“La scuola non va”, lo cantavano i Lunapop nel 1999. E certe mattine viene voglia di cantarlo anche a me.
Alle prime ore del giorno c’è ancora la nebbia, percorro così, ovattata nell’atmosfera fumosa, il tragitto che mi separa da scuola, parcheggio la macchina, mi dirigo verso il caffè delle 7:45 – obbligatorio per sopravvivere alla mattinata lavorativa- ed eccoli già lì, “vivaci” e “frizzanti”, come li descriviamo nei verbali, si avvicinano saltellando e mi ingurgitano di affermazioni e dubbi: “Il cartoncino era per oggi?”, “Ho dimenticato la cartellina”, “Ha scritto i compiti su Argo?”, “Oggi c’è Arte o teoria?”.
Meravigliosi e terribili, come si fa a non affezionarsi?
Ecco, forse non è chiaro a tutti, ma la scuola esiste per loro, per gli studenti.
La scuola è lì per tutti i “Giammaria” di Filippo Caccamo, per i “Giovannino” di Rousseau e per i “Gianni” e i “Pierino” di Don Milani.
Credo fermamente nel mestiere del docente ed è per tale motivo che sento di discostarmi da tante situazioni e decisioni che ultimamente stanno tramutando il sistema scolastico in un ludico parcheggio privo di significato, i docenti in clown multimediali e gli studenti in amebe viziate.
In questa società liquida (Z. Bauman), fluida e spettacolarizzata (riprendendo la teoria di Guy Debord), in cui il politicaly correct ha il sopravvento sulle coscienze e in cui l’egoismo e l’egocentrismo vengono scambiati –ad hoc- per libertà individuale e indipendenza, mi sento di andare controcorrente e prendere delle posizioni ferme, lo faccio per i miei alunni, perché non voglio che diventino come quegli adulti che mangiano fissando il cellulare anziché la persona che hanno di fronte, affinché non siano educati in un mondo che preferisce l’indisponenza, al fine di renderli quella “cosa bella” di cui parlava Menandro (IV sec. a. C.).
Per far sì che ciò avvenga, come molti altri colleghi docenti, mi interrogo sulle direzioni da intraprendere per rattoppare questa scuola che al momento “non va”; riflessione dopo riflessione, lettura dopo lettura, mi è (ri)capitato tra le mani “Lettera ad una professoressa” di Don Milani.
Si tratta di uno dei testi che più mi ha colpito e su cui ho più ponderato, un libro –a parer mio- obbligatorio per chi vuole intraprendere questa professione, al di là del giudizio personale.
Dopo un’accurata rilettura, che mi ha confermato l’opinione più che positiva che già avevo a riguardo, mi domando: è davvero possibile considerare attuale un testo scritto negli anni Sessanta?
“Lettera ad una professoressa” rimane una testimonianza tutt’altro che banale o di semplice definizione, pubblicato nel 1967 da una non proprio famosa casa editrice fiorentina, si presenta come un autentico “livre de chevet” di una generazione, una sorta di “vademecum” per gli insegnanti democratici o una sorta di “Libretto rosso” sessantottino.
Lo scritto è “un classico” della letteratura scolastica e, data la particolarità delle affermazioni asserite, ha fin da subito diviso i lettori in due parti, chi grossomodo concorda con le riflessioni apportate dai ragazzi di Barbiana e chi invece preferisce un approccio diverso e si discosta, in entrambi i casi il libro segna uno snodo centrale nelle grandi battaglie avvenute per riformare il sistema educativo. Tuttavia è bene puntualizzare che, se da una parte esso denuncia apertamente e per la prima volta le falle di quell’apparato burocratico, dall’altra le parole degli studenti di Don Milani comportano anche l’inizio della fine dell’autorità degli insegnanti, dello stare in disparte dei genitori e – secondo alcuni- della voglia di studiare dei fanciulli.
Di certo un’opera non politicaly correct.
L’ho anticipato, mi riprometto di prendere posizione, pur non ritenendo concretizzabili tutti i punti esplicati nel testo e pur tenendo in chiara considerazione la differenza legata al periodo storico in cui il testo viene redatto, mi possono ritenere una “donmilaniana” convinta.
Lavoro a scuola da qualche anno ormai, mi trovo a diretto contatto con gli studenti – e talvolta con mamme e papà-, sto assistendo ai cambiamenti generazionali e ogni giorno mi rendo conto di quanto sia necessario un cambio di rotta.
In sostanza credo che potrebbe giovare maggiormente all’attuale sistema scolastico una rilettura di gruppo di “Lettera ad una professoressa” anziché il solo focalizzarsi sull’uso di ChatGPT.
Cosa ricercare allora in un libro scritto tempo addietro e in un contesto tanto differente dal nostro?
I princìpi, la risposta è questa.
Se me lo consentite, cari lettori, vorrei spiegarmi meglio, prendendo in esame alcuni punti che ritengo salienti e utili e tralasciando per forza di cose la totalità del testo che, pur non essendo particolarmente lungo, non può essere commentato “in toto” in questa sede.
Si parta con le ovvietà: la società, i bisogni e le necessità degli anni Sessanta non sono le medesime che sentiamo ora. Si pensi prima di tutto al problema dell’obbligo d’istruzione, che si estende oggi fino ai sedici anni d’età (Legge 296 del 2006), oppure si prendano in considerazione le accortezze e le norme che assicurano agli studenti con difficoltà (intellettive o socio-culturali) di frequentare uno specifico percorso scolastico al pari degli altri compagni, inoltre mi sento di poter abolire la dicitura “scuola classista”, poiché, per quanto permangano talune differenze tra periferia, centro o prima cintura, ogni struttura scolastica offre ad oggi un servizio eguale per tutti.
Non è vero dunque che “non va mai bene niente”, le istituzioni collaborano sempre più con il territorio, si assicura una formazione continua agli insegnanti e cresce costantemente l’attenzione verso il fenomeno del bullismo o del cyber-bullismo. L’offerta formativa è più che migliorata nel tempo, l’idea di istruzione ha preso le distanze dal tanto temuto “nozionismo” e le molteplici attività rendono un po’ più appetibile il frequentare le lezioni anche da parte dei più svogliati.
Non è nemmeno vero che “non ci sono più i ragazzi di una volta”. I giovani sono sempre gli stessi, sono semplicemente “figli del nostro tempo”, e nonostante li consideriamo più fragili o ineducati di una volta, non è di certo colpa loro, ma di chi gli sta attorno.
Osserviamo ora da vicino le tematiche su cui ancora oggi possiamo –e dovremmo- interrogarci.
Iniziamo dalla problematica dei “programmi”, queste benedette indicazioni nazionali a cui siamo obbligati a fare riferimento: dite la verità, cari colleghi, sono o non sono un’angoscia?
I ragazzi di Barbiana sostengono che ciò che viene insegnato a scuola sia puro nozionismo enciclopedico e che le informazioni impartite dai docenti riguardino argomentazioni che non hanno riscontro alcuno nell’attualità della vita al di fuori della classe, un sapere così elargito non porta dunque alla formazione di cittadini consapevoli.
I giovani di Don Milani – e questo è un merito che nessuno gli può togliere- non si limitano a criticare ma avanzano delle risoluzioni alle lacune che vedono nel sistema scolastico.
Essi suggeriscono di rimpiazzare i programmi con una continua ricerca critica del sapere all’ interno di un percorso multidisciplinare costruito strada facendo, in questo modo gli alunni acquisiscono gli strumenti necessari per partecipare attivamente alla vita collettiva.
Mai stata così d’accordo: è necessario partire dall’attualità per poi collegarci al passato, stupire con l’immediatezza del contemporaneo e spiegarlo andando a ritroso, alla ricerca nella storia delle cause che hanno portato al nostro presente. Un sogno ad occhi aperti, pensate come sarebbe bello leggere in classe articoli di giornale, riviste specializzate, ascoltare interviste di personaggi pubblici, spiegare le notizie dei telegiornali o commentare insieme gli ultimi “scoop” –inerenti ovviamente alla materia d’insegnamento.-
Certo c’è il sogno e poi la dura realtà: gli studenti di oggi conoscono poco o nulla del loro presente, quasi non leggono, non vedono i telegiornali e apprendono informazioni –semplificate e parziali- tramite i social.
Sarebbe quindi opportuno convincerli che “Tick-Tock” non basta per ritenersi “informati sui fatti”, che non sempre gli influencer conoscono l’argomento di cui desiderano trattare e infine che no, dieci minuti non sono sufficienti per apprendere alcuna argomentazione.
Non sono brava come i ragazzi di Barbiana, non ho una vera e propria soluzione a tale problema, mi limito ad avere un’opinione. Forse il problema è il tempo, forse aveva ragione –ancora una volta- Don Milani a dire che noi insegnanti dovremmo “lavorare di più”, magari se i ragazzi rimanessero a scuola per più ore avremmo la possibilità costruire le nostre unità didattiche in altra maniera e potremmo permetterci una maggiore attenzione nei riguardi dell’attualità. Inoltre i fanciulli starebbero più tempo insieme e meno “vis-à-vis” con il proprio smartphone.
Proseguiamo: i voti. Quante ne abbiamo sentite sui voti quest’anno? Voti sì, voti no, sostituirli con i giudizi, non scrivere niente se non frasi incoraggianti sui compiti, e poi tutti quei casi di giovani studenti caduti in disperazione per un “4”, insomma un capitolo tutt’altro che chiuso.
A Barbiana il voto non è visto di buon occhio, per diverse motivazioni, prima fra tutte perché “è ingiusto fare parti uguali tra disuguali”, in secondo luogo monopolizza l’attenzione e l’interesse degli studenti, facendoli studiare solo per la valutazione, ponendoli in una situazione di ansia e competizione, infine il voto dato non è uno strumento di lavoro e non aiuta gli studenti a migliorare.
Resta difficile immaginare una scuola senza voto, anche se ce ne sono. Personalmente concordo con le motivazioni apportate dai ragazzi di Don Milani, eppure sono una sostenitrice dell’utilizzo dei voti, l’appunto che mi sento di fare tuttavia riguarda una delucidazione necessaria per gli studenti – e i genitori a casa- , il numero che scrivo sul compito è una valutazione circoscritta a “quel” compito in “quel” determinato momento, è solo una valutazione della preparazione “al momento” dello svolgimento della verifica, esso non ha nulla a che fare con la personalità o la totalità del ragazzo, non è un giudizio sulla persona ma solo sul livello di conoscenza che l’alunno aveva in quel determinato momento. Che sia chiaro: i voti cambiano, in meglio o in peggio, e servono per imparare ad essere autocritici verso noi stessi, sono strumenti utili per imparare a migliorare, non solo per quel che concerne i contenuti ma sopratutto per lavorare sull’autostima.
E poi, li bocciamo o no, questi incolti e illetterati studenti dell’ultimo banco?
Ovviamente a Barbiana la bocciatura non è contemplata, al contrario si propone “il tempo pieno”, si assicurano in questo modo più tempo e più mezzi per dare a tutti gli studenti, anche quelli che partono sfavoriti, la possibilità di avere successo scolastico.
Come non essere d’accordo?
Anche qui però ci si scontra con la realtà dei fatti: come convincere i ragazzi di oggi che a scuola si viene per questione di dignità personale, per poter essere sempre in grado di decidere con la propria testa cosa fare e cosa no, anche andando contro la norma comune (se necessario)?
La bocciatura diviene uno spauracchio obbligato di fronte alle classi attuali, ormai composte da individui che non hanno la percezione dell’importanza della cultura e della conoscenza. Concordo con Don Milani, è necessario educare alla dignità e diseducare alle mode, che sono l’antitesi della capacità critica, e condivido che per fare ciò non dobbiamo mettere i giovani sotto una campana di vetro ma dobbiamo aiutarli a divenire liberi pensatori. Questa è la teoria, la pratica poi è tutt’altra cosa.
Ultimo punto: gli alunni. I ragazzi che ci troviamo a fronteggiare oggi non hanno nulla a che vedere con quelli che frequentavano Barbiana, questo purtroppo è vero. Gli studenti di Don Milani hanno ben chiara la propria battaglia, essi alzano la voce perché sanno – come Lucio che possiede 36 mucche – che “la scuola sarà sempre meglio della merda.” I giovani fiorentini si battono per una scuola libera, democratica e popolare, conoscono le fatiche del lavoro e la rassegnazione, hanno ben presente cosa significa avere paura di non poter cambiare la propria posizione sociale o le proprie abitudini di vita, di conseguenza sono giovani coraggiosi, che non temono di esporsi per ottenere quegli stessi diritti scritti nella Costituzione.
I nostri ragazzi non sono così “fortunati”, sono sempre più soli ed isolati, non fanno tardi al pomeriggio o alla sera, non temono le note dei professori, non affrontano individualmente i problemi che non sanno risolvere. Non conoscono i limiti né il brivido che si prova nel superarli, non distinguono il merito perché gli abbiamo insegnato che tutto gli è dovuto.
A furia di “volerli aiutare” li abbiamo resi interdipendenti dagli adulti di riferimento, eppure è il momento di renderci conto che non possiamo salvarli dal crescere.
Forse a scuola da Don Milani dovremmo tornarci un po’ tutti, lui ci incoraggerebbe a prenderci qualche responsabilità in più, forse ci direbbe di fare dei passi indietro e di osservare i nostri “piccoli” mentre si rialzano da soli con le ginocchia sbucciate. Ce lo insegnerebbe con qualche scappellotto sul collo, ma questi sono i rischi che corre chi si ostina a non voler imparare.
ALESSIA CAGNOTTO
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