Alla Promotrice i grandi maestri, piccoli capolavori e l’acerbo di certe opere

181a Esposizione, sino al 15 ottobre

Ci si muove sempre con una certa, seppur piacevole, “fatica” ad ogni annuale inaugurazione tra le opere pittoriche e di scultura che riempiono le sale della Promotrice torinese (da venerdì scorso il 181° appuntamento, in programma sino al 15 ottobre) di via Balsamo Crivelli. Anche un rito, d’obbligo, di saluti, di abbracci, di sorrisi, di qualche scantonamento, postestivi. Numeri non indifferenti, 675 le opere esposte, 357 gli artisti presenti, momenti in cui si scopre, all’interno delle dodici sale, come scrive Angelo Mistrangelo, Vicepresidente della Società Promotrice delle Belle Arti, “la magia del colore e delle strutture compositive”. L’allestimento, ancora una volta, nelle mani dell’instancabile Orietta Lorenzini, a cui si deve egualmente la redazione del catalogo, che ospita autori del passato e contemporanei, pronti ad affrontare attraverso le loro opere “una realtà colta con un senso di intima, meditata e misurata resa espressiva”.

Grande attenzione ai lavori degli artisti scomparsi, “che contribuiscono a stabilire connessioni, riferimenti, contenuti nell’ambito della creatività tra Novecento e nuovo Millennio, ricerca e sperimentazione”: dalla “Pioggia di stelle” di Mastroianni del 1990 ai “santoni” che hanno il largo tratto di Spazzapan, dal “Paesaggio” di Albino Galvano alle “conchiglie” di Soffiantino, dalla “Serie” di Nini Maccagno al “Porto” di Enrico Paulucci, dal “Totem” di Mario Sturani del ’36 al “Paesaggio” di Giulio da Milano, al “Leprotto”, suggestiva acquaforte di Mario Calandri.

Nel salone d’entrata, trovano posto la “Magia” di Gabriella Malfatti e le vivaci “Marionette” di Giorgio Cestari, la “Sonata per violino” di Giancarlo Gasparin con perfette atmosfere d’altri tempi, la gioia del colore trasmessa dal “Vigneto” di Bruno Molinaro, gli eterni cieli di Antonio Carena, gli stornelli e la delicatezza delle nuvole nella tela di Anna Maria Palumbo, la lineare “Danzatrice” di Claudia Sacerdote e il “Prigione” di Sergio Unia. Una lunga sequenza di opere si snoda attraverso le sale, colori e forme, realismo e astrazione, classicheggiante e sperimentazione, momenti di concreto interesse e prove che necessitano ancora di maggiore irrobustimento. Le prove dello scomparso Attilio Lauricella, le forme possenti che Tatiana Veremejenko ha impresso ai suoi personaggi femminili, la fantasia dei fenicotteri di Giacomo Gullo (“Non dare i biscotti ai fenicotteri”), una bravura troppo presto strappata dal Covid, le forme evanescenti del “Mercato andaluso” di Elio Pastore.

E ancora le presenze di Luciana Bey, di Anna Borgarelli, della “Primavera di mezzo inverno” di Magda Tardon e degli acquerelli inconfondibili di Lidia Dalloste, la bella prova nella lunga fila di alberi (“Sentiero illuminato”) di Giuseppe Faretina, grafite e matite colorate che giocano con i chiaroscuri. E ancora, attraversando qua e là, la matura composizione di Adriana Caffaro Rore (“Deposizione di Cristo”), i “Ricordi in bianco e nero” di Simonetta Secci, il taglio prezioso e inconsueto che Giacomo Sampieri dà al suo “Sulla strada”, le mani ferite e il viso struggente della donna offerta da Alessandro Fioraso in “Che cosa mi rimane”, fatto di soffocata disperazione il mare di Silvana Sargiotto (“Onda su onda”).

Nessuno me ne voglia, ma attraversando le sale, pur con l’apprezzamento innegabile della maggior parte delle opere esposte, di tanto in tanto, di fronte a prove che rimangono esclusivamente prove, acerbe e inconcluse, si rimane sconcertati dalla pochezza e dall’approssimazione di alcuni tentativi, improvvisazioni, debolezze, pretesti e pretenziosità, elucubrazioni fasulle, vuoti montaggi. È il male inesorabile, senza se e senza ma, delle piccole o grandi associazioni e delle partecipazioni, vittime di certe leggi che non fanno che indebolire una intera doverosa rassegna. Sarebbe augurabile una setacciatura maggiore, una mano maggiormente stretta e un occhio più attento e libero, numeri non troppo corposi, una far chiarezza autoimposto, magari tra mille difficoltà e rinunce, che incontrerebbe con maggior ragione quanto ognuno dovrebbe intendere come una delle tante nostre Grandi Bellezze.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Bruno Molinaro, “Vigneto” (2019), Giacomo Sampieri, “Sulla strada” (2022), Alessandro Fioraso, “Che cosa mi rimane” (2023)

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