La felicità non è una meta

Se chiedessimo a dieci persone cosa sia la felicità o, peggio, se siano felici otterremmo sicuramente dieci risposte diverse ma, sicuramente, su un punto concorderebbero quasi tutti: se non hanno già raggiunto la felicità la raggiungeranno facendo questo o diventando quello o acquistando una certa cosa.

Nell’accezione originale del termine la felicità è un sentimento, positivo, quando raggiungiamo un obiettivo, o, come dice wikipedia, quando riteniamo soddisfatti i nostri desideri.

E’ evidente che se così fosse noi saremmo soddisfatti per il tempo necessario a godere l’oggetto acquistato (o regalato), il traguardo di studi o lavorativo raggiunto ma subito dopo, per una caratteristica tutta umana, subentrerebbe nuovamente l’insoddisfazione; questo è tanto più valido quanto più la nostra civiltà è industrializzata, moderna, tecnologica.

Chi di noi sia stato in Paesi meno agiati, come la Repubblica Dominicana, il Kenya, la Costa d’Avorio o Capo Verde, per citarne solo alcuni, avrà notato come gli indigeni siano sempre allegri, felici pur non disponendo di nulla, né abitazioni che da noi sarebbero normali, né soldi, né automobili di lusso e talvolta neppure la salute; hanno, però, una filosofia di vita che li porta a considerare positivamente ciò che incontrano quotidianamente:  la natura, un mare stupendo, la salute per cagionevole che sia, il lavoro, i figli, essere vivi.

Dall’altra parte del pianeta, invece, riteniamo di essere più fortunati, tecnologici, moderni e, quel che è peggio, civilizzati ma abbiamo perso il vero benessere, la felicità, la gioia.

Inseguendo la felicità ci ispiriamo al vicino di casa che saltella di gioia ammirando l’auto nuova per la quale ha rinunciato a qualche anno di ferie o al collega che brinda alla promozione ottenuta: siamo sicuri che siano realmente felici? E ora che uno soffrirà ogni volta che compare una riga sulla carrozzeria o trova un’ammaccatura, anche lieve, da parcheggio e l’altro sentirà il peso delle maggiori responsabilità e dovrà fermarsi di più in ufficio saranno ancora felici? Io dico di no, perché hanno idealizzato il concetto di felicità considerandolo una meta, un obiettivo da raggiungere anziché un sentimento da provare, da sentire mentre raggiungi quotidianamente la meta prefissata.

C’è chi subordina la propria felicità all’incontro con la propria anima gemella: nobile intento vanificato però dalle numerose insidie che ogni giorno, accoppiati e singoli, incontrano sul loro percorso: stress, scadenze, malattie cosicché, dopo un tempo più o meno lungo, occorre cercare nuovamente la felicità.

Appare quindi evidente come la felicità non possa e non debba essere considerata come una meta da raggiungere ma come uno stato d’animo che deve accompagnarci durante il conseguimento di ogni obiettivo, sia esso lavorativo, sentimentale, familiare, personale, ecc.

Soprattutto non dobbiamo in alcun modo pensare che ciò che rende felice qualcuno possa rendere felice, ipso facto, anche noi;in primis perché non siamo sicuri che tizio sia realmente felice, poiché spesso le persone fingono una soddisfazione che non hanno, un risultato che è fasullo solo per generare invidia, per non ammettere il proprio fallimento. In secondo luogo, perché ogni persona è diversa da un’altra per carattere, educazione, gusti personali, cultura e così via e ciò che ad una persona provoca gioia, felicità ad un’altra può essere indifferente o addiritturafastidiosa.

Molti miei amici amano la barca, trascorrere una vacanza in navigazione, soprattutto in barca a vela: io provai quarant’anni fa a conseguire la patente nautica ma trascorsi l’intera giornata spalmato sul fondo della barca a causa del mal di mare; è evidente che non potrei mai essere felice in quella circostanza, né al pensiero di aderire ad un viaggio simile.

Da quando mi occupo di coaching mi scontro, idealmente, con le tesi propugnate da alcuni colleghi che ti invitano a indagare sui motivi per cui non si è felice, a diventare padrone di sé stessi, a eliminare ogni causa di insoddisfazione con un generico corso o training, uguale per tutti, che ti farà recuperare gli anni persi.

Non entro nel merito della metodica, ma mi permetto di obiettare che, essendo ognuno di noi diverso dagli altri, e credendo io nella dottrina olistica (dal greco ὅλος = tutto, intero) non si può pensare di aiutare una persona a incontrare la felicità e condurla con sé  mentre viaggia alla ricerca di questo o quello se non si valutal’insieme di sentimenti, emozioni, problemi, esperienze e limiti mentali che un individuo porta con sé.

Anni fa il mio amico Gaetano Capitano scrisse per i cantanti Fabi, Silvestri e Gazzé, la canzone “Il Dio delle piccole cose”: ecco, io credo che anche nelle piccole cose si possa trovare il divino, che anche da esse si possa partire con la felicità come compagna di viaggio all’inseguimento dei propri obiettivi.

Quando ci apprestiamo a fare un viaggio con un amico o un parente verso un certo luogo, questi sono i nostri compagni di viaggio mentre la meta è il luogo dove ci stiamo dirigendo; allo stesso modo la felicità sarà la nostra compagna di viaggio (e se siamo intelligenti viaggeremo sempre con lei) mentre il luogo sarà ciò che vogliamo raggiungere in sua compagnia.

Perciò mi sento di suggerire a tutti di trovare la felicità nella quotidianità, in ciò che a noi fa stare bene; chi di noi si pone la tristezza o l’infelicità come obiettivo? Credo nessuno: al massimo è un sentimento, però negativo; perché allora non cerchiamo la felicità e, con essa, proseguire il nostro cammino?

Sergio Motta

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