Si avvicinano le ultime proiezioni di questo 41mo TFF, edizione mai affollatissima (giusto aspettare le cifre a completo spegnimento degli schermi), tranquilla nei titoli offerti ovvero digiuna di una o forse più storie che abbiano – al di là di innocenti contrasti, di pareri discordi subito persi all’uscita delle sale, di opinioni che non intaccano amicizie né accendono chiassose chiacchierate – espresso il caso eclatante, il film bomba. Curioso di vedere come saprà comportarsi la giuria alle prese nella riunione finale con chi lasciare fuori dai premi e chi onorare di un riconoscimento. Per il momento, in concorso, dal cinema dell’Arabia Saudita, ad opera del regista Ali Kalthami, veniamo a sapere che “mandoob” è termine che dà il titolo al film e che sta a significare non soltanto il fattorino, colui incaricato di consegnare un pacco ma altresì chi possa essere compianto per la perdita di una persona o per una qualche altra disgrazia o tout court una persona sfigata. In una notte fatta delle luci delle auto imbottigliate in un traffico sempre congestionato e delle ombre dei vicoli dei quartieri poveri di Riyad, pronti ad alternarsi con quelli lussuosi e illuminatissimi, architetture avveniristiche che sono rifugio più o meno esposto e chiaro di gente piena di denaro, quel termine si appiccica a Fahad, uomo in tutta apparenza tranquillo, un padre da curare e al quale dedicare più attenzioni e una sorella, madre di una bambina, che lui cerca di aiutare economicamente, dividendosi tra le consegne della notte e l’impiego quotidiano nei box di un call center. Un’aggressione a sconvolgere la tranquillità dell’uomo, un ritorno della memoria e della vicenda a qualche giorno precedente – strizzando l’occhio ad un thriller magari d’oltreoceano: che gli americani non ne rubino il soggetto? – per raccontare la fitta spirale di violenza entro cui il protagonista è caduto. Tanto per cominciare il licenziamento di Fahad, arriva in ritardo e con i clienti che intercetta al suo telefono risponde frettolosamente, dando poi di matto con il responsabile al momento in cui gli viene imposto di fare le valigie. Si butta sulle consegne, in un mondo dentro a cui guarda alla corruzione, all’illegalità, al denaro facile, alla merce che sottrae a chi tenterà con ogni mezzo di recuperare. Alla sua voglia di emergere, qualsiasi siano i modi e i mezzi. Fahad cerca il successo sporco, come tanti fanno e hanno fatto prima di lui, buttarsi nel traffico degli alcolici potrebbe aprirgli un tranquillo futuro: ma la sua notte di ordinaria follia si tinge sempre più di colori lividi. Seppur con un ritmo quasi ad ogni giravolta convincente, il film di Kalthami si ferma all’esposizione avventurosa dei fatti senza voler rovistare più a fondo in quel terreno scivoloso in cui il protagonista si è imprudentemente avventurato.
Ancora in concorso, batte bandiera ucraina – ma i giorni dolorosi che la nazione sta vivendo non ci sono mostrati, semmai le decadi precedenti, con la politica e la storia degli anni Novanta della Russia e l’Ucraina da poco indipendente -, “La palisiada”, ancora una terminologia e un significato a fare da titolo ad un film. Palisiada, ci verrà spiegato quasi al termine dell’opera firmata da Philip Sotnychenko, sta a significare una ridondanza di parola: come se quella tanto attesa spiegazione facesse definitivamente luce su quanto di troppo per noi confuso abbiamo visto in circa 100’ minuti di proiezione! Un ispettore di polizia e uno psicologo forense si ritrovano a far luce sull’esecuzione (è una delle ultime, tra non molto la pena di morte verrà abolita) di un uomo condannato per la morte di un ufficiale, la ricerca delle prove, l’infedeltà delle immagini e le testimonianze di donne mute arbitrariamente tradotte, la sua spiccia condanna eseguita con metodi bui e quantomai sbrigativi, un’eliminazione sviata a carico di un qualche malato burocrate o di un drappello governativo (?) che sta contando le sue ultime ore. Un colpo di pistola finale anticipato da un altro iniziale, improvviso, stupido, in un ambito familiare, ancora più inspiegabile, ancora più oscuro. Nessuno osa dire che Sotnychenko, qui all’opera d’esordio, sia uno sprovveduto alle prime armi, il rastrellamento dei prigionieri o le carrellate sui mercatini posti sui binari fanno cinema robusto, come quel girovagare con la macchina da presa in un alloggio che sta per essere abbandonato, uno sguardo attento e pietoso su mobili, oggetti, sulla carta scolorita che ricopre le pareti, come quel cercare sul corpo di una donna attraverso i tatuaggi i ricordi del passato: ma lo spettatore tranquillo dell’Occidente avrebbe la pretesa di barcamenarsi all’interno con un po’ più di sicurezza. Avvertiamo il rimando all’Ucraina di ieri e a quella di oggi, ma parecchio non è chiaro quando si esce dalla proiezione.
C’è già un piccolo passato cinematografico alle spalle della regista sudcoreana Jiyoung Yoo. In “Birth” la giovane Jay è una scrittrice che tenta di sfondare nel mondo dell’editoria, il suo compagno Gun-woo un apprezzato insegnante di lingua inglese che viene spinto dal direttore della scuola a accettare il posto di responsabile della nuova succursale per i più piccoli. Tutto pare filare nel migliore dei modi: se non fosse per una indesiderata gravidanza che viene a disturbare i progetti del futuro. Jay vorrebbe rinunciare al proprio bambino, il suo stato fisico non glielo permette mentre la situazione inizia a rovinare un solido rapporto di coppia; lui coltiva in sé il desiderio di costruire una famiglia e si deve addossare l’intero andamento della casa. Come se non bastasse, a confondere l’esistenza della donna è quella autobiografia con cui costruisce il suo nuovo romanzo “Birth” come la consapevolezza tutta personale che la gravidanza stia rendendo sterile la sua vena di scrittrice, che altre del suo gruppo abbiano quel successo è ormai negato, che anche chi ha sempre creduto in lei e sempre l’ha sostenuta stia tornando sulle proprie idee. Resistono appieno due caratteri che continuano a fronteggiarsi, fermo ognuno nelle proprie convinzioni: ed è nello studio finissimo di quelli che la buona mano della regista eccelle. Tuttavia, secondo un modo di fare cinema intimamente legato al suo tempo e soprattutto ai suoi luoghi, un mondo di silenzi, di sguardi, di scene bruscamente interrotte, di dialoghi asciugati e rarefatti, di fissità protratte per troppi secondi che stridono con i nostri “mezzi” e con i nostri sentimenti di fare cinema.
Elio Rabbione
Nelle immagini: scene tratte da “Mandoob” (Arabia Saudita) per la regia di Ali Kalthami; “La palisiada” di Philip Sotnychenko (Ucrania); “Birth” della regista sudcoreana Jiyoung Yoo.
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