Le avventure alla Settima conferenza operaia del PCI a Napoli

La Settima Conferenza operaia del PCI  si svolse a Napoli dal  3 al 5 marzo 1978. Il sindaco della città partenopea, una delle “capitali della crisi”,  era a quel tempo Maurizio Valenzi. La relazione introduttiva venne tenuta da Giorgio Napolitano. Tra i tanti intervennero Luciano Lama, Sergio Garavini, Gerardo Chiaromonte e, ovviamente, Enrico Berlinguer.

La nostra delegazione era piuttosto composita e partecipata: una ventina di delegati dei quali ero responsabile, nonostante i miei vent’anni. Il viaggio verso Napoli fu alquanto avventuroso. Saliti sul treno in due gruppi, tra Domodossola e Fondotoce, raggiungemmo la stazione Centrale di Milano dove era previsto il cambio di convoglio. Uno dei nostri, ferroviere che lavorava in dogana, disse: “Tutti con me! So ben io dove bisogna andare!”. E noi, fiduciosi, lo seguimmo, salendo sui vagoni di un treno fermo tre binari più avanti. Meno male che era “del mestiere”: per un pelo non rischiammo di finire al Brennero. Fortunatamente, a scanso di equivoci, per toglierci ogni residuo di dubbio, chiedemmo informazioni a un controllore. In fretta la “truppa”, avvertita del tragico errore, si spostò sul binario giusto, accomodandosi nei posti prenotati sulla Freccia del Sud, il direttissimo 590/591 che collegava il capoluogo lombardo con la Sicilia. Ognuno si era portato le sue cose in valigia o in borsa. Restammo a bocca aperta quando il segretario della cellula comunista della Rumianca di Pieve Vergonte mostrò il suo bagaglio: un semplice  tascapane conteneva il minimo indispensabile  per i cambi di calze e mutande, un fiasco di vino, un salame felino lungo quasi mezzo metro e un largo filone di pane. Tenne a precisare che i viveri erano la dotazione di base, ridotta all’essenziale per il viaggio d’andata. Partimmo e molti manifestarono i primi segnali di stanchezza. Durante il viaggio notturno accadde un episodio incredibile. Messi in guardia dal capotreno sui frequenti furti ad opera di lesti borseggiatori, ci si attrezzò per assicurare un’adeguata chiusura degli scompartimenti che ospitavano le cuccette. Quattro dei nostri, operai alla Montefibre di Pallanza e alla Cartiera di Possaccio, legarono attorno alle maniglie della porta una cintura dei pantaloni. A notte fonda, transitando sull’Appennino qualcuno tentò di aprire il loro scompartimento incontrando però la resistenza della striscia di cuoio.

Contrariato lanciò un’invettiva che –stando a quanto udirono–  pareva si trattasse di un piccato “Maiali!”. Solo Roberto Spadini, sfoggiando un’invidiabile e britannica flemma, intuì la cosa come un annuncio. “Ho sentito bene. Hanno detto “Giornali!”, e con quell’idea fissa in testa,infilate le ciabatte, andò in lungo e in largo per il treno a cercare quel signore che vendeva i quotidiani. Non trovandolo, sostando il treno alla stazione di Santa Maria Novella a Firenze, scese – sempre in ciabatte – e cercò l’edicola che, a quell’ora, aveva ancora la serranda abbassata. Deluso e dubbioso, scuotendo la testa, risalì. Il resto della nottata trascorse tranquillo e ci lasciammo alle spalle anche la capitale. Dopo l’alba, più o meno tutti svegli,  scostate le tende scure, si guardava dai finestrini il panorama agreste che scorreva davanti agli occhi ancora assonnati. Un delegato sindacale della Montefibre d’origine campana assicurò che entro un’ora abbondante saremmo giunti alla meta. Dieci minuti dopo il treno iniziò a rallentare fino a fermarsi. Il cartello della stazione annunciava “Napoli Campi Flegrei”. Il panico si diffuse all’istante: eravamo a destinazione! Il buon Arturo aveva toppato alla grande e ora tutti cercavano di scendere il più in fretta possibile. Chicco scese in mutande, altri vestiti in fretta e furia, trascinandosi borse e valigie. Spadini scese in ciabatte e quando il treno ripartì si accorse che verso Salerno se ne andavano anche le sue scarpe che, liberatesi dei piedi del povero Roberto, proseguirono orfane e mute verso un ignoto futuro. L’inizio dell’avventura era stato poco promettente ma il seguito non fu da meno. La destinazione della prenotazione alberghiera, per ragioni strettamente economiche motivate dall’inflessibile senso del risparmio di Bruno, il nostro amministratore, ci portò a Torre del Greco, a trenta chilometri da Napoli. Camere dignitose, pulite. Vitto da dimenticare. Tutta la delegazione fuggiva ogni sera verso pizzerie, trattorie, ristorantini nei pressi del luogo dove eravamo confinati, evitando di consumare la cena che faceva parte dell’accordo stipulato. Solo il capodelegazione, vale a dire chi scrive, venne precettato una sera dal maître che l’obbligò a sorbirsi una sciapa minestrina, due fette di spalla cotta che non faceva onore alla parte anteriore della zampa del suino al quale era appartenuta, un formaggino Mio e una mela cotta che, in origine, doveva essere già avvizzita. Dalla sera successiva e dalla seguente l’esperienza venne evitata grazie ad abili sotterfugi.

La Conferenza fu un esperienza per certi versi indimenticabile. Per la qualità del dibattito e per l’intervento che il nostro delegato fece dalla tribuna parlando dell’impegno dei lavoratori chimici del nord a sostegno delle rivendicazioni dei loro compagni del sud. Per il clima che si respirava nel Palasport gremito da oltre quattromila delegati, per le parole di molti e soprattutto di Enrico Berlinguer che riassunse nel suo intervento il senso della scritta che campeggiava alle spalle del palco: “Occupati e disoccupati uniti nella lotta per lo sviluppo civile e produttivo di Napoli e del Mezzogiorno”. Ma fu indimenticabile anche le avventure di alcuni di noi che si persero sui mezzi dell’ Atan, l’Azienda Tranvie Autofilovie Napoli, sui bisogni idrici fatti controvento da un delegato in crisi prostatica nel fossato del Maschio Angioino, dalla valutazione della consistenza della sabbia dell’arenile di Torre del Greco da parte del medesimo che, a causa del buio di una notte senza luna  e di una persistente sfortuna , si rivelò il prodotto di una deiezione canina, dello scontro fisico tra il capodelegazione e Luciano Lama che incocciarono in una svolta tra i corridoi del Palasport e della rissa che venne sfiorata tra la nostra delegazione e quella di Cremona. Su quest’ultimo episodio è utile aprire una parentesi, per specificare bene l’accaduto e le ragioni che portarono la tensione a un passo dallo scontro. Due delegati della Montefibre di Pallanza (dei quali, per eccesso caritatevole, ometteremo le generalità) ogni mattina tardavano tra i venti e trenta minuti la partenza del pullman a causa del ritardo cronico nello sbarbarsi, lavarsi e vestirsi. Il mezzo che doveva portare le due delegazioni, quella del Vco e i cremonesi, a Napoli non poteva muoversi in loro assenza. Se il primo giorno vi furono solo dei brontolii , il secondo la protesta fu più vivace e la terza e ultima mattina scoppiò una vera e propria rivolta che solo la paziente opera di mediazione dei due capidelegazione riuscì a sedare, non senza qualche difficoltà. Terminata la Conferenza il viaggio di ritorno non riservò sorprese se non uno strascico che si potrebbe definire “a scoppio ritardato”. Infatti, tre settimane dopo, ad una assemblea dei delegati chimici che si tenne a Vercelli dove i lavoratori lottavano come tutti quelli del gruppo Montefibre per salvaguardare il processo produttivo e i posti di lavoro, un esponente del Consiglio di Fabbrica di Pallanza ( lo stesso che era intervenuto a Napoli) pronunciò lo stesso discorso, calcando la mano sul fatto che anche in Piemonte c’era la massima disponibilità a discutere il futuro di realtà come quella della provincia del riso a vantaggio di quelle collocate nelle regioni meridionali del Paese. Apriti cielo! Si dovettero sudare le proverbiali sette camicie per assicurare i vercellesi che nessuno voleva vendere la loro pelle ma che si trattava solo di una interpretazione un poco troppo enfatica del concetto solidaristico che univa il nord al sud nella stessa lotta per lo sviluppo. A riprova che non sempre i buoni concetti, alla prova pratica, vengono condivisi con lo stesso entusiasmo.

Marco Travaglini

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