Srebrenica, 11 luglio 1995. Il genocidio di fine secolo

di Marco Travaglini* 

Srebrenica, dall’antico nome latino Argentaria si può tradurre in “città dell’argento”. Prima del 1992 era conosciuta per le terme, l’estrazione di salgemma e le miniere. Poi, dissoltasi la Jugoslavia, la storia si è incaricata di consumare tra quelle montagne l’ultimo genocidio in terra europea dalla fine della seconda guerra mondiale. In quella località tra le terre alte della Bosnia nord-orientale circa diecimila musulmani bosgnacchi vennero trucidati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi. L’atroce crimine di massa venne consumato tra l’11 e il 21 luglio 1995, dopo che la città, assediata per tre anni e mezzo, il 10 luglio era caduta nelle mani del generale Ratko Mladić. Nel marzo del 1993 Srebrenica era stata proclamata enclave dell’Onu, in virtù della risoluzione 819. In pratica l’intera area doveva essere protetta, difesa. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, infatti, inviò un piccolo contingente di qualche centinaio caschi blu.

Dietro l’orrore, anche viltà e vigliaccheria dei caschi blu dell’OnuIn un primo momento erano canadesi, sostituiti poi dagli olandesi del terzo battaglione aeromobile. I soldati del “Dutchbat” si segnalarono soprattutto per il disprezzo verso la popolazione civile e per il mercato nero con gli assedianti. Una vergogna per la comunità internazionale tant’è vero che, quando i serbo-bosniaci misero in atto l’attacco finale, i soldati dell’Onu abbandonarono le loro posizioni, consegnarono le armi senza sparare un colpo e si acquartierarono nella loro base nel sobborgo di Potočari. Così, senza muovere un dito, affogando in un mare d’ignavia e disprezzo, la comunità internazionale volse lo sguardo altrove e quarantamila persone furono lasciate nelle mani delle forze serbo-bosniache e dei paramilitari che tra l’11 e il 13 luglio separarono le donne e i bambini dagli uomini considerati in età militare (dai dodici ai settant’anni), deportando le prime e massacrando in una decina di giorni di sangue e violenza tutti i maschi. Non risparmiarono nemmeno molte donne, soprattutto le più giovani, che vennero prima stuprate e in diversi casi uccise sotto gli sguardi spenti e vuoti dei caschi blu.

L’orrore di fine secolo
Seguendo la logica della cancellazione della memoria e delle identità, gli esecutori dell’eccidio privarono le vittime dei documenti, bruciandoli. Poi gettarono gli uomini, compresi quelli feriti ma ancora vivi, nelle fosse comuni. Alla fine del conflitto, per nascondere le prove del genocidio, queste fosse vennero riaperte con le ruspe dagli stessi carnefici e i resti delle vittime trasportati, orribilmente mutilati, in fosse comuni “secondarie”, più piccole, o addirittura “terziarie”. Ci sono casi documentati in cui i resti di una stessa persona sono stati ritrovati in tre o più fosse comuni, anche a più di trenta chilometri di distanza. È una storia che sembra non aver mai fine se consideriamo che ancora oggi ci sono fosse comuni che continuano a essere rinvenute. Nel 2003, ottavo anniversario del massacro, l’ex Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton inaugurò il Memoriale di Potočari. L’anno dopo, il 19 aprile 2004, il Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (Tpi) definì quello di Srebrenica un “genocidio”. Quasi tre anni dopo, il 26 febbraio 2007, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja negò le responsabilità dirette della Serbia, asserendo che l’unica colpa di Belgrado fu non aver fatto tutto il necessario per prevenirlo. La Corte, con la medesima sentenza negò i diritti al risarcimento per i famigliari delle vittime.

Una tragedia che pesa sulla storia delle Nazioni UniteRestarono le tombe, il ricordo di uccisioni, saccheggi, violenze, torture, sequestri, detenzione illegale e sterminio. Impossibile sciogliere quel grumo di indicibile dolore. Era evidente che l’Unione europea desiderasse assicurare alla decisione dell’Aja lo status di “chiusura della pagina bellica sui Balcani”. La prima reazione di Javier Solana (all’epoca Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea) fu più che chiara: “la sentenza contribuirà alla chiusura del dibattito sulla drammatica storia che è stata dolorosa e dannosa per molti…” E aggiunse, quasi avesse posato una lapide, che “la più alta corte al mondo, alla fine, ha chiuso questa pagina”. Non era però la verità. “I tragici fatti dei Balcani continuano, non si esauriscono nel ricordo come avviene per altri. Chi li ha vissuti, chi ne è stato vittima, non li dimentica facilmente. Chi per tanto tempo è stato immerso in essi non può cancellarli dalla memoria”: così scrisse con amara saggezza, nella prefazione al libro “Al di là del caos”, Predrag Matvejevic. Eppure, finita la guerra, la comunità internazionale sembrava aver almeno intuito la gravità dei fatti e delle proprie responsabilità. Secondo Richard Holbrooke, artefice degli accordi di Dayton, Srebrenica fu la prova “dell’insuccesso della Nato, dell’Occidente e delle forze di pace dell’Onu”. “La tragedia di Srebrenica peserà sempre sulla storia delle Nazioni Unite”, chiosava Mark Brown, in rappresentanza del segretario generale Kofi Annan, che aveva pronunciato la stessa frase a Sarajevo nel 1999.

Ergastolo per i boia Radovan Karadžić e Ratko MladićParlando di “una delle pagine più oscure della storia europea”, l’allora ministro degli esteri britannico Jack Straw esprimeva la propria amarezza per quella che era stata “una vera vergogna per la comunità internazionale: l’aver permesso che questo male accadesse davanti ai nostri occhi”. Persino l’ambasciatore degli Stati Uniti a Sarajevo, Richard Prosper, nell’intento di quadrare il cerchio, dichiarò, nel corso di una conferenza stampa tenutasi nel 2005 che “la responsabilità per i fatti di dieci anni fa a Srebrenica è anche della comunità internazionale, e che l’attuale amministrazione americana è risoluta ad agire ogni qualvolta eventi di questo tipo possano accadere”. Commenti a parte restano alcuni fatti. Radovan Karadžić e Ratko Mladić, i due principali boia, sono stati condannati all’ergastolo per genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. Altri non hanno pagato per i loro crimini e, con il tempo, si tende a rimuovere, dimenticare. Ci sarà mai una giustizia piena? Ventisette anni dopo rimane l’amara sensazione di ingiustizia e di impotenza nei sopravvissuti e un pericoloso messaggio di impunità per parecchi dei carnefici di allora, in molti casi ancora a piede libero e considerati dagli ultranazionalisti alla stregua degli “eroi”.

Il grido delle madri: “Odgovornost”, responsabilitàÈ sufficiente un rapido sguardo a cosa accade attorno a noi per comprendere che da quel dramma non è stato tratto granché d’insegnamento. Dall’Ucraina ai tanti conflitti ai quattro angoli del mondo, spesso dimenticati. In tutti questi anni in molti ci siamo impegnati a raccontare ciò che accadde a Srebrenica affinché il grido di madri, mogli e figlie di chi venne ucciso nella città “dell’argento e del sangue” non resti inascoltato. Da anni queste donne coraggiose, durante le loro proteste non violente che si svolgono l’undici di ogni mese a Tuzla srotolando gli striscioni composti di federe ricamate con i nomi dei loro cari scomparsi, pronunciano una parola: “Odgovornost”, responsabilità. Chiedono verità e giustizia, accertamento delle responsabilità, condanne per tutti i criminali. È un modo per offrire voce e forza a queste donne. Questi ventisette anni post bellici in Bosnia, in quello che era il cuore più jugoslavo della Jugoslavia, è capitato di tutto dopo la “pace fredda”: crisi economica, speculazione, aumento delle disuguaglianze, criminalità e corruzione. Accompagnate dalla mancata o ritardata e parziale giustizia, dall’impunità dei colpevoli alla frustrazione delle vittime, spesso obbligati – gli uni e le altre – a vivere fianco a fianco.

Negazionismo come strategia di StatoIl potere costituito vorrebbe dimenticare e far dimenticare cosa accadde. Cosa c’è di più catartico che omettere, nascondere responsabilità su crimini e aberrazioni? Un genocidio non avviene a caso, non è il frutto di un incidente, di un raptus dentro una logica violenta. Da più di cinque lustri, i serbi bosniaci e la Serbia si sono impegnati a negarlo, classificando ciò che accadde come uno dei tanti crimini che vengono commessi durante un conflitto. Il negazionismo è diventato una sorta di strategia di Stato. Qualcosa di simile ad una auto-assoluzione considerato il fatto che molti degli attuali politici sono le stesse persone che avevano qualche responsabilità o ruolo pubblico all’epoca del genocidio. E la loro ideologia è ancora la stessa: un marcato nazionalismo che, negando i fatti, nega le proprie colpe e continua a provocare dolore e sconcerto alle vittime di tanta violenza. Sono queste le ragioni che obbligano a ricordare, con maggior tenacia di prima, la tragedia balcanica di Srebrenica e di tutte le altre realtà dove si consumarono delitti, pulizia etnica, stupri di massa.

 * Marco Travaglini è autore del libro “Bosnia, l’Europa di mezzo. Viaggio tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente”, edito dalla casa editrice Infinito, con la prefazione degli storici Gianni Oliva e Donatella Sasso. La foto è di Paolo Siccardi 

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