Nelle sale di Palazzo Reale, a Milano, sino al 26 giugno
La luce, sopra ogni altra cosa. La luce che abbaglia, che riempie le stanze e i giardini e le spiagge di gioia, accecante e avvolgente, in alcuni tratti impressa violentemente, che colpisce con tagli diversi gli oggetti che incontra, che inonda, che si espande. “Pittore della luce” è l’immagine che accompagna quel nome, Sorolla – Joaquin Sorolla y Bastida – nella mostra, a cura di Micol Forti e Consuelo Luca de Tena, che Milano, nella sede di Palazzo Reale (dopo una precedente occasione, nel marzo 2012, al Palazzo dei Diamanti di Ferrara), ha voluto dedicare, sino al 26 giugno, ad un grande artista – magnifico, a noi poco noto nonostante i rapporti e le frequentazioni italiani, non certo perché chiuso entro i confini di quella penisola sotto il cui sole era nato – spagnolo (nacque ne 1863, morì nel 1923), coprodotta dal Comune di Milano-Cultura e da CMS Cultura, realizzata in collaborazione con il Ministero della Cultura e lo Sport della Spagna, il Museo Sorolla e la Fundaciòn Museo Sorolla madrileni e altre prestigiose istituzioni museali pubbliche e private. “È stato un maestro di luce – sottolinea il sindaco Giuseppe Sala, nella presentazione in catalogo -, che nei suoi quadri ha l’intensità e il calore che risplende sui mari e nei cieli spagnoli. Grazie al suo virtuosismo cromatico, emergono dalla sua opera lampi di modernità che hanno innovato la pittura spagnola, aprendola alle nuove temperie artistiche affermatesi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento”.
Una pittura di gioia e di forte violenza, che già aveva spinto lo stesso Monet a definire il circa trentenne pittore di Valencia “un gaudente della luce”. Un artista che presto s’impegna a provare per schizzi, a frequentare corsi serali e che nel 1878, quindicenne, mette piede tra mille sacrifici all’Accademia di Belle Arti, lui orfano a soli due anni di entrambi i genitori e allevato con la sorella Eugenia in casa di una zia materna. Poi le opere di Velasquez al Prado che lo affascinano, e i concorsi e i primi premi, una borsa di studio nell’’85 per un soggiorno a Roma di tre anni, i viaggi a Venezia, a Pisa, a Napoli e a Firenze, sempre ad ammirare e studiare le opere dei Maestri, nello stesso anno per la prima volta a Parigi. Parigi ricca di stimoli e di idee, di fermenti non soltanto artistici ma pure sociali, una Parigi che vede in quello stesso anno la grande retrospettiva dedicata a Delacroix e la pubblicazione di “Germinal” di Zola, una città lambita dalle diverse angolazioni della pittura impressionista che lo spinge, lui poco più che ventenne, a ricercare l’indirizzo e l’esattezza e il tono definitivo della propria arte. Ci ritornerà nel 1900, in occasione della Esposizione Universale, per esporre – dopo lunghi ripensamenti – “Triste eredità”, un successo inimmaginato che gli frutterà l’ambitissimo “Grand Prix” e che gli aprirà le porte delle prestigiose gallerie d’arte della capitale francese e di gran parte dell’Europa.
Una immagine forte e “sgradevole”, la comunione della bellezza del mare rappresentato en plein air secondo un imperativo che il pittore fece suo per tutta la vita e un “soggetto emotivamente e socialmente carico”, un folto gruppo di bambini, i piccoli corpi nudi colpiti dalla luce del sole, poliomielitici, rachitici, storpi, ciechi, rudimentali bastoni a reggerne alcuni, che un Fratello del vicino Ospedale dell’Ordine di San Giovanni di Dio ha accompagnato un giorno sulla spiaggia di Malvarrosa, vicino Valencia. Il titolo originale doveva essere “I figli del piacere” – all’epoca simili ragazzi erano ritenuti il frutto di esistenze rovinate da vizi e alcol -, dipinto l’anno precedente, titolo mutato su consiglio dell’amico Vicente Blasco Ibànez, repubblicano e socialista convinto, uomo d’intensa attività politica, che già aveva dato alle stampe vari romanzi nelle cui pagine aveva descritto le miserie dei pescatori e dei contadini valenciani, che spingeva l’artista a guardare con occhio sempre più critico e intenso ad una società malata e colpevole, povertà e prostituzione non ultimi peccati. Nasce “Giorno felice” (o “Ritorno dalla prima comunione”, 1892) per l’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Madrid, il miserevole ambiente di una baracca sulla spiaggia di Valencia, un nonno cieco e una nipotina che lo ossequia con un bacio sulla mano, appena tornata dalla prima comunione, l’abito bianco e la luce del sole che filtra tra le assi in cattivo stato senza toccare minimamente i personaggi in primo piano mentre forse un lembo di speranza è dato da quell’apertura sulla spiaggia carica di sole, il mare sullo sfondo. Nasce soprattutto “La tratta delle bianche” (1894), quattro povere prostitute, addormentate e chiuse nei loro scialli a riscaldarsi come possono, tutte in giovane età, pochi bagagli in primo piano, trasportate all’interno di un vagone ferroviario sotto l’occhio di una vecchia sorvegliante: il passaggio da un luogo di lavoro ad un altro, triste pratica diffusa all’epoca, un’opera di estremo realismo, le pareti del claustrofobico, soffocante vagone a far da confine con il mondo, la dolcezza triste dei visi, una tela dai colori cupi, dove il solo rosa di una gonna sembra portare con sé un sottile senso di leggerezza, una tela che racchiude un’intera narrazione, un passato e un futuro, l’esistenza delle vittime, una struggente emozione assai potente.
La luce torna a inondare “Cucendo la vela” (1896, con grande felicità degli organizzatori l’artista accetterà di presentarla alla Biennale veneziana del 1905), lo sguardo del pittore pronto a catturare nell’immediatezza le scene che gli cadono sotto gli occhi. Qui un gruppo di donne, i visi aperti al sorriso, due uomini in secondo piano, in un momento di pausa della pesca rammendano quelle parti che le tempeste possono aver rovinato. È un’allegria quella vela, i grumi di luce buttati qua e là e le brevi piccole quasi impercettibili ombre (qualcuno ha parlato di “latente luminosità delle ombre”), l’esplosione del tessuto, le pieghe e l’arruffarsi vaporoso; è un’allegria la tavolozza di colori e le pennellate vigorose, il sole che passa attraverso e i giochi cromatici impressi sulla tela, la gioia sincera del lavoro, è un’allegria quella distesa di piante e di fiori che occupano gran parte dell’interno, come nel “Giorno felice” ancora un pezzo di mare e di cieli azzurri sullo sfondo, anche ad aprire un varco al cambiamento. È un’allegria tutto quel bianco che riempie le spiagge nella quotidianità delle gite o dei soggiorni di Clotilde, la moglie di Sorolla, e dei loro figli (“Istantanea, Biarritz”, 1906, lei con una piccola Kodak tra le mani a riprendere gli attimi più preziosi, anche qui pennellate rapide e la materia del colore che s’imprime prezioso sulla tela, pennellate “sfrangiate” che stringono forte il personaggio e lo sfondo), l’incedere di Maria, la figlia maggiore, sulla spiaggia, mentre i raggi del sole colpiscono lo schiumeggiare della riva, gli abiti immacolati secondo le leggi della moda (“Antonio Garcia”, 1909). Il bianco, il dilagare del colore, di questo colore, diviene predominante, allontana la necessità, come era in passato, di dare tratti esatti ai volti. Ne nascono capolavori come “Sotto la tenda, la spiaggia di Zarauz” (1910), un tripudio di sole e di ombre, di vesti e di ombrellini e di cappelli di paglia, adagiati sull’aranciato della sabbia; o come “La siesta” (1911), dove l’artista ritrae la famiglia al completo nel riposo di un pomeriggio, solo l’abito di Clotilde spruzzato di un tenue rosato, immersi tutti nella forte, compatta macchia fatta di verde e di giallo che li circonda.
Anche l’interesse per la luce e i colori dei giardini colpisce inevitabilmente la pittura di Joaquin Sorolla, siano essi giardini privati o quelli dell’Alcazar di Siviglia o dell’Alhambra di Granada (sia quello della grande casa che il pittore s’era fatto costruire nel 1911 dall’architetto Enrique Marìa Repullés a Madrid, a racchiudere le aree di abitazione e di lavoro), un susseguirsi di archi e portali e distese di fiori che si riflettono in fresche vasche d’acqua. Mentre il successo europeo s’ingigantisce; mentre affida la propria arte ai ritratti (“l’anima di un ritratto è impalpabile e sfuggente e deve essere colta dal pittore con maggiore precisione e rapidità di quella che serve per rendere la tinta di una nube o il riflesso della luce su un’onda che si frange”, ebbe a sottolineare Sorolla), al chiuso di una sala o all’aperto, come quello newyorkese, esuberante, “grandioso”, di Louis Comfort Tiffany, ancora un signore in abito bianco, la tavolozza in mano e la tela davanti, inondato alle sue spalle di una quantità inverosimile di fiori, dai più svariati colori, ancora offerti con pennellate calde e ampie, robuste e concrete; mentre lega la propria arte allo studio del mondo greco (in Grecia non metterà mai piede ma subirà il completo fascino dei fregi del Partenone durante un suo soggiorno londinese, in occasione di una personale nel 1908 alle Grafton Gallieries) e romano (in passato, duranti gli anni del suo apprendistato, la possibilità di studiare l’antichità della capitale), ricavandone calde suggestioni nella composizione e nel gusto per le figure monumentali – basterebbe il solo esempio della “Veste rosa” (1916), “uno dei migliori che abbia mai realizzato”, due donne colte dopo il bagno, al riparo all’interno di una cabina dei raggi del sole che provengono dalla spiaggia attraverso i legni sconnessi, il corpo della ragazza bruna con indosso una veste rosata che aderisce con sensualità, a rappresentare in perfetto esempio statue antiche dal panneggio bagnato; in questo momento di nuovi lavori e di idee da sviluppare, fondamentale è l’incontro con il mecenate americano Archer Milton Huntington, appassionato di arte e scultura spagnole e fondatore nel 1904 dell’Hispanic Society of America di New York. L’uomo ha conosciuto l’arte di Sorolla a Londra, ne è rimasto entusiasta: la mostra nell’Upper Manhattan ottiene un successo senza precedenti e viene replicata con altrettanta affluenza di spettatori e di acquirenti a Boston e a Buffalo, due anni più tardi a Chicago e Saint Louis. Tra il 1910 e il 1911 Sorolla accetta una committenza straordinaria da parte di Huntington, un lavoro che assorbirà gran parte delle sue forze negli ultimi anni della vita: il ciclo “Visione della Spagna”, pannelli a olio di tre metri e mezzo d’altezza per una lunghezza complessiva di 70 metri, che lo vedrà impegnato sino al 1919 e per il quale l’artista si vedrà costretto a viaggiare e a documentare i costumi e l’umanità delle varie realtà del paese, i paesaggi e gli abiti tipici e i visi e il folklore.
L’ultima immagine di Joaquin Sorolla è quel giardino di casa sua, tanto desiderato, ancora un’occasione perché ogni colore trovi la propria esplosione, perché le luci e le ombre s’imprimano ancora una volta, perché ogni angolo prenda vita, i vasi di gerani, il roseto, i colonnati, lo stagno, le buganvillee che tutto invadono. Tra quelle visioni, le ultime, il pittore nel 1920 verrà colpito da quell’ictus che lo terrà lontano dal suo lavoro e che tre anni dopo, il 10 agosto 1923, lo porterà alla morte. Tra le ultime tele di Sorolla, “Giardino di casa Sorolla con sedia vuota”, le ombre e le luci che filtrano attraverso l’intricarsi delle foglie, i ricami sul terreno e sulla casa sullo sfondo. Consuelo Luca de Tena ricorda: “La poltrona di vimini su cui Sorolla siede in tante fotografie, mentre chiacchiera o dipinge, è vuota. Come un commiato.”
Elio Rabbione
Nelle immagini, nell’ordine: “Istantanea, Biarritz”, 1906, olio su tela, Madrid Museo Sorolla; “Cucendo la tela”, 1896, olio su tela, Galleria Int. d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, Venezia; “Tratta delle bianche”, 1894, olio su tela, Madrid Casa Sorolla; “Triste eredità”, 1899, olio su tela, Colleciòn Fundaciòn Bancaja, Valencia; “Sotto alla tenda, la spiaggia di Zarauz”, 1910, olio su tela, Madrid Museo Sorolla; “Giardino di casa Sorolla”, 1918-1919, olio su tela, Madrid Museo Sorolla; “Ritratto di Louis Comfort Tiffany”, 1911, olio su tela, The Hispanic Society of America, New York.
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