Per secoli investire in oro è stato considerato un eccellente affare non solo per la possibilità di conservare nel tempo un capitale al riparo da rischi planetari (guerre, crisi economiche, fallimenti
bancari), ma anche di ottenere consistenti guadagni e, soprattutto, di passare importi anche consistenti senza pagare imposte. Acquistare lingotti oppure monete d’oro (sterline, marenghi, dollari, krugerrand, pesos) significava trasformare denaro (spesso contante, frutto magari di transazioni “in nero” o addirittura illegali e
criminose) in un bene rifugio facilmente conservabile in una cassetta di sicurezza al riparo da occhi
indiscreti e trasmissibile senza controlli.
Ricordiamo che nel nostro Paese per i privati è divenuto possibile acquistare e vendere oro da investimento in lingotti solo dal 2000, con la legge che abolì il monopolio dell’oro da parte
dell’Ufficio italiano dei cambi, stabilendo inoltre che la negoziazione dell’oro fosse esente da IVA. Per quanto riguarda il semplice possesso, il privato cittadino che acquista, non è tenuto a fare alcuna dichiarazione.
Un’area di “franchigia” che il governo ha deciso di rimuovere per rendere l’investimento in oro
equiparabile all’investimento immobiliare o in titoli, soggetto quindi a tassazione sulle plusvalenze
conseguite.
Un atto di elementare giustizia fiscale che ha posto rimedio a secoli di evasione. L’imposta colpisce la plusvalenza , cioè il guadagno dovuto dal maggior prezzo di vendita rispetto a
quello di acquisto. L’aliquota è quella ”ordinaria” prevista per ogni tipo di guadagno da investimento, cioè il 26%.
Se ad esempio si acquista un lingotto a 1.000 € e lo si rivende a 1.300 €, sul guadagno di 300 € si
pagherà un’imposta di 78 €. Come in ogni altro caso d’investimento, il prezzo di acquisto e di vendita va documentato con fatture rilasciate da operatori accreditati.
E qui nasce per molti un problema.
Chi ha ricevuto oro grazie ad un’eredità, oppure ha accumulato negli anni le monete regalategli per
comunione, compleanno o altri eventi importanti non ha sicuramente traccia dell’acquisto.
Scatta allora il calcolo “presuntivo”, che fino a dicembre 2023 prevedeva il pagamento del 26% su
una plusvalenza forfetariamente fissata nel 25% della vendita: ad esempio, vendendo un lingotto a
1.300 € non possedendo la certificazione del prezzo di acquisto, si doveva pagare un’imposta pari a
84,5 €. In pratica, il venditore pagava una “patrimoniale” pari al 6,5% del valore di vendita.
Come accennato, però, il regime fiscale tutto sommato “morbido” è stato modificato con la legge di
bilancio 2024 (Articolo 92 a-c L. 30 dicembre 2023, n. 213 ), che ha stabilito che per tutte le vendite di oro di cui non si possiede la documentazione relativa al valore iniziale si paghi un’imposta pari al 26% del prezzo incassato. Riprendendo l’esempio precedente, su 1.300 € l’imposta schizza a 338 € , quattro volte il livello precedente.
Che cosa fare oggi in questo scenario?
Dal punto di vista puramente finanziario l’investimento appare meno conveniente di prima proprio
per il carico fiscale che riduce i profitti che potrebbero essere conseguiti.
Ma ovviamente, poiché comprare oro non è solo un’operazione finanziaria, sicuramente l’aggravio
non fermerà gli acquisti, legati soprattutto al bisogno di sicurezza in un momento di forti tensioni
internazionali.
E resta ancora uno spiraglio di esenzione: le transazioni fra privati, infatti, restano al difuori
dell’area tassabile perché solo nel caso in cui ci si rivolga ad un intermediario ufficiale, occorre
esibire la documentazione richiesta dalla legge.
Certo, probabilmente i compratori pretenderanno uno “sconto” sul prezzo per cautelarsi dal rischio
di dover essere loro, un domani, a subire la tassazione; ma sicuramente lo spazio c’è e continuerà ad
esserci finché il metallo giallo circolerà…
Gianluigi De Marchi
Giornalista e scrittore
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