Repliche sino a sabato 23 dicembre al Carignano
“Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”: è l’incipit, conosciuto, che immette il lettore (e oggi lo spettatore) all’interno dell’universo di “Anna Karenina”, romanzo tolstoiano avversato alla sua uscita (1877) a puntate su un periodico russo, in seguito magnificamente rivalutato da Dostoevskij (“come opera d’arte è la perfezione, niente della letteratura europea della nostra epoca può esserle paragonato”), e più vicino a noi da Nabokov, che lo definì “il capolavoro assoluto della letteratura del XIX secolo”. Ricavata da un fatto di cronaca di cui Tolstoi venne a conoscenza, la vicenda della donna di San Pietroburgo che, divenuta appassionata amante dell’ufficiale Vronskij, rompeva gli argini della sua vuota vita e dell’ipocrisia della buona società della città, coinvolgendo la famiglia, la propria fedeltà, la fisicità e l’erotismo, l’istituzione del matrimonio, la fede e la passione, i tanti compromessi, sino alla finale dannazione, rispecchiando il proprio sfacelo con la felicità di altre coppie, si allinea alla Emma di Flaubert (romanzo pubblicato vent’anni prima) e compie un passo ben più ardito e doloroso nel frantumare ogni schema rispetto alla Nora ibseniana.
Una vicenda di cui s’impadronì il cinema, in anni diversi e in varie latitudini, come la televisione e il teatro (se ne vide una quindicina di anni fa una acclamata edizione firmata da Eimuntas Nekrošius). Oggi, lo Stabile di Catania e il Biondo di Palermo portano al Carignano sino a sabato 23 dicembre, per la stagione dello Stabile torinese, l’edizione firmata da Luca De Fusco, che nella riduzione (due ore e 30’ con intervallo, necessaria all’attenzione del pubblico) per il palcoscenico del po(n)deroso romanzo si è avvalso della collaborazione di Gianni Garrera. Un’edizione pronta a “sdoppiarsi”, in un doppio drammaturgico e letterario, riprendendo la lezione ronconiana del “Pasticciaccio”, ovvero offrire agli interpreti non soltanto le battute di Anna, del tradito Karenin, di Vronskij, del fratello Stepàn, di Dolly e di Kitty, dell’impacciato Lèvin ma pure i piccoli, brevissimi, brani del romanzo (memorizzate, di tanto in tanto libro alla mano), una sorta di coro antico, interiorizzando, spingendo gli attori a parlare a se stessi o a parlare fuori del dramma con chi sta in quel momento di fronte, con i pensieri e con le suggestioni, con i commenti e con i racconti, con i tentativi di rimette ogni cosa in sesto, con i sentimenti e i turbamenti che nascono dallo svolgersi delle azioni. È una felice evidenza che coinvolge lo spettatore più di quanto non faccia già la meraviglia del palcoscenico – immerso, uno dei suoi maggiori punti di forza, nella scenografia (e nei costumi, scuri per gli uomini, un caldo rosso magenta per le donne) di Marta Crisolini Malatesta, il salotto buono per gli incontri e le chiacchiere e le confessioni, la stazione con l’orologio a segnare il tempo che scorre (ben più sottolineato da Nekrošius), il treno della scena finale che avanza a ghermire e schiacciare Anna -, un’evidenza cresciuta dalla luci di Gigi Saccomandi, sparate dall’alto dentro il buio della scena, aprendo ritagliati spicchi luminosi che danno vita alle presenze di questo o di quell’attore.
Un coinvolgimento che De Fusco, in una regia in cui traspare appieno la tragicità della vicenda, attenta ai particolari, non certamente soltanto legata alla pura narrazione, accresce grazie alle proiezioni a colori e in bianco e nero che scorrono sul velario che è concreta e impalpabile al tempo stesso quarta parete tra scena e platea. La scena del ballo, con il trascinante suono delle mazurche, la passione e l’eros che travolgono Anna e Vronskij, i tanti primi piani con cui specialmente Anna si offre allo sguardo dello spettatore: momento di un cinema che è ben lontano da quello della Garbo e di Clarence Brown ma che accarezza da vicino, assai più modernamente, quello di Keira Knightley e di Joe Wright, vivo e toccante. Appare in quel viso tutta la grandezza dell’interpretazione di Galatea Ranzi (è un grande momento, tutto da godere, il monologo finale), imperiosa in ogni tratto sulla scena, frivola e sofferente, fanciullesca e donna forte, desiderosa di cancellare i legami dettati da quella società in cui vive, coraggiosa e folle, imprigionata nell’affetto che nutre per il figlio. Un grande ritratto, un personaggio sfaccettato in maniera esemplare, una dizione (come quella dei suoi compagni) che mettono da parte certi farfugliamenti o imprecisate offerte del teatro odierno. Un angolo di esatta ironia, di allegria più o meno frenata, arriva da Stefano Santospago, il fratello Stepàn, una citazione per il Karenin di Paolo Serra e per il Lèvin di Francesco Biscione, mentre appare sfocato il Vronskij di Giacinto Palmarini, non scavato, insoddisfacente. Spettacolo lungamente in una delle repliche a cui ho assistito, lungamente.
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Antonio Parrinello
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