Il tramonto doloroso del grande intellettuale

Casanova”, scritto da Fabrizio Sinisi, all’Astra sino a domenica 23

Quando, ad inizio della stagione, Andrea De Rosa, direttore del TPE, chiese al regista Fabio Condemi come il suo spettacolo “Casanova” si potesse inserire in un calendario che riuniva ogni partecipazione sotto il termine “fantasmi”, lui rispose: “Il fantasma risiede proprio in questa parola, “memoria”, perché Casanova ricorda se stesso da giovane proprio sull’orlo del 1700, quando il secolo sta per finire e lui non ne fa più parte.” Il testo, che s’alterna tra vita e filosofia, tra rammarico e ricordi, sempre tenendo un profilo alto e raffinato, che a tratti corre forse il rischio di cadere nel (troppo) letterario, lo ha ricavato Fabrizio Sinisi – a dicembre avevamo già applaudito il suo “Orlando”, dal romanzo della Woolf, anche qui un enigma che s’intreccia tra opera e biografia – dalla “Storia della mia vita”, da quei “Mèmoirs” che lo scrittore il seduttore il filosofo il giocatore d’azzardo il politico l’esoterista l’avventuriero – a Sinisi interessa soprattutto l’intellettuale – scrisse in lingua francese tra il 1789 e il ’98: sarebbero stati pubblicati giusto duecento anni fa in una versione censurata. Clima d’anniversari dunque, un altro “Casanova” sta circolando sui nostri palcoscenici, ad opera di Ruggero Cappuccio.

In un inverno di fine secolo, Casanova continua a svolgere i suoi compiti di bibliotecario, da tredici anni al servizio del Conte di Waldstein, nel castello di Dux in Boemia, dove esprime tutta la sua rabbia e la sua solitudine, tutta la stanchezza, in mezzo a servitori che con lui s’esprimono in tedesco, lingua che gli è completamente ignota, mortificandolo, sbeffeggiandolo: lì riceverà la visita di un medico che professa la dottrina mesmerica, anticamera dell’ipnosi, che non lo convince appieno ma che vuole sperimentare, e con quella visita ecco aprirsi il passato e la memoria dell’uomo ed è un susseguirsi di premonizioni e di fumose visioni e di personaggi che prendono corpo. Ecco apparire sulla scena il monaco Balbi, incapace di scegliere tra nobildonne e monache per far figli, chiuso nelle prigioni veneziane all’ennesima reprimenda dei superiori, la dolce Henriette (su cui la Storia non ha ancora saputo mettere un punto fermo), l’amore di una vita intera, la marchesa D’Urfé che teme più d’ogni altro la vecchiaia e lo sfacelo del proprio corpo e chiede aiuto. Monologhi, parole piene di fascino, momenti che s’immergono nel pieno di una magia, “Casanova” sceglie alla fine la decisione di non disturbare oltre quei fantasmi, d’incamminarsi lungo la via dell’oblio. “Questo è il vostro mondo, non è più il mio” confessa amareggiato Casanova, tra i fumi che continuano a invadere la scena resta soltanto una piccola mongolfiera simile a quella che aveva attraversato anni prima il cielo di Parigi, come poco prima s’è affacciato il ricordo di una giovane donna bionda, regale, i capelli tagliati e una sottoveste bianca, che poneva tra le urla di un pubblico corso a godersi la scena la testa sotto la lama della macchina che la Rivoluzione aveva inventato.

Se ne va il passato, se ne va il Secolo dei Lumi. Non la spudorata allegria di Comencini o le avventure di Hallström ma lo sfaldamento di Fellini. Lentamente, nella memoria a tratti perduta dell’uomo, e Sinisi altrettanto lentamente accompagna questo crepuscolo. La regia di Condemi costruisce con note appropriate e con trepidazione il personaggio del titolo, soprattutto sfrutta al meglio l’impianto scenografico (“scene e drammaturgia dell’immagine” recita con esattezza la locandina) pensato da Fabio Cherstich, costruendo esatte inquadrature cinematografiche (c’è anche un omaggio al pre-cinema, con il corredo di lanterne magiche come c’è un omaggio alla pittura chiaroscurale), candele antiche e lampade moderne, un tappeto e un soffitto di coloratissimi riquadri, la distesa di volumi che accuseranno lo sconquasso, naturale e non soltanto, il ritratto giovanile del Nostro a opera di Mengs (Casanova ha 35 anni, è il 1760), la finestrella entro cui apparirà Voltaire a raccontare del terremoto di Lisbona, il grande tavolo su cui posano i “Mémoirs” che l’autore continua a completare. Ma non per molto, siamo arrivati alla fine. Una scena nitida, esemplare. Interprete Sandro Lombardi, a costruire appieno il tramonto fisico e mentale del suo personaggio, le ombre e le luci, gli ardori di un tempo e i dolori del presente, le amarezze. Con lui Marco Cavalcoli, Alberto Marcello, Simona De Leo, il piccolo Edoardo Desana sicuro per la sua prima volta in scena e Betty Pedrazzi che fa della sua marchesa un essere umano che ben s’accompagna allo sguardo finale dello scrittore.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Luca Del Pia.

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