai essere tu a dover tenere d’occhio.

Elio Rabbione

Le immagini di “Cantando sotto la pioggia, regia di Luciano Cannito, sono di Valerio Polverari.

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