Con la legna ci si scaldava cinque volte. La prima tagliando l’albero prescelto tra i tanti del bosco; una seconda dopo l’abbattimento e la pulizia del tronco quando, sezionato a pezzi, lo si portava a casa; la terza e la quarta con la riduzione a sezioni più piccole utilizzando la sega circolare e il successivo colpo di scure sui ciocchi, spezzandoli in due parti.
Infine, ed era la quinta, quando veniva bruciata nella stufa che in tanti avevano in cucina, il vecchio putagé che serviva a riscaldare e a cuocere gli alimenti sulla piastra di ghisa arroventata o nel forno. Quello del “far legna” è stato un rito che veniva immancabilmente celebrato a scadenze fisse. Personalmente l’ho praticato dai sette fino ai venticinque anni, sulle pendici boscose del Mottarone tra Baveno e Oltrefiume. Mio padre sceglieva l’albero, assicurava una corda al tronco arrampicandosi in alto con l’agilità di un gatto allo scopo di così indirizzarne la direzione di caduta tendendo la fune, e poi s’iniziava il taglio al piede, con la sega e l’ascia. La motosega arrivò più tardi, sostituendo quella a mano che, in due veniva tirata con ritmo da una parte all’altra. Eseguito un taglio abbastanza profondo da consentire l’oscillazione del tronco, si accompagnava la caduta secondo l’orientamento stabilito. Una cosa facile a dirsi ma molto meno nella pratica poiché bastava un nonnulla per sbagliare, con il rischio di far danni e persino di farsi del male. Una volta a terra l’albero veniva privato dai rami a colpi di falcetto o, nei casi più ostici, di ascia. Le sezioni del tronco non superavano mai il metro e ottanta, secondo il diametro e il peso, per portarle a spalla fuori dal fitto della macchia. Un impegno tutt’altro che agevole, spesso molto faticoso quando capitava si dovere risalire una china. Raggiunto il sentiero ai margini della boscaglia, con un cuneo di ferro ben piantato nel legno al quale era fissato un anello con una corda, i tronchi – uno alla volta – venivano trascinati per quasi un chilometro fino all’altezza della strada. Se si potevano accatastare, una volta esauriti i viaggi, si trasportava il legname con un motocarro fino all’abitazione. Altrimenti, come accadeva più spesso, ci si caricava il tronco in spalla, bilanciandone bene il peso, e lo si portava così fino a casa per un altro buon chilometro. Ogni giorno un paio di viaggi o anche tre. Poi, terminata questa fase che durava settimane e a volte qualche mese, in base al quantitativo e al tempo a disposizione, si passava ai successivi tagli e all’accatastamento prima dell’utilizzo finale del legno, accatastato e stagionato nella legnaia, come combustile. Non era propriamente una passeggiata di salute. Ricordo bene che un giorno rischiai il congelamento dei piedi. Era nevicato e la legna tagliata andava portata fuori dal bosco prima che gelasse. Già così, bagnata, era pesantissima da sollevare;figurarsi se il freddo l’avesse chiusa in una morsa ghiacciata, saldando un tronco all’altro . Per non bagnarmi, stupidamente, avevo calzato degli stivali di gomma dal numero giusto, indossando delle calze per niente spesse. Faceva un freddo boia e non passò molto che iniziai a sentire un formicolio alle gambe e dolore ai piedi. Mio padre, impegnato con un tronco piuttosto grande, si accorse che qualcosa non andava guardandomi in volto. Ero pallido come un cencio e rimanevo fermo, immobile. Non avevo nemmeno la forza di lamentarmi. Non esitò un attimo e, sollevatomi di peso, mi portò ai margini del bosco nella vicina abitazione del vecchio Salvatore dove la moglie, una arzilla donnetta calabrese, mi fece accomodare in cucina davanti al camino. Mi tolse delicatamente gli stivali e le calze, frizionandomi entrambi i piedi a lungo con della sugna, il grasso del maiale non lavorato, con il quale un tempo s’ingrassavano gli scarponi. A poco a poco il sangue tornò a circolare regolarmente e io recuperai la sensibilità. Da quel giorno, facendo tesoro dell’esperienza, evitai di infilarmi stivali da pioggia per stare a lungo nella neve. Sul taglio della legna influivano anche le fasi della luna che suggerivano regole e buone pratiche. La legna da ardere andava tagliata d’inverno, da novembre in poi, solo in luna calante. Desiderando un bosco sano e forte, era ancor meglio anticipare il taglio a ottobre, in luna crescente. Disboscando in quel periodo la macchia si rigenera rapidamente ma la legna pesa di meno e chi faceva il mestiere del boscaiolo storceva il naso, sostenendo che con meno peso c’era meno guadagno. Per il legname da opera, evitando che marcisse sotto le intemperie, il taglio era consigliato, indipendentemente dalla luna, negli ultimi giorni di marzo. Una scelta che l’avrebbe reso quasi impermeabile. Il legno necessario per una baita non poteva essere scelto a caso: tagliato d’inverno, in luna calante, per durare a lungo. La stessa linea di crescita di un albero è sempre stata importante e ci sono differenze anche se tutti gli alberi crescono in verticale. L’andatura di crescita può salire diritta ma anche girare a destra o a sinistra. Se si vuol lavorare il legno per delle scandole o una grondaia, occorre lasciar perdere quello dalla corteccia che si avvita: prima o poi si torcerà. Gli stessi fulmini scelgono gli alberi dove cadere. Mai su quelli ad andatura dritta, sempre su quelli che “girano” tant’è che la lésna, come chiamiamo noi la saetta, provoca uno squarciamento che scende giù a spirale, dalla cima al piede. Se un albero soffre e stende a fogliare, bisogna mozzargli subito la cima in luna piena. Se si è attenti, svelti e non è troppo compromesso, si riprenderà mentre con certe lune anche il solo taglio di un ramo potrebbe essere esiziale e condurre la pianta a morte certa. Tutto ciò a conferma di quanto insegnava Mario Rigoni Stern quando sosteneva che il bosco ideale non è quello lasciato alla crescita spontanea e disordinata, quanto piuttosto quello coltivato dalla mano dell’uomo. Scriveva nel suo Arboreto salvatico (Einaudi,Torino,1991): “Si sa che la migliore foresta, la più utile all’uomo sotto ogni aspetto, non è la foresta vergine o quella abbandonata a se stessa, ma quella mista, disetanea e coltivata. Lo dicono da tempo l’esperienza e gli studiosi che tutta la vita hanno dedicato al bosco; e per coltivarlo, per avere i benefici, bisogna appunto tagliare o agevolare lo sviluppo. La foresta ci deve dare legname da opera e da carta, legna per riscaldarci. E anche alberi di natale per ricordare il ritorno del Sole e la nascita di Cristo”. Arboreto salvatico è un catalogo di venti piante in cui mito, credenze religiose e popolari, conoscenze scientifiche, testimonianze storiche, descrizioni paesaggistiche si stratificano e si intrecciano ai ricordi personali del grande vecchio dell’altipiano di Asiago. Leggendolo si comprende quanto l’uomo si sia servito degli alberi, portandone grande rispetto, ammirandone la bellezza e sfruttandone con criterio i tanti utilizzi. Chi ha frequentato i boschi e “fatto legna” può ben comprendere la lezione di Rigoni Stern e impegnarsi a fare farne un arboreto “salvatico”, scegliendo – con un utilizzo ragionevole – di salvare insieme agli alberi anche se stesso.
Marco Travaglini
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