I genitori hanno il compito, quando ancora non sono tali, di concepire e procreare, garantendo la prosecuzione della specie, nutrendo i figli fino a che non siano in grado di farlo da soli e impartendo le prime regole di vita, evitando il verificarsi di infortuni, vigilando sulla loro incolumità e insegnando a vivere nel contesto nel quale si trovano.
Fin qui nulla di nuovo.
Da alcuni decenni, però, molti genitori hanno smesso quel ruolo per assumere quello di amici, considerandosi alla pari con i figli, scambiando con questi dialoghi ed esperienze che poco hanno con il rapporto genitoriale ma hanno quasi tutto del rapporto di amicizia.
Mi spiego meglio: la sostanziale differenza tra genitori e figli è l’età e, con essa, la maggior esperienza di chi sia più anziano; questa esperienza consiste in un bagaglio di esperienze, di vita vissuta che è dovere dei genitori portare all’attenzione dei figli.
Insegnare loro ad attraversare la strada, a masticare bene, a lavarsi i denti, a rispettare gli anziani, a chiedere “per favore”, dire “grazie” e “scusa” e molto altro.
Ma, proprio perché educatori, i genitori hanno anche il dovere di punire (in senso buono) i figli quando sbagliano: se rompono un oggetto dovranno spiegare al Gianburrasca domestico che occorre fare attenzione, che l’oggetto costa o era indispensabile in casa, ecc. Occorrerà insegnare il significato del denaro, dei sacrifici, della giusta ricompensa quando si lavora, ad esempio erogando una paghetta settimanale o un piccolo premio se a scuola ottengono risultati ottimi, e non soltanto buoni.
Se i genitori, però, smettono di essere tali e si calano nel ruolo paritetico di amico viene a mancare una parte determinante dell’educazione filiale. Ricordo, ai tempi del liceo, genitori di miei compagni che si facevano le canne in camera col figlio o che, ancora peggio, accettavano quasi complimentandosi che il figlio marinasse la scuola, magari organizzando un mini rave in salotto, o che venisse portato in Questura perché trovato in possesso di stupefacenti.
In quegli anni perdemmo le notizie di un nostro compagno che si era recato in Marocco in viaggio di fine maturità (noi sapevamo che era andato a comprare erba all’ingrosso); quando dopo un mese in cui non si avevano notizie la sorella mi contattò mi stupii che i genitori non avessero presentato denuncia o allertato il Consolato. Ovviamente toccò a me occuparmene, investendo del problema la Croce Rosa che a sua volta contattò la Mezzaluna Rossa (equivalente alla Croce Rossa nei Paesi islamici) e si scoprì che il pargolo era detenuto in un carcere; non so come fu fatto rientrare in Italia ma, evidentemente per lo shock o per particolari esperienze in cella, non fu mai più quello di prima.
Mi domando: possibile che non vi sia, da parte dei genitori, alcun controllo su un ragazzo di 18 anni che va in Marocco (e all’epoca non esistevano cellulari, internet, social, ecc). Non sai con quanti soldi è partito o non ti domandi a cosa gli servano?
Purtroppo, a convalidare la mia tesi c’è l’esperienza vissuta da molti miei coetanei, i cui genitori hanno rivestito il ruolo di amici anziché di educatori, che hanno creato dei perfetti incapaci di affrontare la vita e di costruirsi un futuro solido, cresciuti nella convinzione che tutto sia corretto, tutto sia concesso, tutto sia possibile.
Il sociologo Gianfranco Giuni sostiene (ed io condivido in toto il suo pensiero) che assecondare alcune tendenze di un figlio non aiuti la sua crescita armonica, il suo sviluppo sano ma, al contrario, ne legittimi il comportamento errato. Se un figlio è etilista (o sulla strada per diventarlo) o assume stupefacenti, un genitore non deve procurarglieli per solidarietà o pietà, perché il figlio penserebbe che il suo stile di vita sia corretto, visto che i genitori lo assecondano.
Quei genitori dovranno, invece, intervenire perché il figlio capisca la gravità del suo comportamento e si possa modificare quello stile di vita, portandolo ad un Ser.T. o intervenendo comunque in modo corretto.
A questo proposito mi torna alla mente un brano da La Repubblicadi Platone:
“Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano a sazietà, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati despoti.
E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani.
In questo clima di libertà, nel nome della libertà, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.”
Sergio Motta
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