La Napoli di Raffaele La Capria, chi resta e chi fugge

Al Carignano, sino al 13 ottobre, “Ferito a morte” con la regia di Roberto Andò

Ho terminato nei giorni scorsi la lettura di “Ferito a morte”, il romanzo con cui Raffaele La Capria – scomparso nel giugno di quest’anno a tre mesi dai festeggiamenti del suo centesimo compleanno – aveva vinto lo Strega nel 1961, sopravanzando di un voto solo “Delitto d’onore” del nostro Giovanni Arpino e “Ballata levantina” di Fausta Cialente: e pagina dopo pagina mi chiedevo come sarebbe mai stata la trascrizione teatrale, questo “adattamento” portato questa settimana al Carignano dal Teatro di Napoli – Teatro Nazionale (coproduttori Fondazione Campania dei Festival, Emilia Romagna Teatro ERT – Teatro Nazionale e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale (una gran bella importante compagine) per il cartellone del nostro Stabile, regista Roberto Andò e adattatore Emanuele Trevi (anche lui Premio Strega, 2021, con “Due vite”). Come portare in palcoscenico un romanzo che “parla di tutto e di niente” (a pochi mesi dalla morte, Dudù La Capria chiese a Trevi : “Senti, ma di che parla ‘Ferito a morte’?”), quegli incanti marini e quelle scorribande giovanili descritte sotto il pelo dell’acqua, a cominciare da quella “spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come un reattore quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo del mattino”, quella Grande Occasione Mancata da un colpo d’arpione, “la freccia inutile”, quel mistero della “vita che nel momento decisivo ti abbandona.” Come?

Difficoltà visive, intuizioni e invenzioni che sapessero trasportare lo spettatore in un mondo parallelo, all’ombra di Palazzo Donn’Anna, lungo le rive dell’ampio golfo; come gli facessero sentire tutto quel respiro, quello sciabordio vitale che ha dell’incantesimo. Gli artefici della scommessa pienamente vinta, avvincente, sono Luca Scarzella per i video, le riprese acquatiche, la luce dei raggi del sole visti da sotto in su, il lento girovagare tra le acque azzurre, Hubert Westkemper per il suono e Gianni Carluccio per le scenografie, il lettino-pensatoio – un’isola appartata, lontana da tutti – di Massimo (che pare raccogliere attorno a sé realtà e fantasmi, come il Marcello della “Dolce vita”) da un lato e la grande terrazza, in alto, riflessa nel cielo, del Circolo, i testi e le battute che s’animano proprio grazie all’apparato che Carluccio si è inventato.

Un titolo suggerito da Peppino Patroni Griffi, in luogo dell’originale “Leoni di giugno”, dieci capitoli, i testi come frastagliati, sfuggenti, improvvisi, una scrittura che è “flusso di coscienza”, andando qui persino alla ricerca del nome di Joyce, un monologare interiore incessante, un fluire senza posa di personaggi che sbucano inaspettati nella pagina scritta e di pensieri scaturiti dal di dentro, una polifonia che insegue i ricordi e i preparativi dell’allontanamento del protagonista dalla propria inquietante quanto malata realtà (come il Moraldo di Fellini, via da Rimini, “quelle voci sono sempre un poco di falsetto, dicono e nascondono, ambiguamente cercano di difendere anzitutto se stessi, le proprie ragioni di vita”, scriveva Giorgio Barberi Squarotti in una prefazione al romanzo), di amori e di disillusioni, di ferite e di panorami, di aspirazioni e di fughe. Un gruppo di amici, quelli che potevano essere il gruppo di Dudù, con Francesco Rosi, Antonio Ghirelli, Patroni Griffi e Giorgio Napolitano, una bella giornata di sole del 1954, per arrivare negli ultimi tre capitoli all’inizio dei Sessanta, mettiamo, i “leoni al sole” di Caprioli o i “vitelloni” felliniani, una giovinezza, con i nomi di Ninì, di Sasà, di Cocò – ma nemmeno poi più tanto, gli anni sono già corsi in avanti -, sotto il cielo di Napoli, una città “che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”, tra le “evasioni” in mare e i tavolini del Middleton e la terrazza del Circolo nautico. Il Circolo che “non era più soltanto un posto noioso che ti sottoponeva alla logorrea dei soci, al logorio del tempo, no. Il Circolo diventava un osservatorio, e da quell’osservatorio tu potevi spingere lo sguardo sull’odiata classe media, causa ed origine di tutti i mali del sud”. Tra il riversarsi del tempo lasciato scivolar via, della perdita di patrimoni, delle stupide chiacchiere, di pettegolezzi, di scherzi tremendamente infantili, di permanenze al tavolo del poker capaci di durare due giorni interi, di amori e amorazzi, c’è chi resta come Ninì, il fratello-pagliaccio, che giorno dopo giorno costruisce la propria farsa e che di quelle chiacchiere vive, e chi fugge, come Gaetano, pronto ad andarsene al nord: portatori entrambi di ferite che lacerano, accettate e no. Si ride, ci si diverte, ma il puzzo di morte si sente tra quelle marionette che si sfidano a vivere. Anche l’apparizione finale di Sasà l’avverti come un requiem che nessuno cicatrizzerà mai.


Roberto Andò costruisce uno spettacolo che rispetta il divertimento e l’ironia dell’autore, la critica verso una società e una città, che con devozione ricalca le pagine di quello che è considerato lo spartiacque della letteratura italiana; coglie appieno l’occasione per ricordare a tutti che è uomo di cinema e quel pranzo domenicale in casa dei De Luca è un impagabile e variopinto e pirotecnico susseguirsi di primi piani, dove una compagnia, fatta di visi più (televisivi o sullo schermo) o meno (ahimè) noti, si mostra appieno in tutta la sua eccellenza. Andrea Renzi è il Massimo adulto, che mette sul piano la propria disillusione e guarda con un velo di tristezza al suo specchio giovanile, Sabatino Trombetta, e all’entusiasmo che lo pervade. Un successo personale per Giovanni Ludeno come Ninì e per Gea Martire come mammà premurosa, per la nonna vivacissima e nostalgica di Aurora Quattrocchi, per la solitudine povera, per la disperazione di Sasà vissuta con poche note, ma intimamente convincenti, da Paolo Mazzarelli. Applauditissimi con i loro compagni al termine, in uno spettacolo che lascerà il segno nella stagione. Un solo consiglio, non perdetelo. Si replica sino a domenica 13.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Lia Pasqualino

Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Articolo Precedente

ASL To5, tutelare ospedali esistenti

Articolo Successivo

Il grande tennis è a Torino. Tutti gli eventi

Recenti:

IL METEO E' OFFERTO DA

Auto Crocetta