TFF: “Non riattaccare”, un’altra grande prova per Barbara Ronchi

Nei mesi del lockdown, il chiuso delle proprie case e le chiusure agli altri obbligatorie, i rapporti pressoché azzerati, le notti come spazi di pace. Ma non per tutti. Quando è ancora tutto immerso nel buio, quando nella strada passano soltanto le luci e la sirena di una autoambulanza, Irene viene svegliata dall’ex Pietro, non lo sente da tempo, l’agitazione di lui, una voce stanca e rotta, se ne sta in bilico sul tetto della casa di Santa Marinella, chiede il suo aiuto. Sono le prime scene di “Non riattaccare”, unico italiano in concorso, tratto liberamente dal romanzo di Alessandra Montrucchio, scritto (con Jacopo Del Giudice: un thriller? una seduta psicanalitica?) e diretto da Manfredi Lucibello, classe 1984, fiorentino, arrivato alla sua opera seconda, dopo “Tutte le mie notti” di cinque anni fa. Una sorta di felicissimo risultato, un capolavoro di scrittura e di resa nel cuore del TFF, che guarda alla Magnani disperata in piena area Cocteau e quel “Locke” inventato dal regista inglese Steve Knight per Tom Hardy, raccontato nel chiuso di un’auto.

Perché anche qui, non potendo rinunciare a quel sentimento che ancora le sta stretto nel cuore, in fondo un rapporto mai terminato, Irene è pronta a mettersi in macchina, a combattere con la benzina che è sempre più in riserva e con i distributori chiusi, con il cellulare che va scaricandosi e un caricabatteria da rubare, con i porci che vorrebbero approfittarsi di lei e un paio di poliziotti che le fanno rovistare nella borsa pur di ritrovare libretto patente e permesso di circolazione, soprattutto con i dialoghi di Pietro (un Claudio Santamaria invisibile, una voce soltanto, ma capace di farsi personaggio concreto e autentico attraverso un lamento, una parola precisa o una frase che chissà dove porterà il dialogo dei ricordi, delle insinuazioni, delle cose taciute e di quelle troppo urlate) che va guidato, tenuto a bada, terrorizzato o sorretto con amore. Difficile tenere per 90’ ben alta e salda la tensione, far filtrare all’attenzione dello spettatore – che si spera non venga mai meno – un passato e un presente, rifuggire i luoghi comuni, costruire emozioni vere e giuste invenzioni sonore: Lucibello ci riesce appieno, non un attimo di ripetizioni o di noia, circondato da un gruppo di collaboratori – Emilio Costa direttore di fotografia, Diego Berré con un montaggio da applauso, le musiche ossessionanti di Motta – di primissimo ordine.

Poi, c’è Barbara Ronchi al centro della vicenda, di ogni racconto, di qualsiasi sensazione, di ogni sguardo. Un’attrice che quest’anno s’è vinta un David e un Nastro, che è la cancelliera della Tataranni e ti diverte, che scala le montagne più alte del drammatico: e ti convince. Guardare i gesti convulsi, la disperazione e gli affetti riscoperti e trovarti davanti ad un’attrice che ad ogni prova ti piace riscoprire, analizzare. Un miracolo di intelligenza e di dedizione.

Fuori concorso, torinese ormai sessantenne, regista intimista e pronto a cavalcare la gioventù di Montalbano, Gianluca Tavarelli punta al divertimento e all’analisi del nostro tempo con “Indagine su una storia d’amore”, sovvertendo, capovolgendo lo sguardo drammatico con cui aveva affrontato la coppia in “Un amore” nel 1999. Oggi, lo sguardo è su Paolo e Lucia, anni insieme ma un rapporto che si sta esaurendo, una vita d’attori che non gira, un paio di pose di tanto in tanto, un provino che chissà dove porterà, il cinema indipendente a secco di quattrini e la grande produzione sempre soltanto sognata. E se ci fosse data la possibilità d’affrontare le telecamere di una tivù, la possibilità di raccontare la nostra storia, vedrai andrà tutto bene, cominceremmo a entrare in milioni di case d’italiani, la gente ci riconoscerebbe, finalmente arriverebbero le scritture. Paolo recalcitrante, Lucia al colmo dell’entusiasmo. Ma se telecamera è, il racconto deve essere completo, senza censure, del tutto scoperto. Si dovrà raccontare un passato, con i continui ardori sessuali di lui (è Alessio Vassallo, il femminaro Mimì, compagno e giovane sciupafemmine del giovane Montalbano; lei è Barbara Giordano), le bugie, tutto un entroterra sconosciuto cui entrami cercheranno di sottrarsi, bisognerà affrontare i genitori di lui che non riescono neppure più ad uscire di casa e un intero paese che ha decretato l’ostracismo. Lo spunto poteva essere buono, forse ottimo (considerato il mondo sciupato della televisione e di certi suoi programmi con maggiore introspezione), se il tutto dopo la prima mezz’ora non si fosse risolto in una sequenza più o meno boccaccesca di incontri e sotterfugi e abbandoni. Anche la simpatia dei due interpreti in fin dei conti finisce per venire meno, lasciandoci supporre che il tentativo di Tavarelli, nonostante le risate del pubblico, nel territorio della comicità stia un po’ stretto e azzardato.

Un’isola a parte, “Luci dell’Avanspettacolo” è un gustosissimo affresco dentro il quale è lo stesso direttore del TFF, Steve Della Casa, come nuovo Virgilio degli anni Duemila, ad accompagnare lo spettatore che abbia deboli ricordi circa una forma d’arte che possiamo far partire dai cafè chantant degli anni Trenta (ma dovremmo risalire alla seconda metà del Seicento, in Francia, quando una compagnia italiana ebbe l’idea di frapporre ai versi alcune brevi canzoni), che ebbe il proprio periodo più felice durante la guerra e il periodo postbellico, per spegnersi con i varietà televisivi dei Settanta. Un affresco che è dovuto ad un’idea di Antonio Ferraro e alla regia di Francesco Frangipane (gli stessi produttori di “Non riattaccare”: Carlo Macchitella scomparso di recente, Piergiorgio Bellocchio e i Manetti Bros.), 70’ di ricchezza di materiali, conosciuti e no, nel vorticoso montaggio di Annalisa Schillaci, con attori e registi di oggi – Lillo e Greg, Antonio Calenda, Massimiliano Bruno, Enrico Vanzina, Gino e Michele, David Riondino e Margherita Fumero (“rivedo ancora quando a sei anni mia mamma mi accompagnò al Maffei, a me del film non importava nulla, furono le ballerine a colpirmi… e poi la Osiris, magari dalle doti artistiche non altissime ma bella come una dea… e l’arte di Macario!”) a raccontare di Petrolini, di Totò e Fabrizi, della grandiosa Magnani, di Billi e Riva, di Franco e Ciccio, dei primi approcci di Gina e Sofia, pronte a sgambettare e a sgomitare, delle tante gag inventate e divenute un repertorio, dei gatti morti lanciati in palcoscenico, degli scambi di parole e di gesti non sempre al colmo della gentilezza con il pubblico che aveva le proprie esigenze, degli inviti e dei pranzi scroccati ad un nobilotto di paese quando le compagnie, poverissime, si avventuravano per le strade d’Italia, gli alberghi che rifiutavano le notti nella paura di non essere pagati, le soubrette che avanzavano qualche trattamento di favore e le soubrettine che avrebbe continuato a restare relegate in terza o quarta fila, per tacere di quelle che in qualche maniera s’aggiustavano. Con il gran bagaglio di costumi ridotti, di cosce bene in vista, dei mazzi di fiori degli ammiratori. Il vecchio avanspettacolo avrebbe lasciato il posto alla rivista, e alla commedia musicale in seguito. Ognuno racconta e testimonia, cattura immagini anche cinematografiche, da “Luci del varietà” (1951) con cui Fellini e Lattuada ruppero un sodalizio rivendicando una controversa paternità, a “Vita da cani” firmato da Monicelli e Steno, che approfittarono dei bisticci dei colleghi per uscire prima nelle sale, a “Ci vediamo in galleria” di Bolognini (1953), che sognava su quel luogo di riunioni, di scritture sognate, di successi e insuccessi, a “Polvere di stelle” dove Sordi e la Vitti – come si fa a dimenticare Mimmo Adami e Dea Dani? – riuscivano a resuscitare del tutto un’epoca. Ma era un’epoca che terminava, il pubblico a teatro aveva altri gusti e altri beniamini: ci avrebbe ancora provato Bramieri con il suo sonoro “Felicibumtà”. Ma eravamo arrivati alla fine degli anni Settanta.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Barbara Ronchi, interprete di “Non uccidere”, una scena di “Indagine su una storia d’amore di Gianluca Tavarelli e un momento di “Luci del varietà” per la regia di Fellini e Lattuada, tra gli interpreti Giulietta Masina e Peppino De Filippo.

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